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KERBAK&R Illustri colleghi, Invoco il vostro giudizio sopra un’osservazione da me fatta a caso, in un genere di studi in cui appena posso dirmi ospite, quello della critica storica applicata alla letteratura italiana. Voi sapete quanta importanza abbia oggidì, nei giudizi letterari, la ricerca dei luoghi originari, o, come dicesi, delle fonti, onde gli autori di opere d’immaginazione hanno desunto la materia del lavoro. Quel- la che dicesi creazione artistica, ricercata nelle sue origini, si vede ridotta, anche nelle opere di più spiccata originalità, ad una spe- cie di elaborazione o ricomposizione di elementi fantastici, tolti da altre più antiche invenzioni; onde, per via del riscontro di ciò che l'autore ha ricevuto con quello che ha prodotto, si viene a deter- minare il particolar carattere dell'opera sua e il suo vero e proprio Digitized by ^OOQ Le - 2 — merito. Ora a me intervenne di scoprire, così almeno mi sono im- maginato, una di queste fonti, il luogo classico, voglio dire, onde il Monti avrebbe tolto il concetto ed in parte anche la forma di uno dei suoi componimenti minori, dell’Ode intitolata: Invito di un solitario ad un cittadino. La cosa non è stata notata, per quanto io ne sappia , da nessuno dei critici che con maggior ampiezza d’indagini ed acume di giudizio han trattato della poesia Monda- na— E nulla trovai detto, circa l’origine di questa Ode, in un bellis- simo libro, recentemente pubblicato, dove la ragione storica ed este- tica delle poesie del Monti è vagliata e discussa in modo tale, da compiere le critiche precedenti ed esaurire, come suol dirsi, il ric- chissimo argomento (1). Ma non deve parer strano che a me sia av- venuto di scoprire cosa qualunque, sfuggita alla diligenza di tali ri- cercatori, se si pensa che la fortuna alcuna volta conduce i disadatti a fare certe scoperte, a cui non arrivano gli accorti, coi più validi ar- gomenti dell’ingegno e della dottrina. Rimane a vedere se veramente io sia stato qui uno scovri tore fortunato, se, cioè, la mia osservazione abbia alcun fondamento di verità, se infine la questione da me trat- tata sia propriamente una questione trattabile.In caso diverso la mia scoperta andrebbe nel novero delle tante che si fanno in giornata dai Calandrini della erudizione storica e critica, i quali ai ciottoli raccattati pel greto dei torrenti dànno il nome di Eutropia e se n'empiono fidenti le tasche 1 Per uscire in qualunque modo dallo stato di perplessità in cui mi trovo tra l’idea di un felice indovi- namento ed il sospetto di una mia propria allucinazione, vi esporrò particolarmente, o egregi Colleghi, il processo critico da me isti- tuito sul luogo in questione, pur di provocarne una sentenza certa e terminativa 1 NeU’/noi^o del Monti non si accenna ad alcun personaggio reale in cui si nasconda il cittadino invitato; nè la persona del solita- rio, che, per disgusto della vita aulica, si è ridotto a vivere tra i boschi, punto punto si accorda col costume del Poeta, o con alcuna (l) Sulle poesie di Vincenzo Monti — Studi di B. Zumbini — Firenze, Successo- ri Le Monnier, 1886 . Digitized by ^jOoq le — 3 — particolare circostanza della sua vita. Manca di questo componi- mento il motivo immediato, storico e reale ; non potendosi ri- guardare come tale il fatto a cui si allude, in sul fine, della rivolu- zione francese, minacciosa in quei giorni (1793) alle porte d’Italia. Codesta allusione politica è stata certamente appiccicata ali’ Ode, per darle un certo colorito di attualità , e, malgrado l’ artificioso legamento, appare veramente estranea all'argomento della mede- sima. Del resto il Monti fu tutt’ altro che un letterato anacoreta , rifuggente dai circoli cittadineschi ed amante della vita solitaria. E il suo scampo contro i rivolgimenti e gli sconquassi che dove- vano essere suscitati di qua delle alpi, dai nipoti dei Druidi, egli seppe procacciarselo altrimenti, che rifugiandosi in qualche soli- tudine campestre 1 Quando scriveva questi versi, il nostro Poeta, cliente onorato di famiglia principesca e papale, se la passava as- sai contento e sicuro in Roma, creduta tuttavia rocca inespugna- bile contro la rivoluzione. È pertanto ovvio supporre, che egli ab- bia attinta l’ispirazione di quest’ode non da un sentimento proprio e personale , nè da alcun fatto reale , ma da una fantasia pu- ramente artistica, da un luogo poetico tolto ad imitare. A questo modo di poetare, sopra motivi appresi per lettura, era egli natu- ralmente portato da quella sua soverchiante immaginazione, pas- siva in certo modo ed eclettica, epperò aperta ad ogni genere d’im- pressioni estetiche; onde riusciva mirabilmente atto a riprodurre e riverberare, nell’opera del comporre, ogni sorta di concetti altron- de ricevuti. Nessuno dei nostri poeti classicisti sentì al pari di lui un’ ammirazione sincera e fervida pei grandi poeti di ogni nazione, o antichi o moderni, o meridionali o boreali, le cui sovrane bel- lezze sapeva cogliere a volo, anche nelle traduzioni; servendo- gli di eccellente ermeneutica la propria geniale intuizione poetica. Si può pertanto presumere che l'invenzione di quest’Ode non sia punto più originale che quella di tanti altri suoi componimenti di maggior lena , dove la materia poetica vedesi desunta e talvolta riportata per intiero da luoghi più o meno noti di classici autori. Questo lavorar di musaico, per cui lo scrittore trascorre dalla li- Digitized by Google - 4 - bera imitazione sino alla copia ed alla traduzione, diventa un'arte sui generis, alla quale il magistero ammirabile dello stile riven- dica un proprio e singoiar merito , e non la si deve in nessun modo confondere con quell’arte menzognera degli imitatori inetti e petulanti, che si dimanda plagio. Anche V Invito dunque deve « essere imitazione, riproduzione, traduzione di qualche bel luogo poetico, che al Monti sia venuto fatto di ammirare nelle sue sva- * riate letture. Or dov’è questo luogo? Se per iscoprirlo conveniva rintracciarlo studiosamente e con proposito deliberato , altri mi avrebbe certamente prevenuto nella scoperta. Ma la brevità ed il carattere lirico del componimento dovettero distogliere qualunque più dotto e diligente critico dalla ricerca dell’esemplare, onde era stato imitato. Leggendo io , poco tempo fa , un dramma dello Shakespeare , e dei meno noti e celebrati , quello che s’ intitola « Come vi pia- ce » (As you like it), mi avvenni in un passo, o direi episo- dio lirico, che mi destò viva la reminiscenza delle strofe più bel- le dell’ Ode Montiana. Avendo quindi riscontrato per curiosità i due luoghi poetici, mi accorsi che il poeta italiano aveva tolto dall’inglese e il concetto dell’Ode e i pensieri in cui si svolge, e le immagini ond’ è rivestito, salvochè il pensiero lirico dell ’ Invito è dallo Shakespeare realizzato ed incarnato in un personaggio , di cui sono molto particolarmente descritti il carattere e le circostanze in mezzo a cui vive. Codesto dramma fu composto dal sommo tra- gico verso l’anno 1600 cogli elementi di una leggenda pastorale, «La bella Rosalinda » pubblicata pochi anni innanzi da Thomas Lodge, ad imitazione delle favole boschereccie dei poeti Italiani, allora molto in voga. Non occorre che io vi spieghi come Shakespeare abbia sa- puto ravvivare e quasi ricreare l’argomento trattato dal suo oscuro coetaneo, con quella felicissima divinazione poetica onde ricerca e scopre le più intime e secrete pieghe del cuore umano. Debbo inve- ce, per ciò che importa al passo in questione, accennare Targomento del dramma. Un Duca, di cui non è detto il nome, cacciato dal regno, per effetto di certe cabale cortigianesche, orditegli contro da un Digitized by v^oogie - 5 - suo fratello, prende la via dell'esilio e si ricovera con pochi suoi fedeli nella foresta delle Ardenne , rappresentata dal poeta in- glese come il tipo del « landscap » del « good greenwood » del paesaggio silvestre dei poeti nordici, dove trovano pace e diletto gli spiriti malinconici e meditabondi. Rosalinda, figlia del Duca raggiunge il padre in quell' eremo, e si tira dietro il suo amante Rolando, figlio di Sir Rowland des Bois, e Celia figlia dell’usur- patore e sua inseparabile amica, e costei tira altri, e quest’ altri altri. Per virtù di codesta quasi attrazione magnetica di anella simpatiche, quella solitudine si popola via via di gentili dame e di prodi cavalieri, mentre l’autorità del duca usurpatore viene scossa e demolita da quelle continue diserzioni. Ne nasce là un idillio ero- tico a vario intreccio, reso piccante e piacevole dalle diverse agni- zioni e peripezie, di cui sono cagione gli infingimenti ed i sotterfugi degli emigrati, e terminato dal lieto successo a doppio fine, cioè lo sposalizio delle coppie amorose ed il ristabilimento del Duca nel suo legittimo grado. Tutto il significato morale del dram- ma si compendia nei caratteri, e specialmente in quello del Duca. Il quale è un misantropo amabile e di buon senso, la cui malinco- nia non procede da vanità offesa, o da fallita ambizione, ma da una contemplazione larga e teosofica dei mali inseparabili dal civile consorzio, e delle miserie addobbate della vita signorile. La sua è pure una malinconia « formata di diversi ingredienti ed estratta da molti semplici » come si esprime Jacopo, intimo suo, la quale trova conforto nella tranquilla meditazione e nei miti pen- sieri ond’è ispiratrice la natura campestre. Nel 2.° atto appunto il Duca ed i suoi compagni appajono sulla scena vestiti da boscajoli. Ed egli si abbandona a quelle riflessioni che il luogo e la compagnia di tali amici gli devono ispirare. Ecco la sua prima parlata da me tradotta quanto più fedel- mente ho potuto — « Or dunque, o miei compagni e fratelli d'esi- glio, non ci ha essa, l’abitudine, resa questa vita più dolce di quella pomposa e imbellettata di una volta ? — Non sono essi questi boschi più sicuri da pericoli, che non le sale dell’invidio- Digitized by ) Google 1 rn *■ sa Corte? Noi qui altro non si soffre che la pena del vecchio Ada- mo, mettiam caso la variazione delle stagioni, il morso agghiac- ciante ed il ruvido rimbrotto del vento invernale. E contro costui, allorché arrotando i denti mi si serra addosso, mentre pur tutto mi raggriccio, io rido e dico: questa qui non è adulazione! Tali sono i consiglieri che mi fanno comprendere, in modo sensibile, ciò che io sono. Ma dolci pur sono i frutti dell’avversità, la quale, a somiglianza dell’ orrida e velenosa botta , porta dentro la sua testa una gemma preziosa ! Ed invero, noi qui segregati dalla ci vii baraonda, possiamo ascoltare voci parlanti nelle foglie degli alberi, studiar libri di massime nell’onda frettolosa dei ruscelli, leggere sermoni nei sassi , imparare del buono da ogni cosa. » Si confrontino ora con questo passo le strofe del Monti : Qui sol d’amor sovrana è la ragione Senza rischio la vita e senz’affanno, Ned altro mal si teme altro tiranno Che il verno e l’aquilone. Quando in volto ei mi sbuffa e col rigore Dei suoi flati mi morde, io rido e dico: Non è certo costui nostro nemico, Nè vile adulatore. Egli del fango prometèo mi attesta La corruttibil tempra e di colei Cui donaro il fatai vaso gli Dei L’eredità funesta. Ma dolce è il frutto di memoria amara. E meglio tra capanne in umil sorte, Che tra i tumulti di ribalda corte Filosofìa s’impara. Digitized by t^oogie - 7 — Quel rio che ratto all’ocean cammina, Quel rio vuol dirmi che del par veloce Nel mar d'eternità mette la foce Mia vita peregrina. Quel fior che in sul mattin sì grato olezza, E smorto il capo su la sera abbassa Avvisa, in suo parlar, che presto passa Ogni mortai vaghezza. Tutte dall’elce al giunco han lor favella, Tutte han senso le piante: anche la rude Stupida pietra t'ammaestra e chiude Una vital fiammella. Vieni dunque infelice a queste selve. Fuggi l’empia città Credo che basti la lettura di queste strofe, per renderci subito accorti che l’Invito del Solitario ha, in più punti, colla parlata del Duca quella medesima convenienza che una libera copia ha con un componimento originale. Il Monti ci volle mettere del suo certi con- cetti amplificativi ed esornativi, che poco o punto aggiungono al pen- siero originale, ma che gli sono venuti molto in acconcio, per con- seguire quella viva coloritura e quella armonia piena e risonante, ond’è sempre distinto il. suo stile poetico. Tali sono le immagini mitologiche: la corruttibil tempra del fango prometèo e l’ eredità, funesta di Pandora , anzi di colei cui fu donato il caso fatale , tirate in mezzo per esprimere quello che è compreso nella frase concisa ed energica del What I am (quello ch’io sono.) 1 II con- cetto, poetico e filosofico, degli ammaestramenti che Y uomo può ritrarre dai diversi aspetti della natura silvestre , viene ripro- dotto nell’Ode del Monti colla medesima serie e gradazione di Digitized by v^oogie - 8 - pensieri ; indicandosi la varia favella dei ruscelli , delle piante , dei sassi; salvochè viene data una particolare spiegazione alle im- magini che il poeta inglese abbandona all’ interpretazione degli ascoltatori. Ma la spiegazione del Monti ^appare qua e là più ret- torica che dialettica, e spande più dovizia di parole che di nuove idee. Chi non iscorge subito la giunta artificiosa, o dicasi rappez- zatura, nelle frasi: quél rio (ripetuto); in suo parlar (dopo avvisa)) tutte dalfelce al giunco , la rude stupida pietra t Quello che il poeta italiano spiega e distende, l’inglese lascia intendere, talora con una sola parola; bastandogli, ad esempio, l’epiteto running (cor- rente o frettoloso, non già susurrante, come traduce il Carcano) per accennare alla fuga precipitosa della vita umana. Dopo la de- scrizione , tanto originale ed umoristica, del vento aspro e mor- dente, e dell’ accoglimento fattogli ( la quale si vede trasportata di peso, coi suoi tratti particolari, nell’ Ode del Monti) il Duca si mantiene tuttavia sul tuono ironico colle parole these are counsel- lors « questi sono consiglieri » ben diversi, intendasi, da quelli che abbiamo pur troppo avuto occasione di conoscere in altri tempii Que- sta allusione sarcastica alle carezze false e proditorie dei cortigia- ni va perduta nelle versioni italiane (Rusconi , Carcano), dove il traduttore non ha tenuto conto , come neppure il Monti, del va- lore sostantivale del counseltors, riferendo immediatamente il ver- bo that persuade (che ci ammoniscono...) al soggetto della pro- posizione precedente: il vento. Il dolce frutto dell’avversità diventa il dolce frutto della memoria , offertoci dalla parafrasi Mondana, dove l’antitesi alquanto ammanierata, che contrappone le capanne alla corte , riesce anche ad oscurare ed alterare il concetto origi- nario ; poiché non è già la ricordanza della sventura sofferta (troppo sovente, ahimè, inutile e sterile!) la quale bene fruttifichi, ma bensì il sentimento presente, meditato e profondo del dolore! Manca nell7/i- vito quell’ opportuna transizione con cui, nel discorso del Duca, si accenna più particolarmente, con un’immagine strana ma effica- cissima, a codesta catarsi che si effettua nell’anima degli sventu- rati, e ben li dispone a ricevere e sentire i conforti ed i diletti in- Digitized by {jOoq Le — 9 — tellettuali che scaturiscono dalla contemplazione della natura. Ad un poeta classicista, come il Monti, al cui giudizio la bellezza del- l’espressione non doveva mai scompagnarsi dalla squisitezza, dal- l’ornatezza e dal decoro, l’immagine del rospo dovette certamente sembrare strana, grottesca, al tutto disadatta allo stile poetico, special - mente lirico 1 Gusto Oraziano 1 « et quae Desperat tractata nitesce- re posse relinquit ». Un ingegno dantesco se ne sarebbe compiaci u to! Nè era cosa facile, anche ad uno stilista così potente come il Monti, il parafrasare qui il pensiero di Shakespeare, che richiede un certo sforzo di mente, per essere colto in pieno. La botta che, secondo un pregiudizio popolare, per via di certa secrezione del suo umor ve- lenoso, si forma nella testa una gemma preziosa, mi pare simbolo dell’avversità, obbiettivamente considerata, il mal essere, cioè, ed il disordine morale, riguardato come condizione naturale della società umana, ed in mezzo a cui, per legge di selezione, si affina il senno dei buoni, combattuti e perseguitati dai malvagi. Non vedo come si pos- sa intendere, sotto l’immagine della botta, ugly and oenomous «or- rida e velenosa », l’avversità, in senso subbietti vo, cioè Io stato dell’uo- mo che soffre ! L’immagine di Shakespeare collega e spiega il feno- meno della catarsi, operata dalla sventura, col fatto del conflitto so- ciale; attesoché il migliorarsi del carattere e del costume avviene per via di un continuo appartarsi dalla turba e scernersi dei pochi; onde, a misura che si determina socialmente l’opposizione morale, si com- pie il rischiaramento, o depuramento della coscienza individuale. Codesta purificazione ne rende poi capaci di sentire quelle solenni e patetiche voci della natura(l). La mancanza di tal transizione con (l) Questa non è Arcadia. 11 paesaggio silvestre che pei poeti nordici è una dimo- ra possibile e reale, e pur piena di attrattive e d’idealità , dà al dramma pastorale dello Shakespeare un carattere ben più voro e serio che non abbiano le cosi dette favole boschereccie. I boschi dei poeti meridionali , o sono artificialmente ideali e convenzionali, oppure sono selvaggi, orridi, inabitabili da gente umana I Le ra- gioni di questo diverso modo di trattare il paesaggio si possono vedere largamen- te discusse in una delle note illustrative, apposte dal Longfellow alla sua versione della Divina Commedia , quella intitolata « Dante’s Landscapes » e che è un estrat- to dell’opera di Ruskin: Modera Painters. È naturale che il pensiero poetico del- 2 Digitized by Google - 10 — cui si dichiara come si produca il dolce frutto delV avoer sità , si risente in quel salto repentino della strofa Montiana: E meglio tra capanne ; dove il poeta, costretto ad empire una lacuna e ripar- tire, con giusta economia, nelle tre strofe seguenti, il pensiero di Shakespeare, lo preludia in una sentenza generale sugli ammae- stramenti filosofici della natura. In questa strofa dal filo spezzato lo stile è sostenuto mercè una intarsiatura retorica. E si vede pur qui la retorica guastare i fatti alla logica; poiché la tendenza e l’atti- tudine ad imparare filosofia, non potendosi in nessun modo con- cepire nelle circostanze ivi indicate, cioè nei tumulti di una corte, e corte ribalda per giunta, non vi ha luogo alcuno al sudetto pa- ragone. L’antitesi stessa poi mi pare come il motivo variato e quasi l’eco confusa del pensiero espresso in seguito dallo Shake- speare, colle parole exempt from public haunt (« lungi dalla calca importuna » Carcano— « in una vita separata dal mondo » Rusconi) dove haunt (luogo frequentato) ritiene, a mio avviso, il senso peg- giorativo o spregiativo e public significa: notorio, solenne, in oppo- sizione ad oscuro e privato. A tradurre in versi lirici la suddetta parlata il Monti trovò pure, quasi direi, l’incentivo e l’esempio nello stesso dramma. In questo medesimo 2° atto il motivo lirico ed elegiaco della situazione dram- matica viene riprodotto nelle strofe di una canzonetta, cantata da uno dei compagni del Duca, la quale suona così : « Chi ama di albergare con me sotto gli alberi della verde foresta, e vibrare la nota allegra, tenendo bordone all’armoniosa gola degli uccelli— Venga qui, venga qui, venga qui— dove non tro- verà altro nemico che il verno e l’aquilone. « Chi cerca di sciogliersi dalle spire dell’ ambizione , che ama l'Invito, staccato dal suo fondo drammatico e scenico, sappia di arcadico, come dirà più d'uno, alla prima impressione ricevuta da questi versi del Monti ; poiché Arcadia suona per noi ogni descrizione di boschi e di eremi abitati da persone sennate e gentili. Ma tal sapore arcadico non guastava, e non stuccava punto al tempo in cui il Monti scriveva quest* Ode, tanto meno in Roma, dove 1* Arcadia fioriva tuttavia e signoreggiava, nell’Accademia che da essa prendeva il nome. Digitized by {jOoq le — li- di vivere in pieno sole, procacciandosi da sè il vitto ch’egli con- suma , e contentandosi di quello che trova — Venga qui , venga qui , venga qui — dove non troverà altro nemico che il verno e l’aquilone ». Si può guardare come la cabalétta finale di questa canzone la strofa seguente cantata nell’ultima scena dell’Atto, e nella quale è svolto il pensiero contenuto nel precedente ritornello: «Soffia, soffia, o vento invernale 1 Tu non se’ poi cosi villano come l’ ingratitudine degli uomini. Il tuo dente non è così acuto come quello di costoro, perchè tu ci assalti non veduto, sebbene aspro e violento sia il tuo soffio 1 — Ohè , ohè si canti , ohè sotto la verde frasca di agrifoglio — L’amicizia quasi sempre è finzio- ne, r amore follia— Ohè, Ohè sotto la frasca ! Questa vita è la più giojosa! » (1). (1) Questa apostrofe al vento invernale ha bisogno di essere meglio dichiarata per- chè vi si vegga lo svolgimento del pensiero chiuso nel paragone, più volte innanzi ripetuto, tra il soffio del vento e l’adulazione. Il testo dice: Blow, blow thou winter wind, Thou art not so unkind As man’s ingratitude. Thy tooth is not so keen, Because thou art not seen, Although thy breath be rude. La seconda parte della strofa riesce alquanto difficile, per quella concisione Shake- speariana, che diventa talvolta oscurità e scabrezza. I traduttori differiscono nota- bilmente tra di loro e non riescono a darci alcun senso chiaro e preciso. Il Letour- neur traduce: Hiver soufflé tes noires frimas, Ta dent du moins est invisibie, Et ta morsure est moin sensible Que n’est l’oubli des coeurs ingrata. Tutta la strofa è stata qui rivoltata e storpiata a capriccio , per farne uscire un couplet di quattro versi. 11 Rusconi acoorcia questa già monoa versione, pur rìpor- Digjtized by Google Nella prima strofa della canzone si sente tutta la mossa lirica àeXV Invito : Vieni amico mortai tra questi foschi Vieni e sarai felice! I due primi versi dell’ Ode : Tu che servo di corte ingannatrice I giorni traggi dolorosi e foschi... si riscontrano, quanto al senso, coi primi versi della seconda strofa; mentre il tratto pittorico che segue: Udrai dell'aure il susurrar tranquillo E degli augelli il canto ci echeggia come una reminiscenza della prima strofa della can- zone. tando tali e quali le frasi francesi nel suo italiano (?). « Inverno , sfoga tutto il tuo rigore. La tua crudeltà è meno sensibile della dimenticanza dei cuori ingrati. » La versione del Carcano è certo più sincera e fedele che le precedenti , ma è pure affettata nello stile e poco o punto concludente, quanto al senso: Soffia, invernai bufera. Soffia, è di te più nera L'ingrata alma mortai. E più il tuo morso flede, Nè il flato tuo si vede, Per quanto sia letal. „ Che cosa importa al paragone che qui si fa tra il vento invernale e P ingratitudi- ne degli uomini raffermare che « il suo flato non si vede » f O perchè si è soppres- sa la congiunzione causale because (perchè) ; e come si accorda l’epiteto di letale (mortifero) dato al vento con ciò che si è detto nel testo eh’ esso non è sokeen , Digitized by ^ooq le - 13 - Qui è da notare uno non so se debba dire plagio , abbaglio o capriccio del Rusconi , il quale sembra in questo luogo aver pa- rafrasato il Monti, anziché tradotto il suo autore — La congruen- za tra la libera imitazione del Monti e la versione del Rusconi è tale, che, esclusa Pipotesi, davvero strana, che questi abbia tolto in prestito da quello, è giocoforza ammettere che ed il Monti ed il Rusconi abbiano avuto sotto gli occhi e riprodotto una comune versione, dove il traduttore si sia permessa tanta libertà, da mu- tare e travolgere il senso delle parole e delle frasi , incastrandovi pensieri suoi proprii , e da omettere anche intieri versi 1 Legge- te e giudicate. « Tu, cui la Corte rese infelice, vieni con me tra questi boschi, vieni con me a gustare le dolcezze di questi luoghi, ad intendere il canto felice degli uccelli, qui dove tutto è amore e sincerità. Noi go- diamo ora le gioje che mai non cessano, ed altro nemico non ab- biamo che l’inverno ed il mal tempo. « Se stanco delle Corti la vanità delle loro grandezze più non t’alletta, se non temi le vampe del sole più che i dolori dell’anima: se dalle leggi di natura non dissenti , vieni ad abitar questi luo- ghi: vieni e felice sarai, e altro nemico non avrai che Pinverno e il mal tempo ». Concordano il Monti ed il Rusconi:. nel far soggetto dell’apostrofe la seconda persona anziché la terza; nell’introdurre la Corte colla inevitabile compagnia degl’inganni, delle vanità, dei servi infelici... « cosi acuto »? Io credo che questo passo Shakespeariano possa rendersi intelligi- bile, mettendo in rilievo quelle idee intermedie, che il poeta lirico omette lasciando- le intendere a chi bene attende. Tutta la serie dei concetti ond* è tessuta questa strofa sarebbe cosi fatta; «Soffia, soffia, o vento invernale, tu non sei cosi villano come la ingratitudine degli uomini. Il tuo dente non è si acuto e penetrante , co- me quello degli ingrati , perchè alfine tu sei per noi uno sconosciuto. No , tu non sei uno di codesti soppiattoni traditori. Il tuo dente non morde in tal guisa, seb- bene il tuo soffio sia aspro ; ma meglio oh ! quanto , la tua asprezza che 1' usan- za di questi tali che ci assassinano dietro le spalle, mentre di fronte ci fanno l'a- ria blanda e carezzevole. Digitized by Google — 14 di cui non vi ha il menomo cenno nell’originale; nel sostituire alla frase che dice: « venire ad abitare sotto i verdi alberi » quella tanto meno pittoresca del « venire tra i boschi »; nel far semplicemente « intendere » e non già « accompagnare col canto » i canti degli uc- celli ; nell’ annestarvi quel concetto arcadico dell’amore regnante nelle selve, che ha suggerito al Rusconi la frase leziosa « qui d ove tutto è amore e sincerità » ed al Monti il ben tornito verso « Qui sol d’ amor sovrana è la ragione » ; infine nell’ azzeccarci la forinola auguratrice di felicità (« Vieni e felice sarai »=« vieni e sarai felice ») che nel testo manca ! Codesta congettura dell’esistenza di una versione del dramma di Shakespeare , della quale si sieno giovati il Monti ed il Ru- sconi, mi è stata pienamente confermata dall'esame che ho fatto della versione francese del Letourneur, pubblicata verso il 1776 e subito divenuta celebre. Raffrontandoli con questo loro comune in- terprete riesce facile comprendere come e l’imitazione dell' uno e la traduzione dell’altro sia riuscita rispettivamente più fedele nel brano drammatico, che non nel brano lirico. Lo stile lirico un po’ elevato presenta d’ordinario tali difficoltà ad una traduzione pro- sastica, che i traduttori, smarrito il filo del concetto letterale e ri- nunciando al tentativo disperato di rendere fedelmente il testo, ne danno il senso, per così dire, aocchio e croce, facendo uso della massi- ma libertà! La traduzione di seconda mano che riproduce la poesia di altro traduttore, non riesce in tal caso nè bella nè fedele. Talune frasi sono dal Rusconi stranamente travisate, come quella : who loves to live in thè sun (Strofa 2. a ), che letteralmente suona: in cui il bambino figlio di Eezione e di Labda di- cevasi rinchiuso come Perseo, figlio di Danae , come il bambino Bacco con gemete sua madre , come Auge figlia di Aleo col suo Aglio, come Giasone e Ioante, e come Roo Aglia di StaAlo fu in- chiusa in un’arca simile ,2 ). È notabile che Roo, oltre al dirsi ma- dre di Anio 13 ), fu anche detta madre di Giasone 14 >, perchè que- sti fu lo stesso che Perseo, o Bacco, o Ioante, cioè il Sole, o Osi- ride, a cui si riferiscono tutti questi personaggi mitici, i cui rac- conti furono sotto altri nomi ripetuti da quello di Osiride, da Ti- fone rinchiuso in un’arca 15 ). Il solo Isocrate come un racconto favoloso degli Eraclidi parlava nell’A rckidamo, o nell’orazione che scrisse , o Anse di scrivere sotto il nome del giovine Aglio di A- gesilao dopo la battaglia di Manti nea; e per ciò che riguarda gli scrittori moderni , benché Clavier non mancasse di fare alquante osservazioni sulle contraddizioni degli antichi su’fatti de'Dorii, di tali fatti stessi non dubitò nondimeno, e più ancora degli Eracli- di, e in generale de’duci dell’impresa. E sebbene O. Muller affer- ma di esser cosa azzardosa di riAutare un esteso e connesso si- stema di tradizioni eroiche in favore di congetture, che dalle no- tizie riconosciute dalle età anteriori all’informazione storica, e ce- lebrate da’più antichi poeti, antepongono una vera teorica di pro- 9) Strab. Vili, 1. 10) Pausan. IV, 3, 3. Vili, 5, 4 ecc. 11) Vedi la mia Memoria, Gli Arcadi in Italia. 12) Herod. V, 92. Paus. Il, 4, 4. - Soph. Antig. 947. Lycophr. 838. — Paus. Ili, 24, 3. — Hecat. ap. Paus. Vili, 4, 9. — Schol. Lycophr. 175. — Apollod. I, 9, 17. — Apoi- lod. 1, 9, 16. 13) Diod. Sic. V, 62. Dionys. Hai. I, 59. Conon. Narr. 41. 14) Demetr. Sceps. ap. Schol. ApoIIon. I, 45 15) i’iut r e /s. e t Qsir. 13 sgg. Digitized by Google - 40 - babilità storica, dice nondimeno che facilmente si riconosce, che la spedizione degli Eraclidi pel suo carattere mitico non differi- sce dalla guerra trojana 16 ). Anche come una leggenda si consi- dera da Grote il racconto sul ritorno degli Eraclidi; in guisa che, altro non sarebbe a dire secondo tali opinioni, se non che i Dorii invasero il Peloponneso, e che lo stesso vantato dritto degli Era- clidi sulla conquista fu loro attribuito ne’ tempi posteriori, e non fu quindi che una ipotesi. Ma se come favole riguardar si deb- bono le circostanze che precessero o accompagnarono la conqui- sta, ei personaggi che s’incontrano nel racconto il dimostrano ad evidenza , in niun modo non può credersi che vi furono di fatto quelli ch’ebbero a vantarsi della discendenza di Ercole per- coo- nestare l’impresa; e senza potersi a questi attribuire un'esistenza storica , rimane solo a far la pruova negativa su’ personaggi del racconto. Mancano su costoro le osservazioni necessarie non solo negli altri storici 17 ) , ma anche negli stessi lodati critici , i quali se non si curarono di farle , fu perchè più o meno riguardarono come storici i nomi di quelli, su’quali cade appunto la mia ricer- ca , che io fo per dimostrare non solo che favolosi sono i nomi degli Eraclidi, ma anche che tutta la storia ne fu immaginata sui nomi allegorici della tradizione, come da’ nomi simili Omero im- maginò quelli dell’Iliade, e come si fantasticarono tutte le narra- zioni mitiche , le quali passando sulle scene per opera de’ poeti tragici acquistarono più che mai il carattere di storiche. Non parendomi dubbio che il racconto della invasione fu fatto su certe circostanze di tempi, di luoghi, di culti, e soprattutto di cognomi o attributi di Numi, non il verrò ripetendo quale si narra da Apollodoro, Strabone, Diodoro e Pausania, e in parte ancora da storici più antichi, come Eforo, Ellanico, Teopompo e Timeo l8 ), 16) Clavier , Hist. des premiere temps de la Grèce, Paris 1822, t. Il , p. 4 sgg. — O. Mùller, Die Dorier I, 3, 2. 17) Una ricerca simile anche si deside- ra nella dotta e premiata dissertazione di Bernardo Ter Haar intitolata: Heracli- darum incursiones in Peloponnesum ea- runique caussae et ejfectus . Lugd. Bat. 1827 in 4. 18) Ephor. ap. Strab. Vili, 2.— Hellan ap. Schol. Plat. p. 376. — Theop. ap. Schol. Teocr. V, 83.— Tim. ap. Clem. Alex, Strom. I, p. 403. Digitized by ^jOoq le — 41 — oltre di altri ancora, da’quali sappiamo soltanto r anno della in- vasione, e qualche fatto che l'accompagnò, o ne fu l'effetto imme- diato a danno delle contrade occupate. E dico che il rifugio degli Eraclidi presso il re Ceice nella Trachinia della Tessaglia , dopo che Ercole dicevasi assunto fra gli Dei ,9 ), fu supposto perchè in quella regione era fama che l'eroe emigrò con Dejanirn dopo aver ucciso Iflto a Tirinto , vi espugnò Ecalia, e sull’ Oeta morì nella stessa contrada, e perchè in somma vi fu adorato, così che nel luogo di Trachine successe la città di Eraclea 2°), così detta ap- punto dal culto di Ercole, e perchè con un culto sì fatto vi fu an- che l’adorazione, o la celebrità del nome di Ceice 2I ). Se i miti sono allegorici , e cominciamo a comprenderli dal significato de' nomi che vi ricorrono, il supposto amico , o nipote di Ercole, figlio di Eosforo o Lucifero 22 ), cioè Kr^, è il frizzante ( da xaico, uro ), e la sua consorte ’AXxvévr,, come tutti gli altri nomi mitici simili cominciami con aX£, OLkxbg , o aXxa, aXxr, ( robur ), Alcandra, Alcatoe, Alcesti, Alcidamia, Alcidice, Alcimache , Alcimede, Alci- noe, Alcippe, Alcitoe ed AIcmena, è la forte, o la prode, un epi- » teto applicato come i già detti al minore pianeta, che ha la sua forza come il più grande , benché per ragioni diverse. Ceice ed Alcione sarebbero dunque il Sole e la Luna del mattino, de’quali quando l’uno sorge e comincia a frizzare i suoi raggi, l’altra tra- monta , o scomparisce alla sua luce , come la costellazione deHe Plejadi, che al sorgere del Sole nel mare va a tuffarsi , e si as- somigliava perciò all’uccello Alcione, a cui nel mito corrisponde la Plejade più luminosa e più grande, o l’uccello alla stessa. Al- cione piange nella favola la morte di Ceice , perchè Selene o la Plejade risplende quando il Sole è già sotto l'orizzonte; e quando di nuovo l'astro ricomparisce, ella è già nel mare scomparsa. Per la prima e più antica identità di Alcione con Selene, giova notare 19) Apollod. Il, 8, 1.— Diod. Sic. IV, 58. 20) Apollod. II, 7, 6— Hecat. ap. Longin. De subii m. c. 27. 21) Strab. IX, p. 428. ‘Hf«*x*i*...., j T^agìr *0X0174 tri) xpórtfGP. 22) Soph. Trach. 40,— Apollod. I, 7, 4.— Antonin. Liber. Mct . 26. 6 Digitized by v^oogie - 42 — che come l'Atlantide Alcione è sorella di Merope così Alcinoe b sorella di Medusa 24 ), la stessa che Medea , cioè sempre lo stesso minore pianeta con simili nomi distinto in relazione con gli altri nomi diversi dell’astro maggiore, Sisifo e Jasone, come le «Atre Atlantidi con Apollo , Posidone e Giove. Ma riportando al più ri- cevuto significato il nome di Alcione , cioè alla Plejade , la stella della navigazione contraria insieme e propizia , può essere altro che il Sole il supposto marito di Alcione f Dal fatto dell'uccello Alcione che comparendo al tramontar delle Plejadi annunzia l'au- tunno , e si allontana al principio della primavera , egli sembra che provenne ancora il mito del gran gigante Alcioneo (eX'jj'ayAog ’AAxuovsttg), da Ercole e Telamone vinto ed ucciso presso Fiegra *5), e padre delle sette sorelle in alcioni trasformate 26 ), cioè le tem- peste marittime annunziate dagli alcioni, e dette giganti nemiche dell’eroe della luce Ercole, e che uccise ne sono quando nell’equi- nozio della primavera il Sole trionfa, e cessano le burrasche. Pin- daro dice che Porflrione, l’orgoglioso compagno di Alcioneo , fu ucciso da Apollo 27 ), ed è la stessa allusione che con altri nomi si presenta per accennare al fatto istesso del trionfo del nume della lu- ce su quello che annunzia le tempeste, perchè il Sole rosseggiante (Tloftpvplocv) è segno di pioggia e di uragano. Per un’altra inter- petrazione , egualmente plausibile , il mito di Ceice e di Alcione non allude che alla stagione invernale ed al principio del suo ter- mine, perchè se prima dominano i venti e le tempeste, ed è molto pericoloso arrischiarsi alle onde, i venti poi si calmano, e la na- 23) Hellan. ap. Schol. Homer. r, 486. — Apollod. HI, 10, 1. 24) Apollod. Il, 4, 5. 25) Pind. Nem. IV, 44 .—Isthm. V], 48. — Perchè la rocca di Corinto (A*po xcftpSoi) fu sacra al Sole, dal che fu detta Eliopoli (Steph. Byz. v. Kopt^of), Apollodoro (1,6, 4) dice che Alcioneo fu in vece ucciso sul- )’ istmo; e gli antichi credevano tanto a tali leggende allegoriche, che lo Scolia- ste di Pindaro ( ad Nem. IV, 45) riferisce che sull’istmo mostravasi il gran magi- gno, col quale il gigante abbattute avea le 12 quadrighe decornici. 26) Eustath. ad Homer . p. 776, 37. 27) Pind. Pyth. Vili, 16. — Apollodoro (I, 6, 1) dice in vece che Porflrione fu uc- ciso da Ercole ; il che è lo stesso , e si comprende chi fosse il più antico re che dominò ne ll'Attica prima di Acteo (Paus. I, 14, 7). Digitized by VjOOQ le — 43 - vigazione può incominciarsi *8). Ma se con questa spiegazione Ceice ed Alcione non furono che i genii della stagione, l’uno cioè della tempesta, e l'altro della bonaccia, il nome di Ceice non si spiega, se dubbia non è l’allegoria di Alcione ; e soltanto con riferirsi al frizzante soffio del vento, Ceice si potrebbe anche interpretare; in guisa che altro che il Sole non può dirsi, o l’aquilone frizzante e tempestoso, perchè come il Sole dall’ oriente estivo spira il vento Cecia, analogo al nome del re favoloso. •Euristeo, che molestato avea Ercole a Micene, i suoi discendenti doveva anche perseguitare a Trachine , perchè Ercole vi fu del pari adorato. E se vaganti per tutta l’ Eliade gli Eraclidi trovano solo protezione in Atene, ciò fu detto per l’umanità singolare del- P insigne città al confronto delle altre città greche , e tal fatto io credo che si aggiungesse dà Eschilo ed Euripide *•), per celebrare appunto l’umanità e l'Ospitalità di Atene. I cinque figli di Euristeo, dagli Ateniesi uccisi nella battàglia che ivi dicevasi combattuta 3°), si spiegano per gli epagomeni, o i cinque giorni aggiunti (sTTaxrat Tjfxipcu) a’360 dell’anno solare del calendario degli Egizii e di altri popoli, nell’Egitto festeggiati come i giorni natalizii di cinque numi, a capo de'quali era Osiride 81 ) , cioè il Sole, il quale perciò detto era ’E'n'aXTouos, o 'Eifdx.'tiog 32 ) da'Greci, ed Actius da’Latini 33). I nomi almeno di quattro de' figli di Euristeo sono chiaramente 28) J. E. Rivola , Ueb. die Griechischen Sternbilder , insbesond.DiePlejaden.Knr\s- ruhe 1858, p. 30. 89) Se si conservò la tragedia su gli Eraclidi di Euripide , perdevasi quella sullo stesso soggetto di Eschilo, come le altre di Sofocle e di Pamfllo su lolao , sup- posto auriga e compagno di Ercole. 30) Apollod. II, 8, 1. Diod. IV, 57. 31) Plut. De Is. et Osir. 18.— La festa di Cerere £pacte celebrata in Atene verso il sorgere delle Plejadi nel mese della se- mina Pianepsione ( Hesych. et Suid. v. Plut. Dels. et Osir . 69) corrispon- deva a quella d’ Iside nel 2° degli epa- gomeni. 32) Ps.Orph. Argon. 1296.— Apollon. Rh. Argon . I, 404. 33) Virg. A n. Vili, 704.— Propert. IV, 6*. 67.— Albinov. Eleg . II, 51.-Cf. Paus. Vili, 8, li. Digitized by Google — 44 — epiteti solari M ); ed Euristeo, detto nipote di Perseo s 5 ), e che dal suo nome ( Eupvir&eus pei* E v-cv&póg, Rufus ) si è spiegato pel rosso Tifone degli Egizii 36 >, facevasi da Ilio uccidere a 'Sassi Sci- ronidi 37 ) , perchè era questo il luogo del più diffìcile, passaggio dell’Attica, il quale dava origine alla nota favola di Scirone, o del vento, che i viandanti trabalzava ne’sottoposti scogli dello stretto passo della Megaride 38 ). Tlepolemo, il quale per caso uccide Li- eimnio suo zio , prima che gli Eraclidi si partissero dall’Attica, non essendo ancora il tempo di condursi al riacquisto del loro re- taggio 39 ), non è che il Sole d’inverno, il quale vince quello della state, entrambi nel mito rappresentati come personaggi diversi per la diversa possanza de’raggi solari nelle due stagioni, in cui l'uno succede all’altro; ed il padre dell'uno, come il significato etimolo- gico dell’altro, confermano tale spiegazione; però che Licimnio è detto figlio di Elettrione, nato di Perseo, cioè del Sole risplendente (yjXsXTpuU/'v) vien dopo dell’invermrche distrugge la vegetazione, e Tlepolemo dinota chi sostiene la guerra (Ty}Xs- / 7fóX£fA0g), come Telemaco , chi sostiene la pugna (T7jXè-ptap£0£), nomi allusivi al Sole d’inverno', il quale tuttoché combattuto dalle forze contrarie rappresentate da tutto che ne viene oscurando la luce e lo splen- dore, le nuvole, le piogge e le bufere, pur non cessa di combat- tere insino a che ne trionfa nella primavera. E perchè una colo- nia dorica, uscendo dall’Argolide, e da Lacedemone, si condusse a Rodi, dove principalmente si adorò il Sole, si disse Tlepolemo 34) Alessandro, o il forte uomo •- £arJrcf),è il secondo nome d i Paridc,o Pha- ris (da $««, lucco). Euribio, o il molto pos- sente (Evpv-(Mof) t é spiegato dal nome, o epiteto analogo di Euribia applicato a FcOc (Diod. Sic. IV, 16), o alla Luna. Di- frasi lo stesso d* Ifìmedonte e Perimede, perchè IJlmcde , la stessa che If medusa (Apollod. Il, 1, 2), e Perimede fu detta la stessa Luna (Parthen. 19. Paus. VII, 4, 1). 35) Apollod. Il, 4, 6. 36) Nork, Myth. Worterb. v. EurUtheus . Più probabilmente il vasto cielo mi sem- bra di vedere in Euristeo. Veggasi W. A. GOnther, Euristheus u. Heracles. Wien 1843. 37) Apollod. II, 8, 1. 38) Diod. Sic. IV,59.— Strab. IX, p. 391.- Paus. I, 44, 12.— Plut. Thes. 10. 39) Homer. II. H,658.-Apollod. II, 7, 6. Digitized by ^jOoq le - 45 - emigrato in queirisola per l’uccisione di Licimnio 40 ). Gli Eliadi , o i supposti discendenti del Sole, come gli Eraclidi di Ercole, ai quali attribuivasi la fondazione delle tre città dell’isola, che vole- vansi fondate da Tlepolemo 41 ) , confermano la spiegazione della tradizione popolare, o mitica; e per gli Eraclidi, che già occupa- vano e Rodi e Coo al tempo della guerra trojana 42 ), sarebbe ma- nifesto l’anacronismo di quelli che introdussero il racconto su Tle- polemo nel tempo posteriore del ritorno degli Eraclidi, se vero è che il catalogo delle navi fu interpolato nella Iliade. Ilio , che si sposa a Iole, come Ercole aveagli imposto 43 ), è l’ eponimo , già riconosciuto da Mùller e da Grote, de’Dorii dell’ llleide della Do- ride 44 ), la quale si ripete nell’ArgoIide e nelTIl lirico 45 ), per cagio- ne de’Dorii che vi si tramutarono, come la favolosa sua consorte, figlia di Eurito, re di Ecalia nella Tessaglia 46 ), e sorella di Drio- pe 47 ), è da credere allusiva alla città di Iolco, nella guisa stessa che Driope allude alle città di • Driope e Driopia presso Ermione e Trachine 48 ), così dette da’ Driopi Arcadi, aditatori de’ boschi di quercie fèpvyioi), e i cui popoli dicevansi vinti da Ercole e trasfe- riti nell’Argolide, dove conceduti furono ad Apollo, perchè l’ado- rarono come i Dorii, ai quali la lor regione fu in vece concessa 49 ), perchè l’occuparono. L’ oracolo di Delfo , che facevasi consultare da Ilio prima di condurre gli Eraclidi nel Peloponneso, fu nel rac- conto ricordato per la celebrità dello stesso oracolo, e perchè non vi fu cosa di qualche importanza che i Greci imprendessero senza 40) Homer. II. II, 653. sgg. Apollod. Il , 8 , 2 . 41) Strab. XIV, p. 654.— Diod. Sic. IV, 58. 42) Strab. XIV, p. 653.-Homer. II. V, 679. 43) Apollod. II, 7,7. 44) Steph. B,yz. v. t*aa« 7*. — Cf. Mùller , Die Dor. I, 53. Grote. 45) Steph. o. c.— Apollon. Rh. IV, 536. 46) Pherec. ap. Schol. Soph. Tvach. 354. Apollod. 11, 6, 1.— Perchè i Driopi Arcad. emigrarono nell’ Eubea (Diod. Sic. IV, 37, 1), altri dissero Eurito re di queiriso- la; ma come avversario del nume solare Ercole, non si considerache come attribu- to del Sagittario, o del piovoso ( ivpv-virós ) mese di novembre. 47) Ovid. Met. IX , 331.— Hygin. fab . 35. Serv. ad ;En.\ III, 291, 300.— Antonin. Lib. Met. 32 — Nicandr. Ther... 48) Steph. Byz. o. ApvoV».— Strab. IX, p. 49) Herod. Vili, 43.— Strab. Vili, p. 373. Diod. Sic. IV, 37,1.— Paus. IV, 34, 9.— Serv. ad JEn. IV, 146.— Suid. e. Kcurpos. Digitized by Google — 46 - che prima il consultassero; e non potendosi ancora credere che al tempo della invasione la Pizia già desse responsi in verso, perchè l'oracolo sembra di una istituzione posteriore al culto di Apollo 5°), pare che la circostanza istessa fu aggiunta da’ Tragici , e M&iler in fatti nelle parole di Apollodoro ravvisava il metro iambico e trocaico 51 ), metre che la Pizia dava i responsi in esametri, oltre di che Erodoto ricorda i poeti che scrissero del celebre ritorno M ), i quali ebbero ad essere perciò la fonte più comune delle narra- zioni posteriori. Tali poeti furono più antichi de'Tragici , e come Cercope di Mileto, l’autore del poema su Egimio M ), si annoverano tra quelli che scrissero le più antiche genealogie, supposte quasi tutte come molte di quelle del medio evo. — E perchè la città di Naupacto fu così detta dall’ essere un cantiere di Locri M ) , alla città istessa si dissero passati gli Eraclidi, e di avervi fabbricato il lor navile 55 ). L’origine di Megara fondata da’Dorii spieghe- rebbe Aristodemo, pronipote d’ilio; da un fulmine ucciso a Nau- pacto 57 ), il quale sembra una ripetizione dell’Aristodemo, figlio di Ercole e di Megara 58 ), cioè più probabilmente la conquistatrice Aristocrazia, che l’origine propria riportava ad un figliuolo dell’eroe. E benché non sia facile congetturare da che s’immaginassero Ari- stomaco, padre di Aristodemo , e Cleodeo, padre di Aristomaco e figlio d'ilio 59 ), egli sembra nondimeno che s’introdussero nel rac- 50) Omero ( Odyss . Vili, 79) fa consulta- re 1* oracolo da Agamennone , ma non parla della Pizia. Cf. H. in Apoll. 388 sgg. 535 sgg. — Il culto iperboreo di Apollo e Diana, anziché a donne Traci e della Peo- nia (Herod. IV, 32) è da riferire o a’Dorii della Tessaglia (0. Mùller, Dor . II, 1, 6), o agli Arcadi di Spina sull’Adriatico. Stra- bono conferma la seconda congettura , perchè dice (V, p. 216): « Spina che ora è «un borgo, anticamente fu una nobile « città ellenica; e però a Delfo suol mo- « strarsi il tesoro degli abitanti di Spina, « e dicesi ancora ch’ebbero un tempo il « dominio sul mare »; e la città di Spina fu già nella Celtica degl’iperborei. 51) O. Mùller, Dor . I, p. 267 sq. 52) Herod. VI, 52. 53) Athen. XI, 19, p. 503.— Cf. Fr. Wuiner, De Cyclo Epico poctisque cyclicis , Monast* 1 825, p. 49 sg. 54) Ephor. ap. Strab. IX, p. 55) Apollod. II, 8...— Strab. I. c. 56) Paus. 1, 39...— Strab. IX, p. 393.— Veli. Pai. I, 2.— Herod. V, 76. 57) Apollod. II, 8. 58) Eurip. ap. Schol. Pind. Nem. 104 , Isthm . IV, 104. 59) Herod. VI, 52. Digitized by ^jOoq le - 47 - conto per. rappresentare le tre generazioni, o i cento anni scorsi tra la prima e l’ultima irruzione de ; Dorii. Ma i nomi di Argia , consorte di Aristodemo, e i suoi figli Euristene e Prode, che spie- gali sono in appresso, favolosi ed allegorici ne dimostrano gli antenati. L’uccisione di Carno, o Carneo, come figlio di Europa, ed allevato da Apollo e Latona, già celebrato da Praxilla ®°), e la peste che all’esercito degli Eraclidi ne sopravvenne allor che sta- vansi a Naupacto , chiaramente si riferiscono al mito di Apollo Carneo, al Sole cioè dell’ariete (xdpvog), o della primavera, il quale da Ippote , di Ercole pronipote, dicevasi ucciso 61 ) , come Bellero da Bellorofonte , perchè il Sole della stagione più luminosa del- l’anno, la quale incomincia nella primavera e termina nell’autunno, è vinto e sopraffatto da quello di questa stagione rappresentato da Bellerofonte, che i frutti (3sXXs poi) uccide, perchè nella stagione stessa vengono a mancare ; cosi che Ippote , o il Cavaliere , si dirà facilmente un epiteto dello stesso flgliuol di Nettuno , come i supposti padre ed avolo d’ Ippote , cioè Filante ed Antioco , si spiegano del pari come attributi dello stesso nume del mare, del- l’acqua, e dell’umido elemento in generale, in cui secondo la fi- sica degli antichi tutte le cose avevano l’essere ed il nascimento ®); 60) Paus. HI, 13, 5. 61) Apollod. II, 8, 3. — Paus. Ili , 14, 4. — Conon. Narr. 26. — Euseb. Praep. Ev. IV, 20. 62) Se Talete il primo pose nell* acqua il principio di tutti gli enti e di tutte le cose (Aristot.Afel. 1, 3. De Coelo , li, 13. PI ut. De Plac. PhiL I, 3. Cic. De N. D, I, 10, 25), Omero a?ea già detto che 1* Oceano di tutte cose è padre (II. XIV, 246. Heraclid. Allegor. tìomer. c. 22), come poi dissero anche Orfeo ed Esiodo (Plat. Cratyl. p. 402. Clem. Alex. Strom. VI, p. 751 Athe- nag. Legai . c. 15), e i Fenicii prima di O- mero e di questi poeti la dea Anobret , o la ninfa delle sorgenti, adorarono (Ies. 8, 8, 54, 9. Nahum I, 8. Nonn. Dionys, XL, 359, 542), come gli Egizii per cagione del Nilo , e i Babilonesi per 1* Eufrate ed il Tigri , che si copiosamente fecondavano le loro regioni , avevano in questi fiumi adorato l’acqua come principio delle co- se (Mùnter, Die Relig. der Babilonier, Ko- . penhag. 1827 , p. 43), e gP Indiani inoltre pel loro Gange , e i Persiani l’acqua ado- rarono del pari come primo elemento (Strab. IX , p. 732). E lo stesso Mosè , i- strutto nella sapienza degli Egizii (S* Lue. Ad, Apost, VII , 22.) avea anche det- to che nella prima creazione spiritus Do- mini fcrebatur super aquas (Gen ), dal che forse si disse , che il mare è simbolo della genesi (Simplic. in Epic - teli Enchiridion c. 12). Se del resto Ta- lete di Mileto si considerò come di stir- pe fenicia (Herod. I, 170), perchè della Digitized by ^jOoq le — 48 — perchè Filante derivasi da £t>Xu.', generare, ed Antioco non è chia- ramente che chi combatte col cocchio opposto e contrario (dvn- ó^og) il nume della luce, perchè rapisce i cavalli di Elettrione **), ed è lo stesso che Antiochete , figlio di Pela, o del nero IlsXa? per mxóg) il quale combatte Oineo 64 ), ed Antimaco , Antinoo ed Anteo de’miti affini, su’quali mi par soverchio d’in trattenermi. La mitica discendenza d’Ippote da Ercole dimostra ancora la chiara allusione della favola, o dell’allegoria solare narrata come storia, la quale si prosegue ne’racconti di Apollodoro e di Pausania con Triocolo ed Oxilo, cioè colla mitologia dell'Elide e dell’Etolia, coi re delle quali regioni dicevansi congiunti di sangue gli Eraclidi M ), per la ragione che gli Elei e gli Etoli il Sole adorarono come i Dorii , altro non essendo l’Etolo , o il risplendente (A i'Xofkog) A - gliuol di Endimione, il quale se dicevasi dall’Elide espulso, e pas- sato con gli Epei nell’Etolia 66 ), fu perchè la colonia di que’popoli ne trasferì il culto da una regione nell’altra, non altrimenti che Giano fuggito dalla Perrebia e passato alla sponda del Tevere 67 ), si spiega col culto simile propagato a Roma da’Tessali. Giove Trio /- gente de’Telidi di origine Cadmea o Fe- nicia (Diog. L. I, 22), i Fenicii i primi eb- bero a propagare quella dottrina nell’A- sia Minore, come Mosci propagò forse nell’Asia la dottrina identica degli Egi- zii, dalla quale provenne ancora il gene- rale simbolismo dell’acqua presso molti popoli meno antichi (V. Heinrich, Dio Symbolik u. Mtjihologic der Natur. Wurz- burg 1859. p. 1-38); talché derivandosi la dottrina stessa dall’ antica credenza re- ligiosa, non ebbe ragione il nostro Vico di censurare Talete, che nell’acqua pose il principio di tutte le cose , perchè con l’acqua crescono le zucche. 63) Apollod. II, 4, 6. 64) Apollod. I, 8, 5. 65) Paus. V, 3, 7. 66) Ephor. ap. Strab.VIll, p. 357; X,p.463. — Apollod. I, 7, 6. — Strab. V, 2.— -La tradi- zione favolosa dicevalo scacciato daSal- moneo , un re immaginario de’Pisati e degli Elei, supposto dalla città, o borga- ta di Salmone, da cui sembra che si partì la colonia, e ch'era stata fondata dagli Eolii dellaTessaglia (Apollod. I,9,7.Strab. Vili, p. 356. Diod. IV , 68). La città di Ai- mone della Beozia, i cui abitanti furono di origine Eolii (Thucyd. Ili, 2; VII, 57), conferma l’origine stessa di Salmone, la quale prima ebbe adirsLAlmone ("aa^**), perchè posta alla marina; e l’esempio di Almodesso , poi detta Sai midesso, persua- de l’identità de’ due nomi; in guisa che Saimonco fu immaginato dal nome di Sal- mone, come Italo e Sicelo da’nomi d’Ita- lia e Sicilia, ed altri simili da altre città e regioni. 67) Draco Corcyr. ap. Athen. XV, 19, p. 692.— Plut. Quatti. Rom. 22. Digitized by ^jOoq le - 49 - talmo, o Triocoio, come Apollo Triopa, Osiride Tr'sXuò^^aXfAO g , ed il nume Schiba Trilochanas degl’indiani derivato dalla favola greca, divenne il favoloso capitano generale de’Dorii , il quale ucciso avendo Tisameno, supposto figlio di Oreste , fece sì che i Dorii s’impadronirono del Peloponneso dopo ch’ebbero perduti in battaglia i loro compagni Parafilo , figlio di Egimio , e Dima , o Dimante , già riconosciuti come gli eponimi di due delle grandi tribù de’Dorii. Or se l’analisi etimologica di tutti i discorsi nomi, e la spiega- zione probabile delle allusioni relative , favolosi ci dimostrano i personaggi della invasione, e non rimane quindi che il solo fatto della irruzione dorica, storici non si diranno gli altri che con quelli come immediati discendenti sono intimamente connessi, e che ri- cordati come fondatori di molte città , come tali si ripetono dagli storici moderni. Dopo la descrizione dell’Arcadia Strabone scrive: « Non sarà forse fuor di luogo qui ricordar coloro che secondo « Eforo furono i fondatori delle città del Peloponneso dopo il ri- « torno degli Eraclidi, cioè Alcte di Corinto, Falce di Sicione, Ti- « sameno dell’Acaja, Oxilo di Elide, Cresfonte di Messene, Euri - « stene e Prode di Lacedemone , Temeno e Cisso di Argo, A geo « e Difonte delle città della spiaggia » 69 ). Anche Polibio, Scimno di Chio , e Pausania ricordano più o meno fondatori sì fatti 70 ) ; ma oltre che della maggior parte di tali città si ha memoria in epoche anteriori , e le fondazioni da Eforo ricordate si debbono perciò intendere di nuovi ordinamenti politici, se non delle nuove occupazioni, a ben altro che a nomi d’uomini alludono i fondatori già detti. E da quello incominciando ch’è il primo, poiché Alete significa errante , anziché nome d’ uomo , si dirà piuttosto un attributo, il quale è bene spiegato dagli stessi nomi di quelli che nella narra- 68) Paus. V , 3 , 5. — Veggasi In questo chegette. scrittore con quale supina ignoranza in- 69) Strab. Vili, p. 389. terpretavasi il responso dell'oracolo, che 70) Polyb. Il, 41. Scymn. Ch. v. 530 sgg. a'Dorii ingiungeva di farsi comandare da Paus. II, 18. VII, 6. Trioftalmo, di avere cioè Apollo per Ar- 7 Digitized by ^ooq le - 50 - zione F accompagnano. Gonone scriveva che ucciso da Ippote Io spettro di Apollo per nome Carno, solito di perseguitare i Dorii, e di cui servivansi per indovino, gli Eraclidi che ritornavano nel Peloponneso, travagliati furono dalla peste, e per risposta dell’o- racolo (che consultavano pel male che affliggevali) Ippote discac- ciavano dagli accampamenti. Il quale, ito qua e là vagando, ebbe un figliuolo, che dal proprio fato nominò Alete, e che giunto al- l’età virile, adunata una banda del doriese popolo, e discacciati i Sisifìdi, che dominavano a Corinto, e con questi gli Ionii ch’erano ad essi uniti , popolò quella città. E incaminatosi poi verso F At- tica (per conquistarla), gli fu dall’oracolo presagito, se astenuto si fosse dal combattere il re degli Ateniesi. Or costoro, avuta no- tizia dell’oracolo, persuasero Codro, il re loro già settuagenario , a sacrificarsi volontariamente per la patria. Egli dunque , trave- stitosi in figura di taglialegne, fu ucciso da uno de’Dorii, i quali conosciuto il fatto, e disperando della vittoria (perchè Codro era rimasto ucciso) , con gli Ateniesi si pacificarono 71 ). E Pausania ricordando la prosapia di Sisifo , quegli che si avea qual fonda- tore di Corinto , dice che gli nacque non solo Glauco , padre di Bellerofonte , ma anche Ornitione , e poi anche Tersandro ed Almo. Da Ornitione nacque Foco, detto flgliuol di Nettuno, il quale una colonia condusse a Titorea, città che fu del paese dal nome di lui detto Focide, rimasto essendo a Corinto il suo minore fra- tello Toante. Da Toante fu generato Damofonte, e da questo Pro- poda , di cui furono figliuoli Dorida e Ioantida. Regnando questi ultimi i Dorii mossero contro Corinto, capitanati da Alete , figlio d’Ippote di Falante d’Antioco di Ercole. Ma Dorida e Iantida, ce- duto per accordo il regno di Alete , da privati si rimasero a Co- rinto; ed il popolo Corintio d’ogni suo dritto decadde dopo di es- sere stato vinto in guerra da’Dorii. Alete e la sua discendenza re- gnarono fino a Bacchi di Prumnide per lo spazio di cinque gene- razioni fino a Telcste di Aristodemo. Arieo e Perante uccisero per nimistà Teleste ; e dipoi non vi furono più re, ma Pritani 71) Conon. Narr. XXVI. Digitized by ^jOoq Le - 51 - scelti nella Famiglia de’ Bacchiadi, i quali d’anno in anno gover- narono; e tal governo durò insino a che Cipselo di Eezione, costi- tuitosi principe, non discacciò i Bacchiadi. Era Cipselo discen- dente da Melante di Anteso, il quale da Gonassa di là da Sicio- ne venuto co’Dorii contro i Corintii, sulle prime, perchè 1’ oraco- lo noi consentiva, ebbe ordine da Alete di andarsene presso altri Greci, ma poi senza badar più all' oracolo , l’ accettò seco in Co- rinto 72 ). Or chi dubitar potrebbe di tali racconti , e della verità di tutti questi fatti e successioni, se così distintamente si riferiscono? ma la spiegazione de’nomi de’personaggi già detti, come storici riguar- dati non solo dagli antichi, ma anche da’ moderni, guiderà chic- chessia all’ intelligenza delle narrazioni che li riguardano , colle quali riempivasi il periodo di tempo trascorso prima e dopo la invasione de’Dorii. Il tempo stesso passato dalla invasione sino a'Pritani Bacchiadi, che fu non meno di 333 anni, se 33 anni si contano per ogni generazione, e corre dal 1163 all’anno 883 a. C. 73 >, è un periodo abbastanza antico , e tale da far discredere la fama che ne invalse presso i Greci , e che su’nomi allegorici de’ Numi fu tutta immaginata e finta dalla tradizione e da’Logografl. Perchè limitar mi dovrei ai soli Dorii, o Eraclidi, discorrer non dovrei dei supposti principi di Corinto anteriori alla invasione; ma perchè i nomi di questi stessi all'origine medesima si riferiscono , ed una sola fu la fonte dalla quale derivaronsi , cioè la mitologia degli Eolii della Tessaglia, Tesarne incomincio dal primo fondatore fa- voloso, per compiere Tanalisi fino a Periandro, il vero primo prin- cipe storico di Corinto dopo i Bacchiadi. Che Sisifo , Glauco e Bellerofonte non appartengono alla storia, sì bene ai miti, o alla favolq, è noto a molti, e dirne davvantag- gio non sarebbe d’uopo; ma ciò non basta, e i nomi considerar ne debbo colle più probabili spiegazioni, onde persuadere ogni più 7») Paus. II, 4, 3 sgg. ferisce da quello di Larcher < Chronolo - 73) Questo calcolo di tre soli anni dif- gie d’Herodote. Digitized by Google restio alla giusta intelligenza de’ miti relativi , diversa dalla vana opinione di coloro, che non altrimenti dagli antichi vi han veduto insigni uomini storici. Dal significato etimologico di Sisifo , cioè colui che pende, o ondeggia (da (Ti-tTvQog), e che quindi è instan- cabile e irrequieto , perchè sempre muovesi , dotti ellenisti sono stati condotti a considerarlo come un nume dell’aria e del mare 7 <), tanto più perchè dicevasi padre di Glauco, il quale pel mare ce- ruleo si spiega, come dirò in seguito; e l’induzione più analoga a tale spiegazione sarebbe, che con Sisifo sarebbesi accennato ai vapori , i quali dal mare sollevandosi si concretano in nubi , che pendono, nell’aria, e che essendo dal vento sbattute, vanno e ven- gono per gli spazii aerei; ma se a comprendere le allusioni mitiche è prima di tutto necessaria la spiegazione etimologica de’nomi fa- volosi , a questa fa pur d’uopo unire la stessa favola, onde rag- giungere il certo, o verosimile significato allegorico. Il mito ricorda Sisifo come figlio di Eolo e di Enarete, e che consorte dell'Atlandide o Plejade Merope, dicevasi padre di quattro figli, de’ quali Glanco è il primo, da cui poi nasce Bellerofonte 75 ). Della città di E/ira, poi detta Corinto, fondatore, promuove la navigazione ed il com- mercio 76 ); ma scaltro, cupido di lucro e malvagio, si dà pure ai ladronecci, per cagione de’ quali è da Teseo ucciso, o per la sua impietà verso il fratello Salmoneo, di cui seduce la figlia Tiro , è da Giove precipitato nel Tartaro T! ). I varii scrittori che diversa- mente ne parlano, non sono sì antichi da poterne per {'intelligenza del mito seguire con sicurezza le testimonianze; e senza perciò ricordare le altre cagioni della sua morte, o della sua punizione nell’atra vita, perchè immaginavansi allorché se n'era già perduta l’allegoria, importa solo considerare la punizione stessa riferita da Omero, nella quale sta più prossimamente il significato di Sisifo, 74) Preller, Mythologie II, 51. — Gottfr. 712. Thucyd. VI, 4È. — Apollod. I. 9, 3. Muys, Hellenica. Kóln 1858, p. 205. 77) Apollod. 1 , 9, 3. Ili, 12, 6.— Paua. 75) Homer. II. S, 152-57. II, 5, 1. 76) Homer. II. 3 , 153. — Theogn. 703 , Digitized by ^ oogie - 53 - e del mito che lo riguarda. Da Ulisse, che sceso era nell' Hades, dove diversi eroi vide, e le pene da cui erano tormentati, il poeta fa dire 78 ): Sisifo oidi trambasciato assai Tra le palme portare un sasso ingente. Urtando con le man, su * piè pontato Il macigno alla cima alta d'un monte Spingea ; ma quando a superar la vetta Era da presso , una possente forza Indietro il sospingeva , e rotolando ! La grate massa ricadea sul suolo. Con nuoto sforzo ei la respingea. Dalle membra colatagli il sudore , E polve assai gli cadea dal capo. Se con Vòlcker veggiamo in Sisifo rappresentato il commer- cio, la vita marinaresca, e’1 dominio del mare della città di Co- rinto 79 ), tutto il significato del mito non abbiamo, perchè a che mai alluda la pena di Sisifo non sappiamo, e con questa lo stesso Sisifo punito nel modo già detto; ma tutto s’intende se nel re fa- voloso veggiamo sì il popolo corintio personificato, il quale come gli altri Eolii si diede a corseggiare, e per la sua relazione con Tiro come persone suppose Tiro e Salmone , ma "non trasandiamo il nume che adorava, cioè il Sole, il cui globo in alto ogni dì si solleva in apparenza, per poi abbassarsi e cadere sotto Torizzonte. Era tale Tingente macigno sollevato indarno da Sisifo; e la favola di aver egli raccomandato alla consorte di lasciare insepolta la sua salma mortale, ed il suo ritorno dall’Hades per punirla di a- vergli inumanemente ubbidito ®°), è una inetta spiegazione dell’al- lusivo ritorno, o risorgere del Sole. Come l’astro ogni dì si leva 78) Homer. Odyss. XI. pet. Geschlech. Giessen 1824, p. 119. 79) K. H. Vòlcker , Die Mythol. des Ja - 80) Schol. Pind. 01. I, 97. Digitized by Google - 54 - nel cielo, anche Sisifo ricomincia la sua fatica, che non ha ter- mine; ed è perciò quello stesso che fu detto altrimenti Apollo , E - lio, Endimione e Dioniso 81 ). La sua consorte Enarete esser non può che la stessa Avete , cioè la forte (apr/rrj) virago Artemide, o Diana, la quale come cacci atrice e battagliera fu detta consorte ò.' Alcinoo da Omero **), del nume cioè che sa combattere (AAx/- vo og), o del nemico d'Èrcole Euristeo, il quale fu detto di Alcinoe fratello, come questa sorella di Medusa **), affinità che di tutti questi numi e nomi dimostrano chiaramente le identiche allusioni rispettive. — Glauco, figlio di Sisifo, non è che il mare ceruleo, o azzurrino. Può vedersi in Ateneo quanto gli antichi vanegiassero nel riferirne le diverse genealogie 8 <), e senza trattenermi d’una spiegazione che viene dallo stesso nome, e ch’è posta fuori dubbio per molte ricerche 85 ), dico solo che le diverse dimore che gli e- rano attribuite in diversi mari e presso varie isole, i suoi amori e i monumenti sono tutti al mare allusivi, Antedone nella Beozia, Orea nell’Etolia M ), Deio 87 ) e Nasso, Dia presso Creta, e quest'isola stessa 88 ), e l’itsmo di Corinto 89 ), la Messapia e lo stretto Siciliano 90 ), sono i luoghi , in cui narravansene le avventure , luogi tutti ma- rittimi, che ne spiegano anche le amanti Arianna, Europia, Circe, e la stessa consorte Eurimede 9l ), le quali tutte , come la madre Merope "), non si risolvono che nella Luna, che dal mare si leva i pe’popoli marittimi. Come all’isola Si me in vicinanza della Caria 9S ) allude ancora l’altra sua amante dello stesso nome, così anche 81) 1. Uschold, Vorhalle tur Griech. Ge&ch. u. Mythol . Stuttgart. 1838. 82) II. VII, 64 sgg. 83) Apollod. II, 4, 5. 84) Athen. VII, p. 296. 85) Veggasi sopratutto la dotta disser- tazione di Gaedekens, Glauchos der Me - ergott. Gottingen 1860* 86) Athen. XII, p. 296. — Strafa. IX, p. 404 ? — Serv. ad /Bn. V. 823. 87) Nicandr. ap. Athen. VII, 29. — Ari- stot. ap. Athen. Vili, p. 296. 88) Apollod. Ili, 1, 2. 89) Paus. VI, 20, 9. 90) Strafa. IX, p. 347 ed. Didot. 91) Hellan. ap. Scol. Homer. , cosi egli fu detto amante dell’attributo della Sibilla, o della sacerdo- tessa di Apollo. Perciò ancora si vede con Scilla fu qualche mo- neta di Cuma w ) , e furono gli Eolii che ne portarono il mito in Italia. E bene poteva dirsi che venne nell’ Ausonia co’ Dioscuri , perchè dell’ uno e degli altri vennero il culto e le memorie favo- lose colla colonia de’ Laconi che fondò A micie 97 ) a poca distanza da Gaeta. E siccome forse i Laconi stessi estender si vollero a La- bico, fondata da una colonia di Alba 98 ), e poco vi si mantennero, fu detto che Glauco non valendo ad acquistarvi l’impero, ne andò via, ma la sua memoria vi lasciò coll’uso delle zone e degli scudi che a’ Labicani imparò di usare ") , e eh’ essi appresero da' La- coni. Ma se era fama che dopo di aver rapita Sime, figlia di Cer- ca/o, con lei navigò alla volta dell’Asia, dove l’isola deserta abitò, a cui impose il nome della donzella 10 °), fu perchè una colonia cretese andò a stabilirvisi, sebbene Cerca/o si diresse il primo de- gli Eliadi a Rodi , ed Ormeno suo figlio , il preteso fondatore di Ormeno nella Tessaglia , accenna agli Eolii di quella regione , i quali sotto i nomi del padre e del figiio intesero il loro re o nume, l’adunatore di nubi Eolo, perchè KepxxQog per K ixouQri'jjg non è che il soffio (da xouplco, spiro), e "Opfxrjsuog è l'impetuoso, che rife- risconsi al vento che gonfiava le vele di quegli arditi navigatori, se non furono gli stessi irruenti Eolii della Tessaglia. Se fu detto che Glauco fu dalle cavalle della sua quadriga dilacerato a Pot- nia 101 ), furono le cavalle o Tonde del mare che dieder luogo alla 94) Diod. Sic. V. 4 . — Ciane si disse an- che consorte di Eolo (Diod. V. 7). 95) Serv. ad Mn.V I, 36. — Diod. Sic. IV, 48. 96) Mionnet, Descr. dee med. I, p. 114.— Cf. Ovid. Met. XIV, 905. 97) Serv. ad Mn. X, 564. 98) Dionys. Hai. Vili, 19. 99) Serv. ad jEn. VII, 796. 100) Mnas. ap. Athen. Vili, p. 296. 101) Strab. IX. p. 409.— Virg. Georg . Ili, 266. — Prob. ad Virg. Georg. Ili, 265. Digitized by ^jOoq le - 56 - favola, perchè i flutti commossi par che dividano e squarcino il liquido elemento. Dalla invalsa leggenda provenne a Glauco il co- gnome di Tarassippo ; e non solo mostravansene il monumento sull’istmo, ma un Tarassippo anche si pose presso l’uscita dell'ip- podromo di Elide , il quale in figura di un altare cilindrico, dice Pausania, i cavalli atterriva che correndo gli passavano daccanto, i cocchi vi si fracassavano, e i cocchieri ne rimanevano feriti; dal che facevano sacriflzii, e raccomandavansi che il Tarassippo fosse loro profizio 102 ). Ma è da credere piuttosto che quell’ara o monu- numento ivi si ponesse pe’ cavalli che spaventar si potevano come le supposte cavalle di Glauco ; e se a’ molti personaggi mitici il racconto e l’arasi riferivano, Pausania si persuase che Tarassippo stato fosse un soprannome di Nettuno Ippio, e così più probabil- mente spiegar si può l’eroe Taras delle monete di Taranto; per- chè quando in vece di pensarsi al nume del mare che guidato a- vea la colonia , o sotto la cui protezione credevasi eh’ era giunta in Italia, si ebbe mente ad un eroe favoloso, sì fatto eroe si figurò sul delfino delle monete di quella città, nella guisa stessa dell’A- rione da Periandro offerto nel tempio di Nettuno al Capo Tenaro 103 ), il cavallo cioè del nume, che dava origine alla favola del poeta. Anche Falanto, altro supposto fondatore di Taranto , fu detto da un delfino salvato da un naufragio nel mare Crisseo allor che ve- niva alla volta d’Italia; e in quest'altra favola si confuse, io credo, il primitivo culto di Apollo con quello di Nettuno, perchè col nome di Falanto da (^aXas, o . Aavtapfrrtta. 116) flist. des Col. gr. t. II, p, 365, no- ta (5). 117) Diod. Sic. IV, 67.— Hygin./aò. 14. 118) Apollod, III, 10, 4. 119) Diod, IV, 67. 120) Fest. y. October equus . Digitized by Google — 60 - dano , e vi fanno fiorire le piante , nell’ autunno la intristiscono allagandola. L’abuso della personificazione suppor faceva che Bel- lerofonte per imprudenza uccidesse il fratello Deliade , o , come altri dicevano, Pirene, o Aitimene m ). Se Pirene ricorda chiara- mente la celebre fontana di Corinto, o sulla vetta dell’Acrocorinto, di donna che fu, in fontana trasformata giusta il mito a forza di lagrimare piangendo il figliuolo Cencria , da Diana ucciso senza volerlo 122 ), persone esser non possono Deliade ed Aitimene , di cui il secondo spiega il primo; perchè se Aitimene è la stessa che Alcmena , Alcimaca , Alcimede ed Alcidice , si per l’analogia di tali nomi allegorici, sì perchè Aitimene con Tessalo dicevasi flgliuol di Giasone e di Medea m ), Deliade non può dirsi che la stessa dea lunare, il cui tempio era a Corinto sulla via che dall’ istmo me- nava al porto Cencreo 124 ). Se quindi ancora si comprende il fa- voloso Cencria , da riferirsi al nome di uno de’ porti della città , ' come il fratello Lecheo a quello dell’altro porto, cosi detto dall’a- prirsi in un un luogo verdeggiante ed erboso (As yaìiog), per la spiegazione del primo di nomi si fatti altri nomi geografici iden- tici sono da considerare, la borgata delle Cencree dell’Attica, e le città di Cencrea dell’Arcadia e dell’Argolide 125 ) , e più queste che quella, il cui nome nell’Italia si ripeteva e nella Troade 126 ) per ca- gioni diverse, nella Troade per l’emigrazione degli Arcadi, e nel- l’Italia per la colonia partita dal porto Cencreo di Corinto , e che venne a fondar Metaponto , come nell’isola di Cipro per un’altra colonia simile si riprodusse il nome dell’ Afrodite Cencreide 127 ) della stessa città di Corinto, e quello di Cencreo nell’isola di Sa- lamina 128 ), perchè Cencreo anziché essere un figlio di Nettuno e 121) Apollod. Il, 3, 1. 122) Paus. II, 3, S, 5, 1. 123) Diod. Sic. IV, 54. 124) Paus. II, 2, 3. 125) Plut. Demetr. 23. — Strab. Vili, p. 376.— Paus. II, 24, 7* — Pljn, H.N . IV, 5. 9.— L’Ornito Arcade (Paus. Vili, 28, 4,) il qua- le spiega YOrnitione figlio di Sisifo (Paus. Il, 4, 3), e gli Orneati Arcadi trasferiti ad Argo (Paus. Vili, 27, 1), danno a cre- dere l’origine arcadica di Cencrea . 126) Steph. Byz. v. Ktyxf**** 127) Ovid. Mei, X, 435.— Cf. Engel, Ky- pros . 128) Diod. Sic. IV, 72.— Perchè gli Egi- neti passarono a Salamina, si disse Te- Digitized by v joogie - 61 — di Salamina e principe de’Salaminii , come colla credenza popo- lare ripeteva Diodoro, non fu che un cognome o epiteto dello stesso nume del mare a Corinto , di cui Cencrea e Leche, o Lecheo , i nomi di due porti della città , dicevansi Agli con Pitene 129 ) , che fu quello della fontana sì celebre nel mito di Bellerofonte. Non al- trimenti che coll' occupazione de’ Corintii può spiegarsi il nome dell’isola Cencreide di contro al promontorio S pireo 13 °) , il capo Spiri, o Franco di oggidì, e ch’è forse da indicare in quella che col nome odierno di Apristi è a non molta distanza delle più piccole isolette di Moni e di Metope 13l )> in guisa che bastando il detto nome Cencrea , non mi sembra che al miglio (xéy%pog) debba pensarsi per vedervi un simbolo di Venere, alla quale la rugiada fu assimigliata 132 ), perchè se la dea fu detta Cencreide , o Migliarino , tal nome ebbe dal luogo in cui fu adorata, dal quale anche Cencreo si suppose, sebbene la coltivazione del miglio potè dare occasione al nome di uno de’porti di Corinto. E se molto pro- babilmente la Cencrea della Troade fu nell’odierno Tsigri, un luogo tra la città d’ilio , e quella di Asso 133 ), che ricorda il castel d'Asso dell’Etruria 134 ) , non credo dubbio che la Cencrea d' Italia fu già nell'odierno Miglionico, a non molta distanza dalle rovine di Afe - taponto, il cui antico nome di MiUonia non fu che una traduzione del greco nome di Kiy^pcua, che trovasi appunto in vicinanza di Metaponto , perchè di questa città furon fondatori i Corintii, i quali nella Cencrea italica riprodussero, come altrove, il nome del ce- lebre loro porto, sebbene al dotto comentatore di Stefano paresse ben difficile indicare il luogo in cui fu edificata 135 ). Pitene, fratello lamone, il loro nume, passato nell’isola, ©sposatosi con Glauce, figli* del re Cen- creo . 129) Paus. 11. 3, 3. 130) Plin. H. N. IV, 19, 6. 131) L. S. Bandin, Manuel du Pilote de la Mer Méditerranèe . Toulon 1849, t. II. p. 212. 132) Nork, v. cenchreis. 133) Leake ap. Forbiger 1. 1, p. 150. no- ta (73). 134) Vedi Micali ed altri. 135) Pinedo, Ad Steph. Byz . p. 373, no- ta (31). Digitized by v^oogie — 62 — di Bellerofonte, s’immaginò come Pitene , padre d 'Io lS6 ), o della vacca lunare 187 ) amata da Giove , alla quale altri padri ancora, come diverse madri per ragioni diverse si attribuirono , e il cui mito diede occasione alla celebre vacca di bronzo posta presso la fontana di Corinto, si al naturale espressa dall’artefice, che un toro se ne invaghì, come scriveva Clearco l38 ). Pel cavallo, simbolo di Nettuno, o del flutto del mare agitato , e per le sorgenti sup- poste dell’Oceano originarie, cosi che Arione, o il cavallo Pegaso, ossia la sorgente che rampolla ( / 7rr i yrj, da 'Kr t yu) , compingo ) e che scorre ('7retpyjvy), da 'itzlpte, transeo ), si disse figlio di Nettuno e Medusa m ), cioè del mare e della nuvola, da cui l’acqua scende sulla terra 14 °), il mito di Pirene è connesso con quello di Belle- ro/onte , il cui cavallo è detto nfBiprivcciog rtioXog da Euripide U1 ), come vi è connessa la favola della fonte Ippocrene e di Sisifo 142 ), cosi che sotto la prima Strabone vide i ruderi del Sisi/eo di bian- chi marmi , che non seppe dire se tempio, o reggia 143 ) , perchè comprendere non poteva che fu anzi un monumento non molto antico posto al favoloso fondatore di Corito , come Pausania non comprese del pari che un monumento simile fu il supposto se- polcro de' figliuoli di Medea, Mermero e Fere , presso l’Odeo di quella città 144 ), i quali appartennero alla mitologia degli Eolii, e probabilmente solari attributi come lo stesso lor padre Jasone , 136) Apoilod. II, I, 3. 137) Herod. II, 41.— Plut. De Is. et. O- sir —11 racconto, che Giove rapi Eu- ropa , e la trasmutò in vacca , nacque dalla figura simbolica data alla dea, che accennava ad Iside, o alla fecondità del sole in congiunzione con la luna. 1S8) Athen. XIII, p. 605* 139) Pind. 01. XIII, 89, sgg.— Apoilod, li, 4, 2. — Schol . Il $, 155, — Hesych. p. ¥ iieieuot , — Ovid. Fast. IH, 450* Mei. IV, 784, 797, V, 119. Cf. Vólcker, Die mythol. ecc. p. 227, nota (802). 140) Emeric David, Neptune. Paris 1839 , p. 7, Ct. Jupiter t. II, p. 516. 141) El. 475. 142) Pausania (II, 5. 1) scriveva che Si- sifo punito fu neirinferno perchè pale- sato avea ad Asopo di avergli Giove ra- pita la figlia Eginà ; ma il tempio d *Hitia fuori la porta Teneatica dall'Acrocorinto voltando alla parte montuosa (Paus. II, 5, 4) dimostra piuttosto il culto della dea lunare, tutt’,uno con Europa , con Iside , ed Ilitia. 113) Strab. Vili, p. 326 Didot. .144) Paus. II, 3, 6.— Cf. Apoilod. I, 9, 27. Diod. Sic. IV, 54. — E lo stesso Apollo- doro {fragra. 170) diceva vanamente Mer- mero figlio di Farete. Digitized by t^oogie — 63 - perchè il Sole è quello che l’anno divide (Msp-ptspos, da (ASipo)) nelle stagioni e ne'mesi diversi, è quello che dà la vita, ed è sa- lutare a tutto che vive sulla terra, e però forse detto o oscura notte , come Euripilo (Pind.PyM. IV, 34). La stessa etimologia spiega Lyces, Lido, Licasto, Liceto, Lieo - la, Licomede, Licone , Licopeo , Licurgo, Lieo, anche figlio di Celene (Hellan. fr. 56), da Nettuno suo padre condotto nelle isole de’fortunati (Apollod. Ili, 10. 1), os- sia il Sole che passa all’occidente. Lyca - bas si nominò il corso annuale del Sole, e per l’analogia di Xvim, lux, con x**o t lu- pus, nacquero le favole su Lieo e Licaba, come sulle metamorfosi In lupi , a cui credettero gli antichi. 203) Vedi nota 71. 204) Paus. Vili, 51, 1. Digitized by ^jOoq le - 72 - E per ritornare alla probabile origine del culto di Toante, dico che anche gli Etoli sono per tal culto da ricordare, perchè sotto la guida di Toante , re dell’Etolia, dicevasi fondata la città di Te- niesa nella Brezia *° 5 ), e con gli Eraclidi gli Etoli ritornavano nel Peloponneso sotto la guida di Oxilo , e gli Epei discacciavano dal- 1’ Elide sotto il medesimo duce 2 06 ). Or sebbene Oxilo e Toante sono nomi diversi, tali sono in apparenza, perchè applicati li ve- dremo con quasi identico significato allo stesso nume de’due po- poli. Ma sia qualsivoglia l'orìgine propria del mito di Toante, con tutti i riferiti confronti si spiegano Toante figlio di Dioniso e di Ariadne 2m ), e Toante figlio d’icario e di Peribea 208 ), perchè Icario , cioè l’ubbriaco (dal semitico nome simile 209 ), è epiteto di Dioniso, ed Ariadne e Peribea sono la Luna, la prima come figlia di Pasi- fe 210 ), altro lunare attributo, che chiaramente si spiega per colei che su tutto risplende (da 'rrauTi-QoLCjS), e l'altra come consorte dello stesso Icario 211 ), dal suo nome spiegata pel minore pianeta, per- chè Peribea, o la vagante vacca ('7rsp/-|3ot5$)> è la stessa che Io, la supposta figlia di Iaso, trasmutata in vacca da Giove 2l2 ), la vacca lunare custodita da Argo Panopte, tutt’occhi, ossia del cielo stel- lato, la stessa che Europa da Giove anche rapita sotto la sembian- za di toro 213 ), cioè la Luna che ampiamente guarda, perchè am- piamente illumina, e che tramontando scomparisce dall'orizzonte. Pindaro ’è Sofocle la nominano in vece Eribea 2U ), la stessa che la Eeribea di Omero 2i5) } forma poetica del primo nome, e che come 205) strab. VI, 5. 206) Strab. p. 404, 498, 407, Didot. 207) Schol. Apollo». Rh. 111,497.— Stat. Theb. IV, 796. 208) Apollod. Ili, 10, 6. 209) Nork, c. Icarios. 210) Apollod. Ili, I, 2. 211) Apollod. Ili, 10, 6.— Paus. Vili, 41, 2. — Tzctz. ad Lycophr. 511. 212) Hesiod. fr. 174, — ^Eschyl. Suppl. sgg.— Apollod. Il, 1, 4. 213) Astarte, Europa, o la dea lunare, sedente sopra un toro effigiavasi sulle monete de'Sidonii e de* Ciprii (Lucian. De Dea Syr. 4.— Mionnet, Mèd. ant. t. V. p. 251. sgg.), ed altra non essendo che Iside a testa di vacca (Plut. (De 1$. etQ- sir 49), fu detta figlia di Fenice Per imede (Homer. II. XIV, 421. Paus. VII, 4, 2) per la ragione che i Fenicii ne propagaro- no il culto, e la supposta sua madre non è che un epiteto della stessa dea, ana- logo a Peribea e Medea. 214) Pind. Isthm. VII , 65. — Soph. Aj. 570. 215) II. V, 485. Digitized by ^jOoq le — 73 - madrigna di Oto ed Eflalte si dimostra per lo stesso minore pia- neta, cioè per la stessa Ifimedia (la forte regina, IìVr<), perchè il sole co’suoi raggi ne di- legua la luce ; il secondo è il solare biondo cavallo (da £avSo£ e ì'iF'ifog) , ed il terzo è semplicemente il risplendente ( txpyiog )■ Anche dentro la loro città gli Epidaurii ebbero un tempio di Diana 248) Paus. Il, 17, 4. IX, 30, 4. 251) Paus. II, 28, 6. 249) Vedi i Lessici. 252) Paus. ibid. 250) Paus. II, 28, 3. II, 28, 1. Digitized by v^oogie - 79 - e di Bacco 25S ), e come dell’ima s’intende il detto nome di Orsobia , così dell’altro facilmente si diranno attributi Cerino e Falce, an- ziché due fratelli, che a Deifonte rapirono la Irneto 254 ), sebbene Bacco, o il Sole, di fatto rapisce la Luna, perchè al suo sorgere fa scomparirla. Gli altri figli ancora di Temeno, Agelao, Euripo e Calila, si spiegano, il primo per colui che ride ( ’A-ysXa.os ) » che fu attributo' di Plutone 255 ); il secondo, più propriamente Eu- riopo, che ampiamente guarda (Eupu-ckp) , è epiteto del Sole , o dell’eroe solare Ercole, perciò detto uno de’suoi figli 2M ), perchè su tutto diffonde il suo splendore, benché per altra ragione Omero lo stesso attributo ascrive a Giove 257 ); e l’ultimo non si dirà che un attributo analogo, perchè KaXXias, derivato da xaXXióa;, venu- sto, bene si riferisce al Sole, che tutti gli oggetti abbellisce colla sua luce. Se ancora per intendere il primo figlio di Temeno, è da riflettere che Ageliade o Agelaide , cioè la predatrice, è un attri- buto di Pallade *“), per le prede che si fanno nella guerra, attri- buti , anziché persone, si diranno gli altri Agelai de’ mitologi, i quali pe’genitori e i figli che loro si attribuivano, si vede che al- ludevano al Sole che risplende meno dell’usato nel tempo dell’anno che gli è avverso, e lo splendore ne offusca, e fa venir meno 2M ). Un’altra spiegazione di Deifonte, il supposto marito $ Irneto, di- ' mostra ancora su che s’immaginassero tutti questi mitici perso- naggi , per narrarci come storia le favole , o le supposte azioni de’nomi puramente allegorici. Perchè narravasi che Deifonte , dalla madre Metanica affidato all’ educazione di Demetera , o Cerere , che col fuoco lo purificava per renderlo immortale, moriva al so- pravvenir della madre, la quale per conoscere il secreto dell'alle- vamento misterioso del bambino veniva nell’atto che dalla dea era 253) Paus. II, 29, 1. 254) Paus. II, 28, 3 sgg. 255) Nork, v. Agelaos. 256) Apollod. Il, 7, 8. 257) Homer. II. V , 265.— Per la ragione stessa la Luna fu detta Europa (e vfv-faa) nella sua pienezza. 258) Homer. Ody&s. /, 378.— Orph. Lyth. 15, 69.— Eustath. ad II. X, p. 818. 259) Sono tali Agelao f figlio di Ercole e di Omfale (Apollod. II, 7, 8), Agelao f figlio del Gigante Damastore(Homer.Od#ss.XX, 321, XXII , 131 , ed Agelao, figlio di Cali- done (Anton. Lib. Mei. 2). Digitized by Google - 80 - passato per mezzo della fiamma 28 °) , si è detto che non da altro sembra nato il racconto, che dalPetimologia di Syjcb, bruciare 2tl )> e furono i misteri della dea , che dar potevano origine alla leg- genda; così che se Metanira, la supposta regina di Eieusi, s'in- tende per colei che fa emigrare ( Mg'Ta.vstpa da (A£'Tclvi£oÌcio) , e sarebbe attributo di Cerere, o la stessa anima immortale ch'emi- gra (da (xsrav/b'o'optai), o che delle sue colpe si pente (da^Ta- VoboS) pel viaggio dell’altra vita, Dei/onte, mancato ai vivi per ca- gione di Demeter, per l’epiteto poetico di alla dea attribui- to 262 ), lo stesso che Demofoonte, rappresenta la purificazione del- l’anima per mezzo de’misteri 2 ^).—Cres/onte , Merope, e Polifonte sono tra loro in relazione come Osiride, Iside e Tifone della mi- tologia egizia, cioè come il Sole con la Luna, l’autunno e l’inverno con lo stesso astro maggiore dalle nubi oscurato nelle stagioni meno luminose dell’anno. In conferma di che è da notare che per consorte a Cresfonte attribuivasi la Merope di Cipselo, re degli Arcadi 244 ), e che a Messene era il tempio di Messene, figlia di Triopa, nel qua- le dipinto era Leucippo, fratello di Afareo, e con lui Ilaira e Febe, ed Arsinoe col suo figliuolo Esculapio m ), nomi tutti che al Sole ed alla Luna si riferiscono per l’ etimologie e i significati rispettivi *•*). 260) ApoHod. 1,5, 1 sg.— Igino (/ab. 147), il quale sembra di aver seguito Paniasi, dice che lo stesso Trittolemo fu da Ce- rere allevato, e fuggito dalle fiamme, la conoscenza deir agricoltura propagò su tutta la terra (cf. Serv. ad Georg. I, 19); ed altri assicuravano che Celeo , non già il flglio,fu quegli che fu abbruciato(Schol. Nicandr. Theriac. p. 24, ed. Morel); le quali discrepanze colla stessa vana spie- gazione di Ovidio (Fast. IV , 507 sg.) na- scevano dalla storta intelligenza del mito tutto allegorico. 261) Etyra. M. c. Auw, col. 263. 262) Schol. Hesiod. Thcog. v. 454 , ed. Heins. p. 268. 263) Creuzer, Relig. de Vantiq . t. Ili, P. II, p. 814. 264) Paus. IV, 3, 6. 265) Paus. IV, 31, 11 sg. 266) Al sole allude chiaramente Leucip- po, o il cavallo luminoso , con tutti gli al- tri nomi, o epiteti simili, Ippalcimo , //>- paso , Ippozigo , Jppeo , Ippocoonte, Ippode- tOj Ippoloco , I pponoo , Ippotoo, Ippotroco , ed Jppote, e i 50 figli di Egitto contro le Danaidi rappresentati nel portico del tempio di Apollo Palatino a Roma (Acron ap. Schol. Pers. II, 56). Esichio (v.‘i ***>«) dice che Ilaira , o la serena , è epiteto della dea lunare; e non vi essendo dub- bio per Febe, o *© /fa, o la Luminosa, per- chè Febo, o , fu detto anche il Sole (Homer. IL 1 , 43 , 413. Schol. Apollon. II, 302, e perchè Febe fu anche detta madre dello stesso astro luminoso ( Eustath. p. Digitized by ^ooQie — 81 — E se in fine Epito, figlio di Cresfonte, accenna ad Ermete, il nume deirei oquenza, che spiega il suo epiteto di parlatore (snriTog), col qual nome era adorato dagli Arcadi 267 ), non altro che nomi alle- gorici esser possono tutti i suoi discendenti. Sono così allusivi i primi tre , Glauco , Istmio e Dotada 268 ) , che chiaramente vi si scorge la fantasia, o la finzione che li creava dal mare, dall’istmo, e da’giuochi che vi si facevano, ed anche dal popolo che l’ istmo abitò in origine, o che a’ giuochi concorse; perchè Glauco, figlio di Minosse, è lo stesso Glauco , figlio di Sisifo, o il mare di Corinto, come ho detto. Istmio è l’istmo, o i giuochi celebrati da Pindaro, e Dotada è il popolo di Dotio della Tessaglia 269 ) , che appunto per tale personificazione conosciamo qual primitivo fondatore di Corinto insieme con gli Eflri, come dirò in seguito. Perchè senza alcuna spiegazione etimologica Sibota è chiaramente il porcaio (crvfiiorrig), non allude senza dubbio che ai porcai de’ Tessali, il cui tipo è in Eumeo, il noto servo di Ulisse 27 °); e Finta è 1’ au- riga ((p/vT/g), che i cavalli, o i muli guidava alla vittoria ne’giuo- chi sacri a Nettuno. Ed esser possono altro che allegorici i figli di Finta , se allegorico ne è il padre? Antioco è spiegato non solo 38, 2) per la ragione che le succede nel cielo, non si può nemmeno dubitare che Arsinoe fu detta sorella d ’llaira e di Febe, perchè fu un altro attributo di Diana, o della dea lunare, la diva virago di Sene- ca ( Hippol . 54), a cui corrisponde il gre- co nome di Afxwot. Nè altra fu 1' analoga Arsippe , figlia di Leucippo , e sorella di Leucippe , amata da Apollo. E s* intende ancora Y Arsinoe, pretesa balia di Oreste, che lo sottrasse al furore della madre (Pind. Pyth. XI, 18). Poiché Pindaro chie- deva a sè stesso qual potè essere la ca- gione deir uccisione di Agamennone , e non altrimenti da Eschilo la ritrova ne- gli amori criminosi di Clitemnestra, onde poi Oreste vendicava il padre coir ucci- sione di Egisto e della madre, col cele- bre tragico celebrava tragedie puramen- te allegoriche. E se alla stessa Clitemne- stra, sorella di Elena, corrispondono la Laodamia , come pur si nomina la sup- posta figlia del figlio di Agamennone, e le Laodamie di altri miti, vi corrispondo- no ancora Climene, schiava di Clitemne- stra, e Clitia e Clitippe di altre credenze popolari , cioè la Luna nell* interlunio , come Arsinoe con Cassandra ed Elettra e il pianeta nel suo periodo luminoso , non altrimenti che Oreste è il Soie che sorge sulle montagne , e Laodamante quando è sotto l'orizzonte. 267) Paus. Vili, 47, 4. 268) Paus. IV, 3, 9-10. 269) Strab. X, p. 443. 270) Homer. Odyss . XV, 402 sgg. Il Digitized by Google — 82 — da tre altri mitici personaggi omonimi, Antioco figlio di Egitto m ), Antioco figlio di Pterelao m ), ed Antioco figlio di Ercole e di Mi- dect 273 ), ma anche da tutti gli altri eroi simili, che ne’ loro nomi si presentano come avversarli ( Antileone , Antiloco , Antimaco , Antinoo, ed Antiochete) del nume della luce, i principii della notte che gli è opposta , e che chiaramente si mostra ne* nomi femmi- nili analoghi, Antianira , Anticlia, Antigone, Antimache ed An- tinoe, su’ quali credo soverchio trattenermi. E potrà esser quindi altro che allegorico il suo fratello Androcle, l’uomo cioè che ce- lebre diveniva per la vittoria ne’giuochi acquistata? Questa spie- gazione discende dalle precedenti, e non mi par dubbio, che la- sciando ogni racconto sulla pretesa storia degli Eraclidi, e su’loro discendenti , appena giunger dobbiamo alla prima guerra della Messenia (743-723 a. C.) per cominciare a credere ai primi movi- menti occorsi in quella regione. Perchè quanto narrava Pausania di tale prima guerra Tattingeva per lo più dal poeta Riano di Creta e da Mirone di Priene 274 ), con che ne seguì forse le orme con lo stesso Eschilo Alessandrino , il quale scrisse pure sulle guerre della Messenia 275 ), come tutta una leggenda un illustre storico ne riguarda giustamente la narrazione, nella quale è impossibile di- stinguere il falso dal vero 27 °); e sebbene lo stesso O. Mùller non portò un giudizio diverso su’primi fatti di quelle guerre, perchè a quelle che li narrarono esser poterono di prima guida chi scrisse le Naupactie , e Cinetone ed Eumelo 277 ) , non si comprende poi come egli credesse ai re Epitidi, anteriori alla conquista degli E- raclidi 278 ). Il grammatico Arrunzio Claudio negli Eroi di Ornerò non altro ravvisava che prenomi , nomi gentilizii e cognomi m ) ; e più al vero si sarebbe apposto, se li avesse riferiti per lo più ai Numi, 271) Hygin. /ab. 168. 276 Victor Duruy, Hist. grecque. Pari# 272) Apollod. J, 4, 5. 1851, p. 67, nota (2). 273) Apollod. 1, 8, 3. — Diod. Sic. IV, 87 , 277) O. Mfiller, Die Dorier I, 7, 8. l.-Paus. 1, 5, 2. Il, 4, 3. X, 10, I. 278) Id. op. Cit. Ili, 6, 10. 274) Paus. IV, 6, l. 279) Diomed. p. 321, ed. Keilii (p. 307 od. 275) Athen. XIII, p. 599. Putsch). Digitized by ^.oogie - 83 - anziché alle supposte persone eroiche , il che bene ha compreso A. de Vertus, e la dovuta lode è da dargli quando ha detto: Nous en demàndons pardon à tous les Mythologues anciens et moder- nes , mais nous sommes obligés de leur dire qu’ils n’ ont jamais su ce que signiflaient les attributs de leurs pretendus dieux, car l’attribut' c’ etait le dieu lui mème 280 ). Il dotto scrittore dice be- nissimo, sebbene non tutti i mitologi non hanno saputo il signi- ficato degli attributi de’pretesi numi, perchè alcuni li spiegano ap- punto per quel che sono, cioè come cognomi puramente allegorici; e convengo tanto con questo modo d’interpretazione della mitolo- gia, che giusta un tal sistema alle investigazioni de’dotti aggiun- gendo le mie proprie ho cercato di spiegare le diverse leggende mitiche in altre memorie come in questa, ed al eh. A. de Vertus debbo egualmente applaudire, il quale de’nomi diversi della Luna ha detto quel che de’nomi del Sole e di altri numi è da dire, cioè « che la poesia e l'amore del meraviglioso, queste tristi infermità « del genere umano, al più alto grado portate presso gli Orientali, « interpretando questi semplici nomi li tradussero in credenze più « o meno false 281 ). » Non altrimenti fecero i Greci con dar luogo alle leggende mitiche che tutti sanno, ma che non s'intendono per lo più , quali sono quelle che ho tolto ad esame del tempo degli Eraclidi. In guisa che, se nè Ilio , nè Temeno, nè gli altri Eracli- di, che da diverse donne ad Ercole si volevano nati, e che perciò furono da Eschilo compresi nel nome comune di ’AfAtPi/xìQTopss 282 ), creder non si possono persone storiche, è da dire che gli Eraclidi in generale altro non furono che gli adoratori d’Èrcole, anziché i suoi figli e discendenti. Nè i nomi de’rimanenti fondatori del Peloponneso fan difetto al- 1’ esposto modo d’ interpretazione. Perchè i supposti fondatori di Lacedemone Euristene e Prode non sono, che due esseri mitiei, i quali si avvicendano nel dominio del tempo e delle stagioni, e per- 280) A. de Vertus (Vice-Prósident de la Thierry 1868, p. 33. Societé historique et archóologique de 281) A de Vertu», Mètri . cit . p. 31. Chateau-Thierry) , La Langue primitive 282) Hesych. v . Aptyipinv. basèe sur Vidiographie Lunaire. Chateau— Digitized by ^jOoq le - 84 - chè in sostanza sono lo stesso, quanto a dire l’inverno, furon detti gemelli per la ragione che se l'uno è quegli che ampiamente im- pietrisce (Eipu-G'^'Ivrjs) , qual è l’inverno , che facendo per ogni dove venir meno la vegetazione , intirizzisce e petriflca la stessa terra col gelo e la così detta ferraccia , l'altro non è che l’inverno stesso , il quale cominciando colle piogge copiose la terra prima bagna (IIpoxX 7 )£, da 'jfpo xXv^CC, ante proluo) e di acque la ri- copre. L’inverno incomincia per lo più colle piogge , e si avanza e cresce co’geli; e siccome spesso avviene il contrario, perciò Eu- ristene fu detto il primo dei gemelli , ai quali non dubbiamente corrispondono co’ loro nomi Plistene figlio di Atreo m ), e Proclea figlia di Clizio m ) } odi Laomedonte 285 >, cioè lo stesso inverno che la terra rende infeconda e dura come la pietra, e la pioggia che lo precede, o anche la Luna che l’annunzia spésso, la quale perciò sembra detta figlia di Clizio , perchè il Sole luminoso (xXvnog), da cui ha la sua luce, è reso oscuro dalle nuvole, donde la pioggia cade sulla terra; e in questo senso il Sole Clizio per la sua oscurità è per l’altra genealogia di Proeleo tutt’uno con Laomedonte, il nume cioè delle ombre 288 ), che su tutti i popoli, come su tutti gli uomini impera (Aao-/xs5ouv), perchè tutti sono passati, e passar debbono non so se nella esile, o ampia dimora di Plutone 287 ). Argia , la madre de' gemelli, è la bianca (apy/a), la. fulgens radiis argen- tea puris, o la nioea Luna di Ovidio la quale puro nitore exor- ta, annunzia il tempo sereno 289 ); ed il lor padre Aristodemo è da da dir forse analogo al nume dell’anno Aristeo 2W J, detto figlio di Apollo 291 ), e padre di Ecate e di Acteone 292 ), o anche ad Aristo- macoy uno de’ pretesi proci d’Ippodamia 29S ), i quali tutti non sono meno di Aristodemo e di Aristeo allusivi. 283) Apollod. 11,2,2. — Schol.Eurip. Or. 5. 284) Paus. X, 14, 2. 285) Schol. Lycophr. 232. 286) Nork, v. Laomedon. 287) Horat. Od. I, 4, 17. 288) Met. X, 488 et. 367. 289) Plin. H. N. XV11J, 79. . 290) Schol. Apollon. Rh. II, 500. 291) Acestod. et Phylarch. ap. Apollon. Disc. Hist. comm. 14. 292) Pherec. ap. Schol. Apollon. Ili, 467. Apollod. Ili, 4, 4. 893) Paus. VI, 21, II. Digitized by t^oogie - 85 - Se or sappiamo chi furono propriamente i supposti fondatori delle città del Peloponneso, ritrovar ne dobbiamo i fondatori veri e storici, anteriori all’irruzione degli Eraclidi. Poiché Corinto si nominò prima Eflra, furono gli Eflri Eolii che la fondarono in un tempo veramente primitivo, il quale sconosciuto agli stessi Elle- ni, dava luogo a supporre che l’origine se ne dovesse ad un’Eflra, figlia dell’Oceano, cioè ad una colonia venutavi per mare, e da una donna condotta di tal nome, come le città di Napoli e di Asti- palea dalla Sirena Partenope , confondendosi così la fondazione primitiva collo stabilimento de’Fenicii, e il nome di un popolo con quello di una donna favolosa. Per essersi Eflra anche supposta così detta da Eflro, figlio di Mirmice e di Epimeteo 294 ), non par dubbio che anche i Mirmidoni vi sopravvennero , i quali furono così detti dalle loro abitazioni sotterranee ( \x .vpyLYjKi'ou ) , come i Mateolani e i più antichi abitatori di Ariano nelle nostre contra- de 2 * 5 ), e le abitazioni delle formiche (MvpfJudóvsg , da (/,vp(Jir£) , il che dava a supporre la Mirmice favolosa; ma non già i Mir- midoni della Tessaglia, sì bene quelli di Egina, per ciò che Ste- fano soggiunge, cioè che si nominò anche Epope da che Sisifo vi vide Egina rapita da Giove, sebbene i Mirmidoni Tessali furono quelli che in Egina si stabilirono. Il mito di Antiope , figlia di Nicteo, amata da Giove, e che dal padre minacciata, fuggì a Si- done, dove riparò presso Epopeo, al quale poi si sposò 2M ), spiega il nome di Epope, cioè che, se non fu l’alta rocca dalla quale la città sottoposta, la marina e tutto il paese intorno si vedea, altra non può credersi che la Luna, la quale sorge nella notte e guarda dall’alto come la stessa Antiope, nella guisa stessa ch’Epopeo fu detto padre di Nictimene a Lesbo *”), per la ragione che la notte, o la stessa Luna , succede al Sole che tramonta ; e tutti questi confronti dimostrano che a Corinto, come a Sicione e a Lesbo, i due pianeti si adorarono, i quali poi furon creduti persone stori- 294) Steph. Byz. e. xìfwflo*. 296) Apollod. Ili, 5, 4. 295) V. la mia Topografia delle nostre 297) Hygin./a&.204.— Lutat. ad Stat. Theb~ antiche regioni. Ili, 507.— Serv. ad Georg . I, 405. Digitized by v^oogie — 86 - che; e per Corinto soprattutto vi è la stessa testimonianza di Ste- fano, il quale dice che si nominò anche Eliopoli, non già perchè arido erane il suolo, come egli nota , simile a quello della omo- nima città dell' Egitto, ma perchè fu la città di Elio , o del Sole, come la città egizia, essendo il Sole di fatto adorato nell’una città e nell'altra; ed il racconto di Pausania, ch'Epopeo dalla Tessaglia passò a Sicione, come Giano dalla Perrebia a Roma 298 ), e che da Tebe rapì la bella Antiope m ), dimostra che furono gli stessi Efiri, o Tessali Eolii , che il culto solare e lunare nella città introdus- sero come nella stessa vicina città di Sicione, dove era fama che Epopeo edificato avesse il tempio ad Artemide ed Apollo 80 °), come furono i Perrebi o Pelasgi della Tessaglia quelli che portarono il culto del Sole a Roma, dal che poi Augusto allo stesso nume edi- ficò il tempio, e Nerone il gran Colosso di CXX piedi colla propria immagine, a cui Vespasiano tolse il capo, e vi ripose quello del Sole 301 ). E quanto a Sicione, poiché fu dall’ altra città col nome di Mecone preceduta 302 ), e fu edificata sopra una collina sacra a Cerere, di questa sua metropoli congetturar si possono i fondatori , perchè siccome fu detta Telchina 303 ), tal nome appalesa nella città pri- mitiva una delle più antiche città dell'Ellade edificata da’Telchini di Creta , i celebri figli del mare 304 ) , fonditori di metalli , cioè i Fenicii, come comunemente si è creduto da dotti mitologi, i quali co ’Cureti e i Carpasii si trovano nominati nelle più antiche me- morie elleniche, perchè con gli ultimi di questi popoli , abitatori dell’isola di Carpato 305 ) tra quelle di Creta e di Rodi , dicevansi vinti da Foroneo, e quindi passati nell’ultima di queste isole 306 ). 298) Draco Corcyr. ap. Athen. XV , 19, p. 692. 299) Paus. II , 6, 2. — Ciò si vedo anche dalla genealogia di Epopeo , nato da Al- ceo, figlio del Sole (Paus. II, 1, 1). E veg- gasi il mito di Lieo in Apollodoro (111 , 10 , 1 ). 300) Paus. II, li, 1. 301) Suet. Aug. 29. — Horat. Ep. I, 3, 17.— Suet. Ner. 31.— ld. Vesp . 18. — Plin. H. N . XXXI V, 6. — Martial. in Spect. Ep. II. cf. I, ep. LXX1. 302) Strab. Vili, p. 382.— Paus. II, 6, 5. 303) Schol. Hes. Theog. 536.— Steph. Byz. V. Xotvwr. 304) Zeno ap. Diod. Sic. V, 55. 305) Diod. Sic. V, 74. 306 Oros. Hist. I, 7. Digitized by Anoog le - 87 — E benché sia difficile affermare se Mecone propriamente, o Sicione, si nominò Telchina , perchè Plinio scriveva che Sicione fu per lunga stagione patria delle officine di tutti i metalli 307 ), egli sem- bra nondimeno che la prima origine dovè a'Cretesi, perchè Esiodo narra che dopo che Prometeo credette d'ingannar Giove coll’offrir- gli in vece di bianca pinguedine ossa di questa ricoperte, Vulcano di terra vi effigiò Pandora, e sul capo le impose un’aurea corona, opera delle stesse sue mani, la quale avendo molte cose ad arte cesellate , per gran vaghezza risplendeva 30S ) ; e così il culto di Zeus di Creta, e l’arte di fondere i metalli colla nuova fondazione a Sicione furono trasferiti ; e se le memorie di questa città sono tutte favolose sino all’occupazione degli Eraclidi , sembra storica la già detta. Siccome non d’ una sola città , ma di tutte quelle dell’ Acaja fu detto fondatore Tisameno, delle XII città che vi furono comprese ricordar dovrei i fondatori rispettivi; ma favolosi, o veri, non sono dalla storia ricordati ; e solo può dirsi in generale che la prima origine ebbero dagli Ionii, i quali sparsi in villaggi vi abitavano, e poi fondate furono dagli Achei Ftioti, cioè Tessali. Tali città fu- rono Pellene, Egira, Ege, Bara, Elice , Egio, Ripe, Patre, Fan, Olene, Dime e Tritea 309 ) , e da quel che ne dicono gli antichi si vede qual ne fu il culto, e quale l’origine verosimile. Apollonio Ro- dio dice che Pelle ne fu il fondatore, avolo di Asterio e di Amflo- ne, figli d’Iperasio S1 °). Or siccome Pelle fu immaginato dal nome di Pellene, così Iperasio, Asterio e Amflone non furono del pari supposti che dagli epiteti solari omonimi , e si dirà perciò che a Pellene si adorò il Sole. E poiché Egira fu prima detta Iperesia m J, ed Eustazio dice che tal nome ebbe da Iperete , figlio di Licao- ne S12 ), al culto solare arcadico si accenna con tale origine mitica. 307) Plin. H. N. X&XVI, 4. 301) Hesiod. Theog. 564-585. 309) Herod. 1,145.— Polyb. 11,41,8 — Strab. Vili, p. 385.— Paus. VII, 6, 2.— Tra le XII città Polibio nomina Leonsio e Cerinict , tacendo di Ripe e à i Ege; q Pausania, sen- za nominare Patre, ricorda invece Ce- rinia. 310) Apollon. Rh. I, 177 sgg. 311) Homer. il. 573; o, 254.-Paus. VII, 26, 2. 312) Eustath. ad II II, 573. Digitized by Ajoogie — 88 - Il racconto di Pausania per ispiegare il nome posteriore di Egira, cioè che fu così detta da che gl'Iperensi Ionii, assaliti da’Sicionii, alle corna delle loro capre attaccarono faci , e così si liberarono da’nemici, i quali credettero che gli Egiroti avessero socii ausilia- ri, e andarono via, dimostra che gli Ionii ne furono di fatto i pri- mi fondatori, e che il nome le imposero da’ caprai e dalle capre che colà pascolavano. Non meno chiaramente la città di Ege nella Mirinea dell'EoIide della Tessaglia 318 ) fa supporre che di là si par- arono i Tessali, che fondarono Ege nell’Acaja , come dalla città di Mirina, nella stessa Eolide , si partirono i fondatori di Miri- no, 814 ) , o Sebastopoli nella odierna Crimea. Ignota è l’origine di Bura , ma ebbe certamente il nome da' pascoli, e importa notare che fu metropoli di una ignota città d’Italia detta Burea 815 ), che io credo nondimeno la stessa che Ebani , perchè la stessa Bura si nominò anche Ebora 816 ), e fu fondata da’ Burei che coi Siba- riti e i Trezenii vennero a fondar Posidonia 817 ). Poiché fondatore di Sibari fu il conduttore d’una colonia di Elice 818 ), è chiaro che Eburi , o Burea, ebbe 1’ origine ed il nome da coloni di Bura ad Elice vicina, i quali il nome della loro patria imposero alla Burea in vicinanza di Pesto, come Sibari fu così detta dalla fontana omo- nima presso di Bura 8I9 ). Da coloni usciti da questa città e dalla Sicionia fu anche fondata Golgi nell’isola di Cipro 82 °); e l’origine di Elice attribuita ad un Elico , figlio di Licaone, ed un’ Elica con- sorte di Ione 821 ) , dimostra che, fondata prima dagli Arcadi , fu 313) Steph. Byz. 0. AìyotÀ. — Cf. 0. Mvpitct . — Herod. I, 149. — Strab. XIII, 3, 5.— Plin. H. N. V. 30. 314) Steph. Byz. o. m vpipct. 315) Steph. Byz. v. Bo vp*i*. 316) È cosi detta da Orosio. 317) CoTrezenii dell* Argolide spiegasi la fondazione del celebre tempio di Giu- none Argiea in vicinanza di Pesto , il qua- le esser doveva pel monte di Capaccio , per la ragione semplicissima , come ha osservato il mio ottimo amico sig. Gio- vanni Riccio ( Descris. della Lucania , e del tempio di Giunone Argiva) che colà si adora la Madonna del granato, il cui cul- to ricorda quello della Giunone di Argo, da Policleto figurata appunto con in mano un melogranato, secondo Pausania. 318) Strab. VI, p. 268. 319) Strab. Vili, p. 387. 320) Steph. Byz. o. roAyo*. — Lycophr. Alex . 590. 321) Steph. Byz. ©. e'a***. Digitized by t^oogie - 89 - accresciuta di popolazione dagli Ionii; il che si conferma col nome del padre anche favoloso che attribuivasi ad Elica , cioè Seli- nunte , flgliuol di Nettuno ; perchè il racconto di Pausania su Ione che mosse contro Selinunte re degli Egialii , il quale la guerra evitò col concedergli la propria figlia Elica, così che Ione poi fondò la città di Elice , nominandola col nome della consor- te , e dopo la morte di Selinunte gli successe nel principato 322 ) , non allude che all’ occupazione dell’ Egialo , o dell’ Acaja sulla spiaggia ( crìyiOLkQQ ) per parte degli Ionii. Il supposto padre di Elica non fu che il fiume Selinunte, che scorreva nell'agro di Egio, e che ora nomasi Botzitza ; in guisa che da que’di Egio si di- rebbe veramente fondata la città di Elice , se un’altra Elice stata non fosse nella Tessaglia 82S ), dalla quale ripeter se ne dee l’ori- gine vera, sì per la ripetizione di tal nome geografico nell’Acaja, sì perchè il favoloso Xuto dicevasi' dalla Tessaglia scacciato dai fratelli, e passato neli’Egialo, dove ebbe i figli Acheo e Ione, con che accennavasi agli Achei, o a’popoli della marina, ed agli Ionii della Tessaglia originarii , come Xuto alludeva agli Xatidi, cioè adoratori del biondo (^oVTog) Apollo. E siccome ad Egio dicevasi Zeus nudrito dalla capra 824 ), la favolosa denominazione è da ripe- tere veramente dalle capre che vi pascolavano gli abitatori de'sette villaggi, da cui in origine fu composta , i quali poi si raccolsero nella città che divenne celebre tra le altre di quella regione. Stra- bone dice che tale città fu un tempo nel regno di Agamenno- ne 825 ); ma non potendosi supporre che sin nel l’Acaja si stendesse il dominio di Micene, la tradizione si spiega da che Tisameno, il preteso conduttore degli Argivi nell’ Acaja , combattuto ed ucciso dagli Eraclidi, dicevàsi figlio di Oreste 826 ), figlio di Agamennone. Se Tisameno si spiega, come ho detto, per 1’ uomo della vendet- ta m ), così che è lo stesso Oreste , che uccide la madre , perchè il Sole fa scomparire la Luna, e s’intende il regno di un triennio 322) Paus. VII, 1, 3 sg. 383) Hesiod. ap. Strab. Vili, p. 884. 324) Strab. Vili, p. 387. 325) Strab. Vili, p. 378. 386) Apollod. II, 8, 3. — Paus. II, 18, 5. 327) V. nota 237 e seguenti. 12 Digitized by Google — 90 — di Tisameno e di Peritilo, ch’era loro attributo **) , cioè di una stagione dell’anno in tre stagioni diviso 32# ), si comprende ancora Tisameno, figlio di Tersandro, re di Tebe #8 °), e lo stesso Tisan- dro, figlio di Giasone e Medea m ), da riferirsi tutti alla mitologia degli Argivi, o degli Eolii, perchè Tolomeo Efestione attribuì an- che Argo qual figlia a Medea e Giasone m ) , e probabilmente in Tersandro è da intendere il Sole che inaridisce la terra (da 'rlpa’u;, arefacio), come in Tisandro, lo stesso Tisameno, perchè nessuno può credere Giasone e Medea veramente vissuti nel mondo, e sono stati comunemente spiegati pel Sole che sana da’mali dell’inver- no, e per la Luna regina dell’empireo. Niente si ricorda del fondatore, o de’ fondatori di Ripe, patria di Miscello, fondatore di Crotone 333 ), e metropoli di Rubi, o Ruvo, nella Peucezia 334 ); ma il nome più antico di Ripe, città dell’Ar- cadia m ) , mi fa credere che come Iperemia, detta poi Egira, fu fondata dagli Arcadi, i quali prima di passare in Italia si diffu- sero nell’Acaja, e nelle due regioni riprodussero i nomi delle loro metropoli. Di Patre, città insigne, come è detta da Strabone ***), si narra che a fondarla i Lacedomoni aiutarono Patreo, figlio di Preugene, o entrambi, come dice Pausania in due luoghi della sua opera 337 ); e benché sembra non potersi dubitare dell’esistenza di costoro, troppo antica nondimeno si dice l’epoca di tale fondazione, perchè si riporta all’età del favoloso Agide, figlio di Euristeo, ed io credo perciò che la colonia che dicevasi condotta da Patreo, fosse di un tempo posteriore non solo a quello degli Ionii , ma anche a quello degli Eraclidi. Ma Patreo , come tanti altri favolosi fon- datori omonimi a quelli delle città greche , pare bene un nome supposto, e tralasciare non voglio una mia congettura; ed è che. 328) Veli. Pat. I, 1, 4. Post Orcslis inte- ritum, fllii ejusy Pcnthilus et Tisamenus, reg riavere triennio. 329) Nork, Op. cit. v. Orestes. 330) Paus. Ili, 15, 1, IX, 5, 8. 331) Diod. IV, 54. 332) Ptotem. Heph. 2, p. 310. 333) Strab. Vili, p. 386. 334) Strab. Vili, p. 387. 335) Homer. II. 606.' 336) Lib. Vili, p. 387. 337> Paus. IH, 2, 1. VII, 6,2.-Cf. Stepb- Byz. o, ndrpaK Digitized by ^jOoq le — 91 — siccome narravasi che ad Eumelo nativo di Patre si unì Tritto- lemo, il quale vi giunse dall’Attica, e fondò Aroa , così nominan- dola dall’arazione, e poi con Eumelo fondò Amia, alla quale fon- dazione ne seguì una terza, che fu quella di Mesati , così detta per esser posta in mezzo di Ansia e di Aroa 338 >, non è dubbio che quelle furono tre delle sette borgate primitive, i cui abitatori poi si unirono in Patre 33# ), come avvenne di parecchie altre città greche; e che se il nome di Eumelo riferivasi al paese , notabile per ubertà di greggi, o di frutti (evfjirjXog), in Ansia , che vole- vasi suo figlio, non è da vedere che la borgata di tal nome, così detta ùa\Y Ansia della Trezenia, che fu anche metropoli Ae\Y An- sia, o Ansio dell’Italia, la cui origine riportavasi ad Ansia, figlio di Ulisse 84# ), per una delle colonie Ulissee venuta nelle vicinanze del Lazio e della Campania S41 ), diversa da quella che appunto pel nome d ’ A ntia io credo doversi attribuire agli Argivi, ai quali si attribuì ancora la fondazione di Ardea m ). Per le quali spiega- zioni anche Preugene si dirà un attributo simile da riferirsi allo stesso Trittolemo, o airattica coltura, che i costumi del paese rese più civili e più miti, perchè nfpr\vg nel ionico dialetto è lo stesso che rjfptxvg , mitis , e ben si potevano dir Preageni , generati da un Preugene favoloso, tutti gli abitatori inciviliti dagli Attici. Il culto di Cerere nella città di Patre m ) rende molto plausibile tal con- gettura, e siccome gli antenati di Preugene facevansi risalire ad un Amicla ***), non è dubbio che, senza potersi negare la colonia ateniese, ve ne fu un’altra anteriore, che attribuir si deve a'Laconi, ed il nome di Derito, che annoveravasi tra gli antenati di Preugene, non fa dubitarne, perchè chiaramente si riferisce a Derra, o Der- rio della Laconia 845 ), il cui culto di Diana spiega il culto analogo di Diana Lafria a Patre M# ); e Derito fu quindi , anziché nome 338) Paus. VII, 18, 2. 339) Strab. Vili, p. 289 Didot. 340) Xenag. ap. Dionys. Hai. I, 71. 341) Strabr. V, p. 232, 245. 342) Plin. H. N. Ili, 9, 5. Ardea a Danae Pevsei maire condita.— Ct. Solin. II, p. 12 od. Salmas.— Martian. Cap. VI, 6. 343) Paus. VII, 21, 11. 344) Paus. VII, 18, 5. 345) Steph. Byz. o.Asppa.— Paus. III, 20,7. 346) Paus. VII, 18, 8. / Digitized by ^jOoq Le - 92 - d'uomo, un altro nome delle sette borgate anzidette. De’nomi degli altri Areo si riferiva probabilmente al culto di Afrodite Area , cioè battagliera , o armata , che adoravasi a Sparta w ) , come Ampico ad Ampico, figlio di Pelia della Tessaglia, ed Arpalo ad Arpaleo, figlio di Licaone, perchè i Pelasgi e gli Arcadi furono i primi fondatori delle borgate più o meno considerevoli dell’Aca- ja 348 ) prima dello stabilimento degli Ionii, co'quali poi divennero città popolose, e più celebri. Se i nomi delle borgate o delle città di Ripe e d ’lperesia non fanno per gli Arcadi dubitare della tra- dizione serbataci da Eustazio, l’altra col nome di Argira la con- ferma pe’Pelasgi, perchè ricorda la città di Argura della Tessa- glia, detta anche Argissa ed Argo Pelasgico **•), il cui nome, come nell’Acaja, ripetevasi nelPEpiro, nell’ Acarnania, e nell’Italia *“), oltre di più lontane regioni * 51 ) , in cui diffondevansi i Pelasgi Tessali. Senza spiegazione rimangono Boline ed Arbo S52 ), le quali con Derito compiono il numero delle sette borgate di Patre; ma basta il già detto per sapersi i diversi popoli che sopravvennero nelle vicinanze di quella città, cioè Arcadi, Pelasgi , Attici e La- coni, gli ultimi de’quali emigrarono probabilmente da Amicle, per l’Amicla favoloso che annoveravasi tra gli antenati di Preugene; e forse anche gli Egineti , perchè anche un Egina contavasi tra scotoro; così che se questi ultimi furono pure tra'popoli che uni- ronsi a Patre , fu per l’affinità ch'essi ebbero co’Pelasgi, o i Tes- sali , perchè Egina fu fondata da’ Mirmidoni Ftioti della Tessa- glia 353 ). E perciò che Fare riguarda, Pausania fu incerto se fon- 34?) Paus. Ili, 17, 5. 348) Eustath. ad DiODys. Pericg. v. 437. 349) Strab. IX, p. 440— Homer. II. 0', 681. 350) Non sembrano dubbie da’solinomi le origini argive di Argo Orestico e degli Argirini nell’ Epiro (Strab. VII , p. 327. Tim. ap. Steph. Byz. o. Apyipi* oi), di Argo Amfllochico nell' Acarnania (Thucyd. II, 68. Strab. X, p. 451), di Argo Ippio , oAr- g trippa, nella Daunia (Strab. VI, p. 284), e del porto Argoo nell'isola Stalla (Strab. V, p. 224), o di Elba, che fu Porto Ferrajo di oggidì. Di Falisca ancora , o Falerio nell’ Etruria Plinio (H. N. Ili, 8, 2) dice: Falisca Argis orta; e Stefano: i roXts IroXi'af, aifiKOf A’pyiow. 351) Steph. Byz. orA'pro*. 352) Paus. VII, 18, 7. 353) Steph. Byz. v. Mvpfjuàofl*. Cf. Eustath. ad II. a, 180. Digitized by ^jOoq le - 93 — datore ne fosse stato quel Fare che nacque dalla Filodamia di Danao , o da qualche altro di tal nome 8M ) ; ma egli ne avea la metropoli non dubbia nella città omonima della Laconia , e non vi pensò affatto , nella falsa supposizione di tutti gli antichi , i quali i nomi delle città riportavano a favolosi fondatori omonimi, anziché alle metropoli dello stesso nome. Alla medesima colonia dunque che fondò Patre, attribuir si dee l’origine di Fare. E senza udire il logografo Istro , il quale alla città di Oleno attribuì per fondatore Oleno, fìgliuol di Anaxitea , una delle Danaidi S55 ), seb- bene la tradizione favolosa riferivasi alle colonie egizie nell’Argo- lide, di cui Istro scriveva, e l 'Anaxitea, come le altre sorelle, al culto d’Iside, l’origine di Oleno è chiaramente spiegata da ciò che lo stesso Pausania riferisce, cioè che i Patrensi, i soli di tutti gli Achei passarono nell’ Etolia per soccorrere gli Etoli nella guerra ch’eb- bero contro i Galati. Non potevano i soli Patrensi andarvi per la sola amicizia (xa/tà (piX/av), come dice Pausania 35 °), ma fu per l’ori- gine comune e per l’ affinità, dimostrata dal fatto dell'altra città di Oleno , che fu nell’Etolia 357 ) , la quale perciò in parte si dirà metropoli non solo della Oleno , ma anche di Patre. Rimangono Dime e Tritea , e dell’ una Strabone dice che prima si nominò Strato , e poi Dime, per esser l’ultima delle città achee all’occi- dente, e che detta fu Cauconide da Antimaco, per cagione de'Caw- coni, che sino ad essa si estesero, o dal fiume Caucone m ), che scorreva tra Dime e Tritea * 39 ), il che è lo stesso, perchè da quei popoli il fiume fu denominato. I magnanimi Cauconi, come detti sono da Omero 39 °), vaganti come i Pelasgi, furono Arcadi, e da ciò che Strabone altrove dice degli Epei colla testimonianza di Ecateo conosciamo che a costoro fu soggetta 361 ) , ed essi proba- bilmente la fondarono. Pausania affermar non seppe se si nominò Dime da una donna indigena di tal nome, o se da un Dimante, flgliuol di Egimio; e da ciò che soggiunge, che si nominò prima 354) Paus. VII, 22, 5.— Cf. IV, 30, 2. 355) lster ap. step. Byz. o. n'xirot. 356) Paus. VII, 18, 6. 357) steph. Byz. o. n'woc. 358) Strab. Vili, p. 338. 359) Strab. Vili, p. 342. 360) Odyss. fi’, 366. 361) Strab. Vili, p. 341. Digitized by ^jOoq Le Palea, e che nel sobborgo vedevasi il sepolcro di Sostrato , amato da Ercole , sul cui tumulo era posto un cippo colPimmgine del- l'eroe, e che la gente del paese facevagli cerimonie funebri M2 ) , si può bene congetturare che furono gli Eraclidi quelli che Dime nominarono la città nuova dalla loro tribù così detta m ) , rima- nendo il nome di Palea alla città vecchia abitata dagli Ionii. Per- chè la città si nominò anche Strato , si comprende chi fu il fon- datore favoloso Sostrato amato da Ercole, un uomo cioè supposto, come sempre, dal nome della città istessa, denominata probabil- mente dallo stuolo, o dall’esercito ( ), anche perchè Ochimo era detto figlio del Sole da Ellanico e da Diodoro (V.56), come gli altri supposti suoi fratelli , e come il preteso genero , altro nome del grande astro, cosi detto dagli ardenti suoi raggi (Kip*a$jc per *•-**$©*, da «oir*, ardere ), non essendo la madre e la figlia che due attributi , o cognomi lunari si- mili, l’uno significante lo stesso eh e E- gemone ì secondoPausania, o condottiero* e l’altro la cavalla gloriosa negli spazi! celesti. 414) Apollod. Ili, 2, 1 sg. — Diod. Sio- V, 5& Digitized by ^jOoq le ! — 109 — flzii simili nel mito degli Atridi 41S ) ; così che anche Aitamene si dirà un attributo, o cognome dello stesso nume che adoravasi sul- V A tabi rio ; perchè non solo da aXXoj&a./, salio , provenne aXTO per rjXa'TO, exiliit , e quindi AXSr/fXSVSs, chi sta sulla salita, o sulla vetta, ma anche un Alte , re de’Lelegi, si ricorda , padre di Licaone nella Troade 416 ) , nè altro probabilmente che lo stesso Ljcaone, il cielo cioè, o il Sole luminoso , il quale colla sua luce ed il suo calore medica e sana i mali de’ mortali dopo l’inverno, o i beni ne accresce , pel chiaro significato di Althes da aX0ùu , medeor , ed augeo. La mitologia degli Arcadi colle loro colonie passò nell’Asia minore, come a Creta ed a Rodi; e le vittime umane che offrivansi a Giove Liceo in Arcadia 417 ) , spiegano gli umani sacriflzii delle due isole. Altrimenti non può pensarsi di Pileme- ne t , che Omero dice re de’Paflagoni 418 ), e che come padre di An- ti/o 419 ), del l’avversario della luce (dLv r n-$&s), col nome simile di Pilade, figlio di Strofìo, si è spiegato pel nume che sta alla porta ('JTuXrj) dell’anno, o il Sole, con cui l’anno incomincia, e in cui ritorna ne’solstizii 42 °). Se Antifo con Fidippo dicevasi figlio di Tes- salo, un re Eraclide 421 ), e dalle isole dell’Egeo si faceva condur- gli una flotta di 30 navi contro Troja , fu perchè su tutte quelle isole si erano diffusi gli Arcadi , i Pelasgi e i Tessali ; e siccome Antifo fu il nume, o il tempo di una parte dell’anno che combatte la luce del Sole (ctVTt-(pu)£), si rifletta se Fidippo è, o il nume, o il tempo di un’altra parte diversa dell’anno stesso , cioè il nume della luce, che colla sua lira ( fldes , da crcp/o 7] 422 ) rappresentò l’ar- monia ristabilita nella natura dopo l’inverno, come Leucippo , il cavallo luminoso, nel nome di Fidippo immaginato colla cetra ed il cavallo , o se fu anzi Nettuno , anche col cavallo ideato , e dal 415) V. Nork, y. Aireus. 416) Homer. II. 4>, 86. cf. x> 45. M. 417) A fciò accenna il racconto che Li- caone fu trasformato in lupo come egli a Giove sacrificò un fanciullo (Paus. Vili, 2, 1. Schol. Pind. ad 01 VII, 153.— Ovid- Mei. I, 237.— Cf. Suchier, De cictimis Au- manis . Hanau 1848, p. 15 sgg. 418) Homer II. 851. 419) Homer. II. fi'. 864. 420) Nork, e. Pylemknes. 421) Homer. H. 678 sgg. 422) Hesych. s. c. Digitized by ^jOoq le - 110 - / quale poi si passò probabilmente al suo cavallo Arione 48 *), come da questo al favoloso poeta dello stesso nome 424 ), il quale aveva dell’uno e dell’altro, cioè la lira del primo, ed il cavallo comune ad entrambi , ma che pel^ supposto poeta è il delfino , sul quale dicevasi salvato dalle onde. I nomi allegorici furon poi creduti per- sone storiche; e l’esempio di Leucippo dà ragione di questo fatto; perchè, se dicevasi fondatore della città di Magnesia nell'Asia minore 42S ), per la ragione che co’ Magneti di Creta vi era giunto tì *), era detto anche Tessalo, e fondatore presso di Efeso della città di Cretineo 427 ) , perciò appunto che la colonia da Creta si era par- tita. Ma s’egli si era mosso primamente dalla Tessaglia, è da ri- flettere che questa regione fu tanto occupata dalle colonie pelasgi- che, che per lunga stagione ritenne il nome di Pelasgiotide, una parte della quale, la Perrebia, fu detta Magnesia nella spiaggia, perchè colonizzata da’Magneti delle montagne, e dalla quale pro- babilmente si partirono i Pelasgi Tessali che fondarono Spina e Ravenna , e poi Tarquinia ed Agilla nell’ Etruria 4 ®) > , Amena nell’Umbria, che ricorda la città di Amira della Tessaglia 429 )come 423) Apollod. Ili, 6, 8.— Paus. Vili, 25, 4. 424) Herod. I, 23 sg. 425) Schol. Apollon. I, 584. 426) Una colonia di Magneti della Tes- saglia, che dal Peneo si estendevano sino al Pelio (Strab. X , 483) , passò nell’isola di Creta (Varrò ap. Prob. ad Virg. Eclog. VI, 45. Conon. Narr. 29), e di là espulsi , andarono co’ Cretesi a fondar Magnesia sul Meandro (Strab. XIV, 636. Plin. H. N . V, 29. Parthen. Eroi. 4). 427) Parthen. Erot. 5. 428) Dionys. Hai. I, Strab. V, p. 214. xai r\ Vaovtvra. 5* 0i rraXwr ttprjrat xriapux. — lustin. XX, 1 , 11: Sed et Pysae in Liguri- bus Graecos auctores habent: et in Thuscis Tarquinii a Tessalis, et Spina, in Umbris, Stefano Bizantino, che ricorda Tarquinia co’nomi di t xpKwla e di T«px^ ,f0f ’ , la dice fondata da Tarcone , figlio di Telefo (v. t oLpxwiop), perchè Telefo dicevasi nato in Arcadia (Paus. Vili, 48, 7), regione già occupata da’ Pelasgi. E per ciò che ri- guarda Agilla, o Cere, Strabone (V, p. 220) scriveva: ■'AyvAÀat.... ktytrou II «Aaffywp %rÌ9ftx r*)9 tx 0irr«x/« e a p. 226 : rovrcv S'tirt rov Qì/kov ( navicai o« rw otcryvr ) "A yvAXav xar«r;c»)xortf. 429) Steph. Byz. o. A'pvpot. Schol. Apol- lon. I, 596. Cf. Forbiger, Handb, der Alten Geogr . Leipz.„ 1848, t. Ili, p. 886). Dal che si vede qual conto è da fare della noti- zia di Festo, il quale scriveva (p. 21 ed. Mùller): Ameria urbs in Umbria, ab Ami- ro sic appellata . Digitized by {jOOQIC — Ili — quelli che portarono il culto solare a Roma , perchè Giano dice- si fuggito dalla Perrebia 4S0 ), e con altre numerose colonie anche quelle de’Magneti nell’isola di Creta e sul Meandro. Ma i Pelasgi erano anche passati nell’Arcadia, e basta riflettere che Leucippo dicevasi fratello di Licaone , preteso re di Arcadia, per compren- dere che alla mitologia degli Arcadi, o de’Pelasgi, è da attribuire lo stesso Leucippo, fondatore favoloso e storico di molte colonie; fondatore favoloso , se vi si vuol vedervi una persona storica, e fondatore storico, se più ragionevolmente vi si vede un nume delle stesse colonie. Questo Leucippo dicevasi figlio di Euripilo e di Sterope, figlia del Sole, e sorella di Pasife 4S1 ). La genealogia si- mile di Coronide, o Arsinoe, figlia di Leucippo, nato di Amicla, e madre di Asclepio , figlio di Apollo m ) , fa pensare che si tratta di uno stesso Leucippo della Tessaglia, o dell’Arcadia, perchè la Laconia, a cui la città di Amicla appartenne, fu conquistata dagli Eraclidi, i quali se stabilironsi a Sparta, donde in altre città spe- dirono come una specie di re feudali a loro soggetti , la città di Amicle col suo territorio concessero a titolo di sovranità indipen- dente a chi loro avea dato in balia il proprio paese 433 ). Dicasi lo stesso di Leucippo , padre di Calchinia , e supposto re di Sicio- ne m ), come di Leucippo, padre di Arsinoe, Ilaria e Febe, e prin- cipe *di Messene 4SS ), perchè Erodoto i Sicionii annoverò tra i po- poli Dorii che si formarono dopo il ritorno degli Eraclidi m ) , ed Eforo non diceva la Messenia senza guerra da costoro sottomes- sa? 487 ). Basta ripetere Leucippo qual fratello di Licaone per rife- rire a chi conviensi tal personaggio allegorico e favoloso, al Sole cioè de’Pelasgi, degli Arcadi e de’Tessali, ai quali l’ha negato un dotto scrittore recente per attribuirlo in vece agli Ariani m ), contro la meno dubbia opinione di 0. Muller, il quale con altri molti dopo 430) Drac. Corcyr. ap. Athen. XV , p. 692. — Plut. Quaest. Rom. 22. — Serv. ad jEn . Vili, 357. 431) Acesandr. ap. Schol. Pind. Pyth . IV, §57. 432) Aristid. ap. Schol. Pind. Pyth . IV, 14. 433) Ephor. ap. Strab. Vili, p. 364. 434) Paus. II, 2, 5. 435) Paus. IV, 2, 3; 31, 9.— Cf. Ili, 26, 3. 436) Herod. Vili, 43. 437) Ephor. ap. Strab. Vili, p. 461. 438) Maury, Rei . de la Grèce . Digitized by ^jOoq le - 112 — di lui dottamente sosteneva il culto di Apollo come proprio de'Do- rii della Tessaglia 439 ). Apollo, o il Sole, fu adorato da que’popoli col nome di Leucippo, come Zeus, o il Cielo luminoso, con quello di Licaone, e la Luna co’nomi di Pasife, Arsinoe, Ilaira e Febe ; e sfido chiunque a dimostrarmi che diversi siano Leucippo re di Nasso 44 °), Leucippo conduttore di una colonia da Lesbo a Rodi 441 ), e Io stesso fondatore di Metaponto 442 ). Con poetica espressione gli antichi popoli prima de’poeti dicevano re il Sole, perchè astrorum obtinet principatum 44S ), e non è detto re del mondo da un poeta moderno? 444 ). Il nome simile di Leucippe mentre spiega Leucippo, da questo è anche spiegato,' talché rischiarandosi a vicenda, non lasciano alcun dubbio sul significato allegorico dell’uno e dell’al- tra. Se il cavallo fu simbolo di Nettuno , dell’ acqua e del vento, fu anche simbolo del fuoco e del Sole, come tale spiega Ippalci- mo, Ippaso, Ippeo, Ippocoonte, Ippodeto, Ippoloco, Ipponoo, Ip- poteo , Ippotoo , e Ippozito ; e Leucippo e Melanippo , il cavallo bianco e luminoso, ed il cavallo nero o tenebroso, fu detto il Sole nelle due metà dell’anno, o del giorno e della notte, o di due op- posti emisferi, e da Leucippo si disse anche Leucippe, figlia del- l’Oceano 44S ), cioè la Luna che sorge dal mare, Leucippe consorte di Laomedonte ***) , altro nome allegorico dell’ Hades M7 ) , o del nume delle ombre, e non è il Sole quel Leucippo, al quale i Dio- 439) O. Mùllei*, Die Dorier. 440) Diod. Sic. V, 51. 441) Diod. Sic. V, 81. 442) Strab. VI , p. 365. — R. Rochette , Hist . des Col. gr. t. IV, p. 40. 443) Cic. De N. D. II, 21. 444) Hermes, roi des beaux arts, le so- leil, roi du monde, Qui pleure en larmes d'or, sur le sol qui feconde. Alex. Sou- met, La Divine Epopèe t. I, p. 11. 445) Hesiod. Theog . 446) Apollod. Ili, 12, 3.— Schol. Homer. IL y, 250.— Tzetz. ad Lycophr. 18. 447) Homer. II. XX, 235 sgg.-Cf.Uschold, Gesch. des Trojanisches Krieges... La spie- gazione credo ancora, oltre di altre ra- gioni, confermata da’nomi de’flgli Titono , Lampo , Clitio e Priamo , che riferisconsi al Sole, e da quelli delle figlie, Esione , Teanira, Cilla, Astiche (Apollod. Ili, 12, 2), E tilla, Medesicaste, e Proclia(Tzeiz. ad Lyc. 232), che s'interpetrano per quelli del- la Luna, per la ragione che i due astri sorgono dal regno delle ombre , in cui domina l’Hades, o Plutone. Digitized by ^jOoq le — 113 - scuri rapirono le figlie ? ***). Siccome Leucippo , il cavallo bianco, o da’bianchi cavalli, o il cavallo luminoso, non fu che Febo che adduce il di sul carro d'oro , per servirmi di un verso di Boezio 449 ), così la Leacippe e la Me- nalippe non furono che la Luna, La quale , or piena il suo argenteo disco Rincontro al Sol che la rischiara, asconde Gli astri minori , or più vicina ad esso Impallidisce ed assottiglia il raggio, come dice lo stesso poeta e filosofo 45 °). Nella base che sosteneva il trono della statua di Giove in Olimpia vedevasi il Sole sul coc- chio , e la Luna che guidava un cavallo 4S1 ). Porfirio scrive che alla Luna davansi i nomi di toro , di leonessa , di cane e di ca- vallo, e eh’ ella piacevasi di essere invocata con questi nomi 452 >. Perchè il Sole irradia il toro 45s ) ed il leone , quando è ne’ segni così detti, que’nomi, o cognomi, furono anche applicati alla Luna da quelli del Sole negli stessi segni. Nella stella Sothis , cioè Si- rio, o la Canicola , gli Egizii mettevano Osiride , o il Sole 454 ) ; e VOctober Equus che immolavasi a Roma ‘“J, non accenna che al Sole cavallo, ma cavallo nero dell’autunno, quando il calore e la luce del Sole incominciano a venir meno; e per non riferire molti altri esempi di tal sacrifizio , basta ricordare che al Sole sacrifì- cavansi cavalli sul Taigete nella Laconia 4M ), una regione già oc- cupata da’Lelegi dell’Egitto tó7 ) e da’ Pelasgi , e per l’origine del culto e del sacrifizio giova anche notare che nel tempio di Cerere Eleusinià al di sotto di quel monte vedevasi un’antica immagine 448) Ovid. Fast. V, 700.— Hygin. fab. 80. 449) De Consol. philosophiae. 450) Boet. ibid . 451) Paus. V, 11, 8. 452) Porphyr. De abst III, 17. IV, 16. 453) Bacid. ap. Paus. IX, 18, 5. 454) Plut. De Is. et Osir. 61. 455) Fest. s. v. 456) Paus. Ili, 20, 4. 457) Paus. IV, 1, 11. Cf. I, 39, 6. 15 Digitized by Google - 114 - di legno di Orfeo, che dicevasi opera de’Pelasgi ***), talché se Or- feo non fu altro che il Sole **), conosciamo da quale lontana re- gione è da ripetere probabilmente quel culto antichissimo , come la detta usanza simile de’ Romani , introdotta da’ Pelasgi Tessali. Se al Sole ancora fu sacro il gallo , perchè il sorgere ne annun- zia, come dice Pausania, giova pur riflettere che nel monumento degli eroi sulPAlti in Olimpia il gallo si vedeva figurato sullo scudo d’Idomeneo, come quegli che dicevasi oriundo da Pasife, figlia del Sole 40 °); e che ad Ermete, il quale a’Greci riconduceva la prima- vera, e dicevasi xptCKpópos , 401 ) > apportatore dell ’ ariete della pri- mavera, e detto era A nubi ed Ermanubi dagli Egizi i , sacrifica- vasi un gallo, ora bianco , ed ora croceo, o nericcio , per accen- nare a’celesti movimenti, dice Plutarco , ora superiori , ed ora di sotto m ), cioè de'due opposti emisferi, e che dal Sole, e dalla sua mancanza sono prodotti. A ben riflettervi, quasi tutti gli epiteti o attributi solari furono alla Luna applicati ; così che se oltre di Leucippe e Melanippe ella fu detta Ippolite e Lisippe , come Ip- podamia , Ippomedusa e Ipponoe , fu perchè il Sole dicevasi Ip- polito , Ippodamante , Ippomedonte ed Ipponoo. Dicasi lo stesso di tutti gli altri nomi comuni a’due pianeti, in cui entrano in com- posizione le voci ì'K'KOQ, e tV'TJ'yj; e può esser altra la dea Ippia, ossia Equestre, adorata da’ Mantirensi di Arcadia , e col nome di Alea da’Tegeati? Era ella rappresentata tra Esculapio ed Igia m ), numi che ne dimostrano la relazione col Sole, perchè se Igia di- cevasi figlia di Esculapio, questo volevasi figlio del Sole e di Ar- 458) Paus. Ili, 20, 5. 459) G. H. Bode, Quaest. de antiquiss. carminum orpkieor . aetate , patria atq. indole. Gottingae 1838 , p. 100, nota 88).— T Cf. F. Creuzer , Dionysus , sioe de rerum bacchicar. orphicarumque originibus et * causis. Heidelb. 1809. — F. Nork, Etym. symb. mythol . R. Wòrterbuch . Stuttg. 1845, v Orpheus. 460) Paus. V, 25, 10. 461) Paus. IV, 33, 4. IX, 22, 1.— Dall’es- sere Ermete apportatore dell'ariete della primavera si disse poi nume de' greggi e de’pastori (Aristoph. Thesm. 977. Simo- nid. ap. Eustath. ad Homer. p. 1766,2. Paus. Vili, 16, 1. IX, 34, 2. Cf. Homer. Il XIX, 490 sg. 462) Plut. De Is.et Osir. 61. 463) Paus. Vili, 47, 1. Digitized by i^oogie — 115 - sinoe, figlia di Leucippo 4M ), cioè di altri attributi simili, messi in relazione di padri e di figli; in guisa che la dea Alea ricorda l’A- leo, re di Arcadia, flgliuol di Afidante, nipote d’ Arcade , il quale dicevasi sposato con Neera , figliuola di Pereo , che di femmine \ gli dava Auge e Calcidice , e di maschi Cefeo , Licurgo e Amfì- damante. Narra vasi che Auge , violata da Ercole, nascose il figlio nel bosco di Pallade, di cui ella fu sacerdotessa: ma venuta gran carestia nel paese, perchè la terra si rese sterile, gli oracoli con- sultati risposero celarsi un'empietà in quel bosco; sicché ben vi- sitato, e scopertavi dal padre Auge , la consegnò a Nauplio, onde la facesse morire. Nauplio la diede a Teutrante, signore de’Misii, il quale anche violò la donzella, e sul monte Partenio fece esporre il bambino che ne nacque, ch’ebbe il nome di Telefo , perchè una cerva l’allattò; ed allevato da’pastori di Corito, andò a cercar trac- cia de’genitori da Apollo Delfico , e per V oracolo accennatogli di andarne nella Misia, vi fu da Teutrante adottato, e dopo la morte di costui rimase erede del regno 465 ). Di Aleo , re di Arcadia , e propriamente di Tegea, parla anche Pausania colla testimonianza di Ecateo, attribuendogli per figlio anche un Alcidamante; e nar- rate le stesse avventure dell'Anpe, dice di aver veduta la casa, o la reggia di Aleo a Tegea m ). Diodoro un'altra figlia ancora attri- buì ad Aleo, per nome Alcidice , la quale poi sposata da Salmo- neo, figlio di Eolo, fu madre della bella Tiro 467 ). Ma per la piena intelligenza del racconto , un altro ancora non dobbiamo trasan- ' darne, ed è quello della vittoria de’Tegeati su'Lacedemoni, i quali mossero per assoggettarli. Ricordano quella guerra Erodoto, Pau- sania e Polieno; ed il primo dice che, rimasti i Lacedemoni infe- riori nella mischia , quanti ne fur presi vivi furono ligati colle stesse ritorte che avevano seco portate per menar schiavi i Te- geati, e che vedevansi appese nel tempio di Minerva Alea; il se- condo, che una vedova per nome Marpessa fece prodigi di valore .tra le altre donne ch'ebbero parte alla battaglia, e che una statua 464) Paus. II, 2, 6. 466) Paus. Vili, 4, 8 sg. ib. 55, 10. 465) Apollod. Ili, 9, 1. 467) Diod. Sic. IV, 68, 1. Digitized by Google — 116 — le fu innalzata col nome di Marte Ginecotea ; ed il terzo , che il re di Arcadia Ateo coll’aver fatto accenderé un gran fuoco innanzi della città, ottenne la vittoria su’nemici, perchè rivoltisi i Lacede- moni a guardare il fuoco per la meraviglia , furono sorpresi dai giovini Tegeati, i quali assaissimi ne uccisero , e molti ne fecero prigioni 468 ). Nel tempio della dea , dice Pausania , erano appese le catene degli schiavi fatti da’Tegeati e ridotti a coltivar loro i cam- pi, e colla pelle del Cignale Calidonio guasta dal tempo e spelata delle setole anche P armatura di Marpessa m ). Pausania anche riferisce che Augusto, vinti gli Arcadi che seguito aveano le parti di Antonio , lasciata la pelle del cignale , i denti ne trasportò a Roma coll’immagine di avorio della Minerva Alea , opera di En- deo. Tale immagine fu consecrata nell’adito del Foro da Augusto edificato, e de’denti del cignale l’uno andato in tritoli mostravasi dagli antiquarii, e l’altro, lungo un mezzo braccio , era dentro il tempio di Bacco dedicato negli Orti cesariani 47 °). Se delle spoglie del cignale possiamo con Ellanico renderci ragione, perchè scri- veva che Cefeo, nipote di Aleo, come figlio di Licurgo, ebbe parte alla caccia di quella fiera 471 ), nulla non intendiamo ancora della relazione che aver poteva con Minerva, e Pallade Alea; e per in- tendere col nome di Alea anche l’allusione de’ racconti, donde partir dobbiamo, dal significato di Alea, o da quello di A/eo?Se con Creuzer e Nork procediamo dal primo, non si comprende come a Minerva o Pallade si attribuisse l’epiteto di ’AXex, cioè riscal- dante , e se col più recente de’ dotti annotatori di Erodoto la dea intendiamo come colei che promuove la luce e P ordine naturale delle cose 472 ), con tale spiegazione troppo generica la cosa rima- ne indecisa, e rivolger ci dobbiamo piuttosto al significato di A- leo, il quale passò anche a Minerva. Pe’ supposti figli di Elato , fratello di Aleo, Vólcker considera Aleo come un Ermete iti/al- 468) Herod. I, 66.— Paus. Vili, 48,4 Sg.— Poliaen. Strat . I, 8. 469) Paus. Vili, 47, 2. 470) Paus. Vili, 46, 4 sg. 471) Hellan. ap. Schol. Apollon. Rh. I, 769. 472) Creuzer , Symb. II, p. 780. — Nork, v. Alea. Cf. Baehr , ad HerocL 1 , 66 , 1 1 , p. 170. Digitized by ^jOoq le — 117 - lico , ed il nome ne deriva da aXw, nudrire 47S ). Non è dubbio che Cillene , ossia lo stesso Ermete, spiega gli altri suoi fratelli , tutt' uno con esso lui , e soprattutto Pereo , da cplpco, nudrire, e ìtryyg, il forte, perchè kWvròrog da aì'KvQ, alto, si riferisce al monte Cillene, e X'TVfJUpccXog, al lago,al!acui sponda adoravasi Ermete 474 ). Ma Ermete itifallico era il nume che riconduceva la bella stagio- ne, era il Sole della primavera 475 >; e meno allegoricamente Aleo si dirà il Sole , eh' è quello che vivificando la terra , e facendola germogliare, fa nudrire gli uomini e gli animali. Or Tattributo so- . lare passò anche alla Luna; e se a giudizio dello stesso Vòlcker Minerva Alea non fu altra che Igea , la dea della salute 476 ), non avea ella dallo stesso Sole la virtù e le doti di sanare e mantener sani, come lo stesso Esculapio, identico al Sole , di cui dicevasi figlio? Per un’altra etimologia ancora la Luna potè dirsi Alea , cioè da aXaofxat, errare, vagare, perchè va errando per gli spa- zii celesti; e Minerva non fu detta Ippia, o cavaliera, non perchè a detta de’Tegeati addosso ad Encelado ella spinse il cocchio dei cavalli quando gli Dei ebbero a combattere i giganti 477 ), ma per- chè supponevasi che di fatto come il Sole li guidasse per l’empi- reo. Che tali spiegazioni non siano lungi dal vero , si vede dal simbolismo del cignale comune a molti popoli, a cominciare dagli Egizii, e sorprende come Vólcker scrivesse di non saper decidere perchè nel tempio di Minerva Alea si vedessero le spoglie del cignale di Caledonia 478 ). La famosa caccia di quel cignale , figu- rata su tanti antichi monumenti, tra’quali è da ricordare la cassa di Pesto, che ora si vede nell’atrio della Cattedrale di Salerno, è puramente allegorica , e si riferisce al mito solare , derivato da quello di Osiride. Gli Egizii narravano che cacciando Tifone di notte al lume della Luna, trovò e dilacerò il corpo di Osiride, ch’e- gli stesso avea ucciso 479 ), e sotto l’immagine di un cignale era lo 473) Vòlcker, Die Mythol. dea Japet. Ge- schl. Giessen 1824, p. 175. 474) Pe’ cinque figli di Elato vedi Pau- sania Vili, 4, 2. 475) E perciò Ermete era detto *pio< popot, rofuof, iv/LtnXo t e PovxoXof. 476) Vòlcker, Op. cit. p. 174. 477) Paus. Vili, 23, 1. 478) Vòlcker, Op. cit . p. 183, nota (206). 479) Plut. De Is. et Osir . 18. Digitized by Google - 118 — stesso Tifone rappresentato. L’intemperie e l’incostanza dell’aria, gli écclissi della Luna e del Sole gli Egizii consideravano come sor- tite e ritirate, come escursioni di Tifone m ). Alla Luna ed a Bac- co, dice ancora Erodoto, nel medesimo tempo , nello stesso ple- nilunio gli Egizii sacrificano i porci m ); e perchè il cignale rap- presentò P inverno , come si vede da un medaglione di Commo- do 482 ), ciò basta per intendere non solo perchè Adone ed Ati uc- cisi furono da un cignale 483 J, e perchè nella caccia di un cignale il re Pigmalione uccise il fratello Sicheo m ), ma anche la favola greca sulla caccia del cignale di Caledonia derivata in origine dal- l’Egitto. È notabile che prima delle interpretazioni de’moderni, che han dato ragione di questi simili racconti allegorici , Servio già spiegava Pigmalione pel Sole 485 ), nella guisa stessa che dicevasi Apollo trasformato in cignale uccidere Adone 48# ). Plutarco dice che non mancavano di quelli , che la favola di Osiride e Tifone interpretavano per gli ecclissi del Sole e della Luna; e ciò spiega pure il curioso racconto dallo stesso Plutarco riferito , o dall’ i- gnoto autore del trattato de’flumi, intorno il cignale ucciso da Teu- trante re della Misia 487 ), al quale fu mandato Telefo da Nauplio, e di cui si vedrà l’allusione in seguito. Un altro esempio ne som- ministra Erodoto nella leggenda di Adrasto, figlio di Gordio, uc- cisore del fratello, il quale espiato da Creso, ne uccideva il Agl io Ati, nel voler salvare la regione da un cignale di smisurata gran- dezza apparso nelP Olimpo della Misia , e che sè stesso uccideva sulla tomba di Ati 488 ). Tolomeo Efestione scriveva che il fratello 480) Plut. I. c. 49. 481) Herod. II, 47. 482) Vaillant, Musaeum 50. 483) Apollod. Ili, 14, 4. — Bion. Idyll. I, 7.— Hermesian. ap. Paus. VII, 17, 9 sg.— Hermesian. ap. Paus. VII, 17, 9 sg. 484) Cedren. Comp. hist. t. I , p. 246. — Maiala, Chron . VI, p. 163. 485) Serv. ad jEn. I , 646. Et hoc regis (Pygmolionis) nomea ratione non caret ; nam omnes in iliis partibus (Assyriae) So- lem colunti qui ipsorum lingua El dicitur : unde et faos. Ergo addito digammo , et in finefacta derivatane , a Sole regi nomea imposuit. 486) Ptol. Hephest. ap. Phot. p. 146. Nei mitografì di Westermann p. 183. 487) Plut. De Is. et Osir. 44.— Ps. Plut. De /lue. 21. 488) Herod. I, 35-45. Digitized by oosie — 119 - di Adrasto avea nome Agatone, e che fu ucciso mentre era a cac- cia di una quaglia 48# ); Achille Tazio sotto altri nomi ripete il rac- conto nel primo libro del suo romanzo 490 ) ; e quel eh’ è più da notare si è, che le onoranze e i giorni festivi di Adrasto figlio di Talao, re di Sicione, furono da distene attribuiti in vece a Mela- nippo, come narra lo stesso Erodoto , ma senza intendere l’alle- goria; perchè non per odio verso di Adrasto, come egli dice, di- stene fece quella innovazione 491 ), sì bene perchè Adrasto e Me- lanippo furono due nomi allegorici simili, e quel principe non al- tro fece che sostituir l’uno all’altro. Ed era sempre lo stesso mito, che in regioni diverse, ma originato dall’Egitto, si ripeteva con di- versi nomi, i quali se spiegansi l’un Taltro come- allegorici, a vi- cenda si negano come di persone storiche. Or se nell’esposta guisa si spiega la Minerva Alea , rimangono non solo spiegate le altre due figlie di Ateo , cioè Auge e Calci- dice, i cui nomi chiaramente si riferiscono alla Luna risplendente (cLvyri) e forte (a Xxig), così detta forse per gl’ influssi , sotto il qual nome in fatti i Macedoni adoravano Pailade 492 ), tutt’uno colle due dee , ma anche la Marpessa , detta figlia di Alcippe da Eu- stazio m ). Madre di Cleopatra, o di Alcione, è detta Marpessa da Omero m ) : i nomi delle due figlie spiegano quello della madre , la quale come Ecate, dea della morte e de’sepolcri, i mortali ra- pisce (M.oip'!er l *f*.--Sil.lt. Ili, 34. 515) Nork, v. Antàus. Digitized by t^oogie - 123 — un cognome di Ecate 51fl ), e non dicevasi Antea consorte di Preto, la quale per la relazione col nume solare Bellerofonte M7 ), non si dimostra diversa dal pianeta colla faccia al sole rivolta ? Lo stesso che il gigante Anteo è il Libico Anteo, padre di Alcide o Barce in Irasa presso Cirene 518 >, perchè come in molti altri miti il Sole è padre, consorte, fratello e figlio della Luna M9 ), ed i Minii che coi Terei Lacedemoni fondarono Cirene, portarono sulla costa dell’Afri- ca il lor mito nazionale 52 °). Ed è notabile che se fuvvi una Tiche, 516) Ps. Orph. Hymn. 40.— Apollon. Rh. Argon. I, 1141.— Hesych. v. avtclìol. 517) Homer. II. VI , 160. — Apollod. Ili, M* 518) Pind. Pyth. IX, 110 (182) sgg. 519) Qual padre di C irce,Lampetia, Phae - thusa , e Pasiphaé (Homer. Odyss. *, 135; 132. Apollod. 1,9, 1); qual consorte di Antio- pejClytia , Iphinoe,Leucothoe,Neera e Niobe (Theop./r.340.Ovid.MeUV,195,204 sgg.Hy- gin.fab.l4.Theocr./cL25,54.Ovid.IV,208sgg. Homer. Odyss.X II, 133. Apollod. Ili, 9, 1); qual fratello di Selene (Hesiod. Theog. 371); qual figlio di Persephone,o di Antio- pe ,e col nome di Amjione, o di Aloeo (Paus. II, 1, 1), è padre, consorte, fratello e figlio delPastro delle notti diversamente distin- to con tutti i detti cognomi , o attributi. Non altrimenti Cadmo è padre d’ino, Au- tonoe ed Agave (Hesiod. Thepg. 975), e fi- glio di Telephassa, o di Antiope, o di Ar- giope (Schol. Eurip. Phoen . 5. Hygin ./ab. 6, 178, 179) , come Ino, o Lecuotea, con- sorte di Atamante (Homer. Odyss. V , 333 sgg* Apollod. Ili, 4, 3), Autonoe madre di Polidoro (Hesiod. Theog. 977), ed Agave madre di Penteo (Eurip.Pàoan. v. 942.Paus. IX, 5, 2) , o Dioniso (Nork , v. Pentheus). C. Ploix dice bene a proposito: «Lesfll- « les de Cadmus ne sont pas des person- « nages plus réels que Cadmus lui mème. « Or , si l’on a pu donner à des person- « nages historiques des ancétres fabu- « leux, le fait inverse nè peut étre admis ». {Hermes. Paris 1873, p.8)./o ancora fu det- ta madre di Epafo, il quale fu consorte di Cassiopea , e padre di Lianassa (Apollod. II, 1, 3 Herod. Ili, 27, 28), come Iophossa 0 Calciope consorte di Eete (Schol. Apol- lon. II, 1125, 1153. Hesych v. locava). Mol- tiplicar potrei gli esempi ; ma bastano i già addotti per dimostrare a che per lo più si riferiscono molti personaggi miti- ci, diversi ne'nomi, ma identici nelle re- lazioni e negli attributi. 520) Basta ricordare le favole su gli a- mori di Apollo e della ninfa Cirene (Schol. Apollon. Rh. II, 500) per riferire il culto di Apollo di quella città a* Minii della Tessaglia, i quali dalle loro sedi scacciati passarono nella Laconia (He- rod. IV, 145). Con questi Minii i Laconi Terei fondarono Cirene (Sallust. Iugurth. 8). R. Rochette ( Hist . des Col . gr.) non dubita con gli antichi di attribuire ad un Thera la fondazione della città omo- nima in una delle isole Sporadi (Strab. Vili , p. 347 , XVII , p. 837. Paus. Ili , 1... VII, 2...); ma sembra più verosimile che 1 Laconi si partirono dalla Thera sul Tai- Digitized by ^jOoq le — 124 — con Diana invocata in uno degl'inni. orfici M1 ), non manca ancora un Tychon, o Tychos, ricordato co'compagni di Priapo 522 ), i quali come lo stesso Priapo non furono che solari attributi. Il Conte Marcellus, traduttore di Nonno, non ha dubitato di riferire ad un artefice, il quale avrebbe data l'ospitalità ad Omero nella città di Neontico dell’Eolia, il T fr/og, al quale il poeta faceva costruire lo scudo di Ajace 5 “). Ma oltre che rvyot; dinota scarpello, con tal nome il Sole poteva nominarsi, nel significato di nume fabbrica- tore, al quale la formazione di ogni essere poteva riferirsi. Se Ty- che pe’ Greci fu la dea in generale che dispensava la sorte agli uomini, e fu detta Tvyr) da ruy^àvu 1 , donde srvy^E , contigit , fortuna tulit , avendo i Latini formato la voce Fortuna , quasi Vortumna forse da corto , o certo , perchè la sorte, o la fortuna, ora si mostra propizia, ed ora avversa , o perchè qual dea gene- rativa dicevasi favorevole o contraria agli Uomini. Se fuvvi ancora una Tyche , la fortuna femminile , quella che si ha dalla madre, vi fu pure un Tychon, quasi a dire il Fortunus maschile, quello del padre. Priapo in fatti fu detto Tychon dagli Egizii e dagli Ate- niesi, ed Esichio lo spiega per Ermete Itifallico 824 ), dal quale poi si credette il Tichio favoloso, che come inventore della calzoleria fu detto nativo della Beozia 525 ), forse per la colonia che daH’Egitto si volle condottavi da Cadmo, cognome di Ermete, che adorna ed abbellisce, il che si riferisce anche ad Ermete itifallico, ed al Sole, gote , che Pausania ( III , 20, 4) ricorda come una contrada di cacce (e^a), e, quel ch’è più , riferisce che tutta la vetta del Taigete dicevasi sacra- al Sole, a cui sa- crificavansi cavalli. Tutto questo fa d’uo- po notare per riferire ai Minii il culto solare di Cirene; e per la ripetizione dei nomi delle metropoli delle colonie ne’luo- ghi in cui stabilivansi è da notare che il nome di questa città Tu trasferito nelle vicinanze di Marsiglia (Steph. Byz. o.*y- P*ir*0 per altri coloni che passarono ad a- bitar nella Gallia. 521) Ps. Orph. Hymn. 69. 522) Diod. Sic. IV , 6 , 4 . — Strab. XIII , p. 588. 523) Homer. IL VII, 220.— Cf. Ovid. Fast ili, 823.— Nonn. Dionys. Ili, 67. — Marcel- lus, not. p. 49. 524) Diod. Sic. IV, 6, 4. — Strab. XIII, p. 588. — Hesych. o. ti 525) Plin. H . N. VII, 57. Digitized by ^jOoq le — 125 — il quale la terra fecondando -co'suoi raggi, tutta rabbellisce colla sua luce; così che TvyjjiV altro non sarebbe in sostanza , che il nume nvywv, fabbricatore della natura propria di ciascun uomo, sì naturale, che spirituale; perchè Omero Tichio faceva dimorare nell'TXyj, nella materia prima, di cui ciascun uomo è composto, e che coll’ indole diversa pur si distingue che seco porta dal nascere; perchè è tale la natura degli uomini, come dice lo stesso Omero, quale vien data dal Saturnio Giove , sentenza ripetuta da Archi- loco 526 ); nè mai il poeta fa dire agli eroi : Fortuna omnipotens, et ineluctabile fatum 527); ma la jxoipa, o l’ a/cra, la parte data a ciascun uomo dalla prov- videnza divina, ed il f/.ópo'ifAOV, o decreto, non attribuisce al Fato, sì bene al Nume supremo , come è provato dalla voce analoga ùs sono da intendere per lo stesso Priapo con altri nomi, o cognomi, e attributi. Se narravasi di un Orthos, o Orthros 531 ), si ricorda pure Artemide Orthosia , Orthia, ed Orthea 632 ) , alla quale vittime umane sacriflcavansi a Sparta insino a che Licurgo il nefando sacrifizio cambiò colle fu - 588.— Athen. X, p. 441.— Hesych.o.KonVa^ot. 531) Eustath. ad Homer. p. 1816. — Hes. Theog. 327. 532) Herod. IV,87.— Paus. HI, 16, 9sgg. Schol. ’ ’ . • 526) Auct. Vit. Homer. 151. 527) Virg. Mn. Vili, 334. 528) Homer. Odyss. IV, 561, X, 473. 529) Ovid. Fast. Ili, 822 sg. 530) Aristoph. Lys. 983. — Strab. XIII, p. Digitized by Google - 126 - stigazioni degli Efebi. Or siccome Artemide fu detta Orthia , in senso di adirata, perchè placata con tal sacrifizio, anche Dioniso fu distinto coll’epiteto di Orthos, analogo a Priapo. Al detto culto sanguinoso accenna del resto la favola del sacri- fizio d’Iflgenia in Aulide 588 ), salvata poi da Diana, di cui diceva- si sacerdotessa , e che fu tutt' uno con la stessa dea. I nomi di- versi, o attributi , della dea lunare, gli umani sacriflzii ad essa offerti, e la falsa credenza invalsa dopo di Omero che di fatto vis- sute fossero al mondo le figlie che il poeta attribuì ad Agamen- none, diedero luogo alle molte supposizioni , che da’ poeti tragici \ soprattutto passarono quasi alla storia. Perchè Ifigenia fu la stes- sa Artemide, o Diana, Esiodo il primo cantò che la dea la rese Ecate, e Stesicoro, che fosse figlia di Elena e di Teseo 5M ). E perchè la Luna la sua luce ha dal Sole, detto ’I Qig, o ’ltyiTog, ed anche il forte , e lo stesso quindi che Alcide , o Ercole , pel Sole già ri- • conosciuto, fu detta Ifigenia , stirpe del forte , o dal forte genera- ta; e la genealogia che le assegnavano il poeta siciliano ed Esiodo è vera in questo, che Teseo, il legislatore in generale, senza che fosse nome di persona, fu detto un altro Ercole “*), ed ebbe an- che gli attributi solari; ma è bene favolosa in quanto la facevano nascere da un altro nome, o cognome del pianeta analogo a Se- lene, o la risplendente, come Elettra, che come sorella le fu at- tribuita da Sofocle. I nomi delle altre sorelle , Crisotemi ed //to- nasse*, che lo stesso poeta le attribuiva, non sono che una ripe- tizione di quelli che Omero diede alle figlie di Agamennone , tra le quali nomina anche Laodice, facendo rimanere Ifìanassa a Mi- cene 5S6 ). Ifigenia è chiaramente analoga ad Ifimede, o lfimedea M7 ), di cui mostravasi vanamente il sepolcro ad Antedone nella Beo- zia 5S8 ) , ad Iftmcdusa ed Iflnoe 589 ) ; e perchè Artemide fu anche 533) iEschyl. Agam. 224.— Pind. Pyth. XI, 35 sgg.— Soph. El. 530.— Lucret. I, 85 sgg. 534) Hesiod. ap. Paus. II, 22,7.— Cf.Tzetz. ad Lycophr. 183. 535) Zenob .Pravo. V, 48.— Eckhel, Choix de pierres gravées p. 66. 536) Homer. II. IX, 287. 537) Homer. Odyss. XI, 304.— Apollod. I, 7, 4.— Diod. Sic. V, 50.— Paus. IX, 22, 5. 538) Paus. IX, 22, 5. 539) Apollod. I, 7, 4. II, 1, 2, ecc. Digitized by ^jOoq le - 127 — distinta co’cognomi di Tavpvtri, ToLvpQ'iro'kos, ’EXa<«»), ma le altre città omonime nella Ftiotide , nella Doride , e presso Ilio, dalle colonie arcadiche, che si stabilirono nelle dette regioni. 598) Vedi la mia antica Topografia. 599) Draco Corcyr. ap. Athen. XV, p. 600) Topogr. cit. k Digitized by ^jOoq le - 136 - roicorum temporum rationem , paullatim quidem evanescentem , saecula nonnulla post Heraclidarum reditum obtinuisse Homeri- que aetatem atti gisse , cuiquam possit esse dubium 601 ). Non dai fatti , ma con una certa ragione generale filosofica il dotto autore della dorica invasione giudicava altrimente da altri scrittori, e dai costumi de’ Dorii , o de’ così detti Eraclidi , da quel che fecero, e dagli effetti che produssero con la loro irruzione può vedersi fa- cilmente se il dritto delle genti rispettavano, e se essendo più pros- simi alla natura ed all’adolescenza del genere umano, e però più semplici, non valsero a mutar l’indole e lo stato degli altri Greci» così che l'età eroica si continuò sino ad Omero. La particolare opi- nione di Wachsmuth è contraddetta da’ fatti , e dovendosi bene i fatti considerare nella storia, chi è che la storia non conosce, que- gli che li riconosce, o chi non vuole ammetterli in grazia di qua- lunque teorica astratta a’fatti contraria ed opposta? E primamen- te , sia qualsivoglia l’ indole degl’ invasori , poiché le invasioni si fanno perchè qualche cosa manca sempre a chi le fa, siane qua- lunque il pretesto, o la ragione apparente, l’ingiustizia della inva- sione non può far rimanere paghi e tranquilli gli animi di quelli che vi soggiacciono, che sono spesso costretti ad espatriare, come appunto intervenne ai Greci del Peloponneso, necessitati a lasciar la patria agl’ invasori. La giustizia che non si rispetta , spinge a non rispettarla; e se chi è invaso cedendo alla forza invade gli al- tri, dove e come può, agli estremi ridotto, senza averi e senza pa- tria, dove sono più i semplici costumi che sfanno col sentimento della giustizia? Chi è veramente culto e civile, perchè i dritti ri- spetta de’suoi simili, ben altro diviene, corrotto dalla necessità e dall’esempio. E così fu de’Greci invasi dagli Eraclidi, i quali non di semplici costumi si furono, ma barbari per modo, che i secoli che successero alla loro invasione, si considerano da alcuni sto- 601) W. Wachsmuth , Jus gentium quale Persie gestorum initium. Kiliae 1822, p. 5. obtinuerit a p. Graecos ante bellorum cum Digitized by t^oogie - 137 — rici moderni come il medio evo della Grecia. Ben altro da ciò che Wachsmuth si pensava si ha ragione di notare per la verità della storia studiando ne’fatti e negli effetti della conquista; e parecchi scrittori sono unanimi a dire che se ne’ secoli detti eroici cessa- rono le perturbazioni prodotte da altre invasioni e conquiste, così che gli stessi miti accennano che si cominciò a proteggere le per- sone e la proprietà col reprimersi la violenza ed il brigantaggio, dal che risultarono un dritto delle genti, le leggi contro l’omicidio, l’accresci mento della popolazione e delle città, massime sulle spiag- ge, come nota Tucidide, e le Amfizionie portarono all’unione delle diverse tribù ed alle federazioni ®° 2 ). Ma al sopravvenire della in- vasione de’Dorii e de’ Tessali , rimasti indietro quanto all’incivili- mento a tutti i popoli della Grecia , congiato fu 1’ aspetto di tutto il paese, e per non meno di sei secoli ne fu fermato il progresso all’ avviamento del sociale perfezionamento. Una delle più gravi conseguenze di tutti gli sconvolgimenti prodotti dagli Eraclidi fu la fondazione delle colonie nelle isole dell’Egeo e nell’Asia mino- re, cioè lo spatriamento di quelli che perduta a veano la proprietà per effetto della conquista: piccol male a petto di quello della mor- te 1 Così non solo fu ritardata, ma anche spenta in gran parte la coltura di tutta la nazione; in guisa che se città in gran numero furono prima edificate , e non solo cinte di mura e di torri , ma anche decorate di monumenti, ne'sei secoli succes sivi non fu eretto un qualche monumento notabile , e lo stesso numero delle città venne a mancare in modo incredibile, come notava Strabone ®° 3 ). Se al tempo della guerra trojana il numero delle navi giunse a 1104, nel principio della guerra medica (492 a. C.) non era più di 331; ed anche più piccole, meno forti e leggiere e se il dritto delle genti fu meno rispettato, anche i sacrifizii umani, già abo- 602) Con ciò viene anche a spiegarsi non solo la fondazione del tempio di Del- fo attribuita agli Amfisioni (Strab. IX, p. 420> , ma anche il vero fine della istitu- zione del celebre Oracolo di Apollo. E veggasi a tal riguardo la dotta opera di Guglielmo Gótte, Dos Delphische Orakel. Leipzig 1839 in 8. 603) Lib. Vili, p. 36?. 604) Herod. VII, 36. 18 Digitized by t^oogie - 138 — liti, furono rinnovati con quello di Temistocle, il quale prima della battaglia di Salamina a Bacco Omeste immolò tre giovini prigio- nieri persiani , sacrifizio insignificante del resto al paragone di tutti quelli che senza la religione si sono fatti in tutte le conqui- ste. Dal spprapporsi del popolo conquistatore ai popoli conquistati provennero i governi aristocratici, i quali entrarono si avanti nei costumi della stirpe dorica , che vennero a formarne il principal carattere. Non vi fu tra' conquistatori e i conquistati nessuna po- tenza morale capace di un salutare intervento, niun tribunale in- vestito della nobile missione. d’imporre un freno agli eccessi della conquista. Lo stesso Licurgo più di un secolo dopo non si occupò che nel regolare i rapporti dei conquistatori tra loro stessi nell’e- saltarne il coraggio feroce, nel renderli duri a sè stessi come verso gli altri, onde assicurarne la nazionalità gloriosa ; ma indarno si cercherebbe nelle sue leggi un qualche provvedimento favorevole ai popoli già sottomessi. La voce dell’ umanità taceva innanzi a> terribile dritto della guerra e gli stessi oracoli bugiardi della Pizia di Delfo consultati dal legislatore di Sparta non soccorsero che alla potenza ed alle prerogative della stirpe. Che potè avvenire prima di Licurgo? Più la immaginazione può supplirvi, che le me- morie degli antichi. Ma tali considerazioni bastando per gli effetti della conquista degli Eraclidi, per conchiudere sul principale oggetto di questo mio studio dico, che oltre la cognizione diretta per le origini delle città della Grecia e delle sue colonie che ci viene dallo studio dell’antica geografia, molto lume ancora alla conoscenza delle origini in ge- • nerale viene dalle favole e da’miti che si propagavano dalle colo- nie e da'popoli che fondavano le città dentro e fuori della Grecia; così che la spiegazione de’ miti da questo lato considerata inutile non si dirà per la storia. Se i miti si debbono ancora considerare in sè stessi, Proclo opportunamente notava che bene spiegati non sono in opposizione colla natura delle cose, e chi dirà quindi che considerar non li dobbiamo in relazione delle origini e della geo- grafia ? e se così diceva il filosofo in grazia del vero sapere e della filosofia, a bene intendere e più ampiamente il suo dire, non mi » Digitized by t^oogie - 139 - sembrano i miti inutili anche per la storia, come ho cercato di- mostrare , bramando che altri mi emendi e faccia meglio per la cognizione più verosimile e più da applaudire; perchè se da ogni parte si dà opera alla scienza, e si cerca integrare la storia, vano studio non si dirà la giusta spiegazione de’miti che sovente l’oscu- rano, e tanno crederla una favola. Digitized by ^OOQ Le D-igitized by ^.oogie NUOVA INTERPRETAZIONE DI ALCUNI LUOGHI DELLE SATIRE DI ORAZIO NOTE LETTE ALL’ACCADEMIA nella tornata del 14 dicembre 1880 dal socio V ^ARTOLOMMEO APASSO I. Fra gli scrittori latini dell’età di Augusto non ci ha forse alcuno che più di Orazio sia stato amorosamente studiato e commentato. Imperocché, senza parlare dei tempi anteriori, in questo secolo e specialmente nella dotta ed operosa Germania le nuove edizioni del geniale poeta, si critiche che esegetiche, si moltiplicano e si ripe- tono continuamente; e programmi e dissertazioni quasi innumere- voli, con cui cercasi dichiarare ed illustrare questo o quel tratto della sua vita o dei suoi carmi, si vanno annualmente pubblicando. E non senza ragione certamente : poiché , oltre ai suoi meriti poetici e letterari, che rendono attraentissima la lettura delle sue opere, for- se nessuno più e meglio di lui ci rivela la vita privata ed intima della società romana, nessuno con maggior arte e verità, special- mente nelle satire e nell’ epistole , ci rappresenta i costumi ed i caratteri dei suoi contemporanei. Pur nondimeno, malgrado tali e tante illustrazioni fatte del venosino poeta , non può negarsi che 19 — 142 — alcuni luoghi dei suoi carmi siano ancor dubbii ed oscuri, e che altri richiedano tuttora l’attenzione degli espositori. Il che io credo avvenga sì per 1’ uso di alcuni modi di dire tutti suoi proprii (1), e sì per quello , che dissi essere suo pregio speciale , cioè le molte allusioni ai costumi dei suoi tempi, di cui spesso non tro- viamo chiare notizie e riscontro in altro classico scrittore, o-in al- cun antico monumento. Di tali luoghi adunque io prendo ad esaminare alcuni , tentan- done una nuova interpretazione; e comincio dai vv. 32-35 della satira V, L. I dei Sermones. Ivi, com’è noto, si descrive il viaggio da Roma a Brindisi , che il Poeta , nella primavera del 717 di R. (2) fece in compagnia di Mecenate , del retore Eliodoro , del giureconsulto Cocceio -, cui poi si aggiunsero Virgilio , Fonteio e Capitone, amico e luogotenente di Antonio neirAsia, ed altri, tutti amicissimi suoi. Andavano colà Mecenate e Cocceio per mettere d’accordo i due rivali, Ottavio ed Antonio, che allora si dispu- tavano l’impero del mondo: missi magnis de rebus uterque Legati aoersos soliti componete amicos. Con quella vivace espressione del suo spirito acuto ed osserva- tore , che è chiamata da Petronio Arbitro curiosa felicitas (3) , Orazio racconta i varii accidenti del cammino, spargendo qua e là, secondo suo costume, spruzzi delibalo aceto (4) , ed ora con un frizzo, or con un semplice aggettivo qualificativo, mette in ridicolo quegli uomini e quei costumi, che gli sembravano degni della sua satira lepida ed arguta. Tra l’altro, narrando l’arrivo dei viaggia- (1) Conosco due scritture speciali su questo argomento. Una è dello Zang- raeister, ed è intitolata: De Horatii voci- bus singularibus . Dissertalo. Berol. 1862; e l’altra di Rotbmaler col titolo: De Ho~ ratio oerborum inventore, Dissert. Berol. 1862. (2) Cf. fra gli altri il Kirchner, Quaestio - nes Horatianae (1855) p. 54 e ss. (8) Petronii Arbitri Satyricon c. 118, 5. (4) Horatii, Sermones li, 7, 82. Digitized by t^oogie — 143 — tori a Fondi , prende occasione di burlarsi di Aufldio Lusco, su- premo magistrato di quella città, che da semplice scrivano o can- celliere era stato elevato a quella carica. Aufldio tutto pieno di albagia per quella sua magistratura , niente per fermo ragguar- devole per tutti i cittadini della capitale (1), e molto più per quelli alti personaggi, che allora in Fondi arrivavano, non ebbe ritegno di far mostra di tutte le insegne, che o non gli spettavano, o che, quando anche gli fossero spettate, era ridicolo farne pompa in- nanzi a Mecenate ed a suoi compagni. Giova ripetere le parole del poeta: Fundos, Aufldio Lusco praetore, libenter Linquimus insani ridentes proemia scribae, Praetextam et latum clavum prunaeque batillum. Sulla pretesta e sul laticlavio, insegne senatorie e pretorie, non è alcuna difficoltà, ed i commentatori si accordano tutti nello spie- garne il significato. Il dubbio e la discrepanza sorge sul prunae batillum , del quale molte interpretazioni si misero innanzi , e che da taluno dei più recenti editori tedeschi è dichiarato di in- certa significazione (2). Alcuni infatti , che leggono batillum o piuttosto vatillum (3), lo tengono per un piccolo vaso, ove pel fe- lice arrivo degli ospiti si bruciava l’incenso ai numi e si sacrifi- cava a Giove ospitale (4), ovvero vi si mettevano i carboni affin- (1) Dopo la caduta della Republica, cre- sciuto in Roma l'orgoglio ed il lusso, non solo gli uomini della provincia, o che vi fossero nati e vi dimorassero , o che ne fossero oriundi, erano generalmente nel- la capitale considerati come di oscura cd ignobile condizione ed origine (Cf. Svet. in Calig. 12; Plinio, tìist. nat . XXXIII, 11); ma anche gli onori e gli ufficii ivi ot- tenuti si riguardavano come di poca o nessuna importanza. Secondo Marziale, Epigr. IX, 66, niente poteva esser più vi- le della vita municipale. (2) Prunae batillum quid sit incerti su- mus . Dillenburger , Horat. Berol. 1875 p. 373. (3) Cf. l'edizione di Orazio curata dal Fea (Roma 1818) e riveduta ed accresciuta dal Bothe (Heidelberg 1822) in 1. (4) Batillue diminutiva a case, in quo prò felici h 08 pitum adoentu , incensi s odo - ribus, loci sacra fiebant. Scholiaste Cru- Digitized by / Google — 144 chè posto sulle mense, la cena non raffreddasse (1). Altri lo cre- dono un braciere portatile, in cui Aufldio si faceva recare a casa dai pubblici bagni i carboni, che gli spettavano per ragione del- Pufficio, o che si faceva condurre appresso per arroventare il ferro, con cui bollavansi di note infamanti i rei di alcuni gravi delit- ti (2). Altri Analmente lo stimano un piccolo vaso con fuoco , da cui, come simbolo di sovrumana condizione, i sovrani ed i grandi dell’Oriente e poi gl'imperatori romani si facevano precedere; co- stume vanitosamente imitato dallo sciocco Aufldio (3). D’ altra parte alcuni preferendo la lezione di bacillum e di pruni a quella d i batillum e di pranae, credono che Aufldio portasse un bastone di prugno (4) ad imitazione de’Consoli, che in Roma lo portavano di avorio (Livio XXX, 15), simbolo di giurisdizione e d’ imperio ; ovvero che si facesse sempre precedere da un servo o da un lit- tore, che con un bastoncello o verga di prugno gli sgombrava la via e ne bandiva i comandi. Ora di tutte queste opinioni a me pare che alcune sieno mal fondate, altre poco convenienti , epperò poco accettabili. Il poeta, come è chiaro, volendo mettere in caricatura la burbanzosa vanità di Aufldio, deride le insegne pretorie, che costui o malamente usur- pava, o inopportunamente adoperava. Ora tra queste insegne erano bensì la toga pretesta ed il laticlavio, ma non certamente il pic- colo vaso, in cui sacriflcavasi ai Numi per l’arrivo di nuovi ospiti, qui ano ap. Vossii Etymologicum in v. batiltus ; seguito dal Volpe, VetusLatium L. IV, c. 8. Secondo il Ritter si bruciava- no gl’ incensi auspicando# jurisdictionis causa . Horat. Opera li, 69. (1) Vossii, Etymol.l. c.— Dal Budeo è al- trimenti chiamato vatillum,/oculus men - sarius. Secondo altri, quello appeso al soffitto, avrebbe pure servito a profuma- re la camera da letto. Cruquio in 1. (2) Ascensius Badius in Horat. p. 170— Glareano ibid.— Landino, ibid. (3) Turnebii, Adoersaria L. I, c.29;— Da- cier, Les oeuvres cCHorace t. VI, p. 325 ci- tando Abdia Hist. A post. L. IX oltre il Lambino, il Torrensio, il Pulman ed il Rutgers nei loro Commentarli sopra O- razio. (4) Baruffaci. DelVortatorc nautico ap. Calogerà, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici t. 29, p. 141. Bothe% Annot . ad Hor . sat. t. II, p. 20 della ediz. di Hei- delberg. Digitized by ^.oogie — 445 — non il braciere da riscaldare le mense o da servire ad arroventare i ferri per supplizio dei rei, o per raccogliere i carboni dei bagni publici , non le cassolette da profumi. Nessuna testimonianza di classico scrittore , nessun’ autorità di antico monumento indica queste cose come ornamenti propri delle cariche pretorie, o di al- tra magistratura municipale. Molto meno può giustificarsi l’ opi- nione di coloro che suppongono essere stato il prunae vatillum quel braciere da ardere odori, o quell’incensiere, da cui gl’impe- ratori e gli alti personaggi facevansi precedere. Imperocché, come fu già osservato dal Lipsio, questo costume è più recente dei tem- pi di Orazio, non trovandosene memoria prima degli Antonini (1). Nè finalmente può ammettersi l'opinione di coloro, che spiegano la frase controversa per bastoncello di prugno , sì perchè la le- zione pruni non è da alcun codice di Orazio giustificata, e sì perchè la verga, o il bastone, antico simbolo di autorità e di potere (2), non fu mai, per quanto sappiamo , di prugno, ma di oro, di ar- gento e di avorio, o, come i fasci consolari ed i bacilli dei magi- strati municipali, di olmo e di betulla (3). Tutte queste ragioni dunque non mi fanno accettare le spiega- zioni date finora del luogo controverso, e m'inducono a proporne una nuova, che in parte ritiene, in parte rigetta quella del Baruf- faci e del Bothe. E per prima opino che debba leggersi prunaeque bacillum e non prunaeque vatillum , o batillum. Ed in vero ognun sa come per l’analogia tra il v ed il b, fre- (1) Lipsio, Excursus ad Tacit. Ann. 1, 7. Egli inoltre sostiene che non propria- mente fuoco, ma lampadi si usasse por- tare innanzi agl* imperatori ; il che può confermarsi anche con l’autorità di Dio- ne, Hist. Rom. L. LXXI, 17. Cf. la nota di Reimar sul proposito t. II, p. 1199.— Non mi è accorso finora di vedere la disser- , tazione delPEschenbach, De igne augu- sti* praelato , di cui fa cenno il Reimar. (2) Virga insigne potestatis est , ideo et ea magistratus utuntur. Servio ad IV / Enead . (3) Betula terribili magistratum virgis. Plin. Hist. Nat XV I, 30. Digitized by Google — 146 — quentemente nelle antiche iscrizioni, e nei documenti medioevali anche più, le due, lettere si scambiano tra loro. Ognun sa pure come la t e la c si scambiino equalmente nei codici.* E però non deve recar meraviglia che nel dubbio luogo di Orazio siasi letto batillum o oatillum , invece di bacillam. Nè ivi soltanto. Altrove io già feci osservare (1), che per avere un si- gnificato conveniente e ragionevole di quel passaggio di Trebellio Pollione, ove è‘ detto che ai tribuni militari spettavano per emo- lumento quotidiana coctilium battila quatuor , si dovesse anche leggere badila, e non badila o oatilla , come sta nei codici e come ritengono, o emendano il Casaubono ed il Salmasio (2). Ed in vero sarebbe affatto inconcepibile che le legna alquanto sec- cate e leggermente abbrustolate al forno, che si chiamavano dai Romani cocdlia, potessero misurarsi con un batillum o oatillum, cioè con la pala o paletta che siasi. D’altra parte è indubitato che i badili erano tra le insegne dei magistrati municipali, ed erano anzi il simbolo precipuo della loro giurisdizione e del quasi imperio che essi nei municipi e nelle co- lonie esercitavano. Una tale costumanza è cosa notissima, e non occorre che si alleghino autorità di antichi scrittori e di monu- menti per giustificarla. Pure non è superfluo ricordare il luogo di Cicerone nella orazione 2* delle Agrarie , che per il caso si- mile, cui accenna, è un commento bellissimo alle parole di Ora- zio , e che , comunque non affatto trascurato dagli espositori di questi , pure non fu in tutte le sue parti applicato. Ed infatti Ci- cerone volendo dimostrare quanta fosse la superbia ed arroganza di Capua, che si stimava quasi pari a Roma, dice , di aver con i proprii occhi veduto , allorché quella città fu dedotta colonia da M. Bruto nel 668 di Roma , i duumviri L. Considio e Sexto Sai- (1) Nuova interpretazione di alcuni luo- ghi oscuri o difficili di latini scrittori ten- tata con V aiuto del dialetto e dei costu- mi Napolitani nel Rendiconto delle tor- nate dell’ Accademia Pontaniana anno 1858. (2) Script . Hist. Aug. in Valer, c. 14. Digitized by {jOoq Le — 147 — 0 zio chiamarsi e farsi chiamare Pretori , mentre in tutte le altre colonie non altrimenti che duumviri venivano denominati, ed inol- tre farsi precedere dai littori non cum bacillis sed ut hic (a Roma cioè) praetoribus anteeunt cum fascibus duobus. Giova pure ri- cordare il passaggio di Apuleio nelle Metamorfosi, ove narra come Lucio, il suo protagonista, trovandosi in Cizico ed essendo andato nel mercato per provvedersi d“i cose da mangiare , incontrato ivi il suo vecchio amico Pitea, che da edile prendeva cura dell’anno- na, gli dice: Voti gaudeo, nam et lixas et oirgas et habitum pror- su8 magistratui congraentem in te video. Giova in fine a queste testimonianze dei due antichi scrittori aggiungere l’autorità pure del monumento nocerino di M. Virzio Cerauno duumviro (1), che illustra bellamente l’argomento. In esso, oltre il bisellio scolpito al di sotto, da ciascuno dei due lati della iscrizione, in cui è pa- rola del duumvirato gratuito a Virzio concesso , sono rappresen- tate due figure togate con i bacilli, distinti in fasci di verghe li- gate da duplice ligatura, ed in verghe o bastoncelli semplici, quelli e questi come insegne della giurisdizione e della magistratura del defunto (2). Come dunque in Roma i consoli ed i pretori erano preceduti da 12 o 6 littori con le fasci di verghe e le scuri, così nelle colò- nie e nei municipi portavano innanzi due littori, o apparitores , lixae, con bacilli di verghe senza scuri. Gli uni e gli altri mini- stri portavano le fasci o i bacilli sulla spalla sinistra, mentre con la destra tenevano una verga o bastone solo , con cui facevano largo al magistrato che seguiva. Ma posto ciò che cosa con quel prunae bacillum Orazio intese (1) Pellicano, Intorno ad un antico mo- numento in marmo . Nap. 1826 con la fi- gura di esso incisa in rame.— Mommsen, Inscript. r. Neap. latin . n. 2096. (2) V Avellino (< Opuscoli t. HI, p. 176) cre- de giustamente ohe le accennate due fi- gure non rappresentassero già i due Duumviri Nocerini, come alcuni suppo- sero, ma piuttosto due ministri, o littori, che erano indizio della dignità a Virzio dai decurioni decretata. Digitized by Google dire? A me pare che ove si tenga contò di un uso singolare del genitivo, possessivo o qualificativo, che è speciale al nostro poeta, e, sebbene più raramente, fu talvolta usato anche da altri antichi (1), si possa cqn faciltà e, se pur non un’inganno, anche con ragione age- volmente interpretare 1’ oscuro luogo di questa satira di cui trat- tiamo. Un tal genitivo preso, come dicono i grammatici, in senso passivo, acconciamente in italiane si traduce con la particella da o per. L’ Ebeling in una sua dotta dissertazione su tale argo- mento (2) parlando del genitivo adduce parecchi esempii di que- sto caso apposto a nomi sì proprii, che appellativi, e costruito in modo speciale, che per lo più è una imitazione del greco, ma non allega alcuni costrutti più analoghi e che fanno meglio al nostro proposito. Tali sono P omnis copia narium dell’ ode 15 del L. II Carminum, cioè ogni robba da naso, preso in senso di odori per metonimia ; il centum puer artium dell’ ode I del L. IV , cioè fanciullo da cento mestieri , cioè buono a tutto , e finalmente le noctes cenaeque Deùm della satira 6 del L. II, dei Sermoni, cioè notti e cene da numi , degne e proprie dei numi. Non altrimenti deve intendersi il prunae bacillum. 0 che questo sia il fascio delle verghe, e una verga sola, l’uno e l’altro segno dell'autorità e del qtfasi imperio, che da Aufìdio per ostentazione mostravasi, esso per Orazio non era altro, se non fascio, o bastone da fuoco, o sia non buono ad altro che a farne bragia e carboni. Anche al Cruquio e ad Everardo Ottone, pel tuono derisorio, che dal contesto traspare , balenò alla mente il concetto di un frizzo contro Aufìdio nel prunae bacillum, ma non leggendo bacillum , ma batillum essi credettero invece che appensatamente Orazio avesse voluto scambiare l’ uno nell’ altro , chiamando così l’inse- gna del ridicolo magistrato batillo, o paletta da fuoco(3). Se non che (1) Ricordo qui soltanto lo stantii con - 9icùK mandrae di Giovenale, Satir. L. Ili, v. 237. (2) Ebeling, De casuum usu Horatiano. Sintaxis Horatianae Particula I. Werni- gerodae 1866. (3) Ecco le parole dell' Ottone: « Forsan non inepte cum Cruquio dioemus Flac- Digitized by t^oosie — 149 — il frizzo adoperato in tal senso sarebbe certamente riuscito sem- pre freddo e stentato , mentre adottandosi la spiegazione da me proposta il passaggio in parola non solo acquista una intelligen- za facile , piana ed appropriata ai costumi del tempo , ma si ri- solve ancora in un motto arguto , degno dell’ indole della satira oraziana. Il poeta infatti deride la vanitosa albagia dello sciocco cancelliere , divenuto magistrato , che in ogni occasione faceva pompa della sua carica e delle insegne, che in parte per super- bia usurpava , ed in parte fuori luogo ed inopportunamente usa- va; il che lo rendeva tanto più ridicolo, in quanto che, come sap- piamo da Giovenale, nei municipi della maggior parte d’Italia nes- suno ordinariamente indossava la toga, nisi mortuus, cioè sulla bara (1); e gli stessi magistrati anche nelle solenni occasioni di fe- ste o di spettacoli si tenevano contenti solo delle candide tuni- che (2). Egli si burla inoltre della nessuna importanza della ca- rica, di cui tanto Aufldio inorgogliva, e qualifica il bacillum sim- bolo principale e proprio di essa, per un legno da fuoco. Ed in vero , Mecenate ed i suoi compagni avvezzi agli alti ufflzii dello Stato e familiari di Augusto o di Antonio dovevano certamente trovar ridicola 1’ ostentazione di un piccolo magistrato di provin- cia, che nè personalmente, nè per 1’ ufficio occupato meritava fa considerazione cui pretendeva aver dritto. cum, satirico suo more , in voce batil - lum lusisse: quemadmodum enim in a- liis Italiae urbibus Udore* anteibant cum battili*, ut ex Cicerone vidimus, ita no- stro arroganti Praetori Fundano lictor quoque cum bacillo praeibat; sed qui exiguae potestatis index eratet prò pro- nao battilo sive instrumento, quo prunae componuntur rectius usurpari debebat ». De aedilibu* coloniarum et municipio- rum p. 489. (1) Par 8 magna Italiae est , si terum ad - mittimus, in qua Nemo togam sumit nisi mortuus. Giovenale Sat. Ili, 173. (2) Sujflciunt tunicae summis aedilibu s albae. Gioven. 1. c. 20 Digitized by Google II. Nel verso 77-78 della satira 8.» L. II dei Sermones è un altro luogo del nostro poeta, che a me pare non sia stato finora retta- mente interpretato. In questa satira , come ognun sa* il Poeta descrive la cena im- bandita da Nasidieno a Mecenate e ad alcuni suoi amici e com- pagni , e fingendo di sentirne il racconto da Fundanio , uno dei convitati, mette festevolmente in ridicolo il carattere di quel ple- beo novellamente arricchito. Egli satireggia non già l'avarizia o fastosa spilorceria di Nasidieno, come malamente han creduto pa- recchi chiosatori di Orazio , ma , poiché fortuna non mutat ge- nus, piuttosto la di lui ignoranza del buon gusto, e delle abitudi- ni eleganti della buona società , nella quale cercava intrudersi. Quindi là tavola di acero (v. 10-11) e non di cedro (1) quale con- venivasi ad un uomo così ricco ( beatus ) ; e ad una cena compita (recta); quindi la tappezzeria non ben collocata e polverosa (2), ed i servitori troppo succinti (3) e più adatti a fare da mulettie- ri, che a servire a tavola, in guisa che poco accorti, e niente sollecit 1 2 portavano i fiaschi del vino con l’incesso grave e solleone delle Ce- nefore nella processione di Cerere in Atene; quindi finalmente, per tacere di altro, la vanitosa millanteria, e la poco civile ostentazio- ne del padron di casa , che accompagnava ogni nuovo piatto, ed ogni. fiasco di vino servito ai convitati con un discorso, che ne fa- ceva notare la bontà e la squisitezza non solo , ma anche talune particolari circostanze, che, secondo lui , ne accrescevano il pre- (1) Seneca, De tranq militate I, 1; Pli- nii, Hist. nat. c.XllI,seg. Marziale, Epigr. XIV, 89. (2) 1 Romani costumavano coprire le mura ed anche talvolta il soffitto (sub ca- mera. Porphyrio ad h.l.) del triclinio con tappezzerie ( aulaea ) si per ornamento, e si affinchè si quid puloeris caderet , ab ip- 8i8 exciperetur(Pórph.ivi).Ct. Marquardt, Das privatleben der Romer, P. I p. 802. (3) Pueri alticincli invece di essere ret- te praecincti comptique. Cf. appresso v. 70. Digitized by ^jOoq le — 151 — gio ed il gusto ; quasi che Mecenate ed i suoi compagni non a- vessero mangiato mai di simili vivande, e bevuto vini eguali, nè avessero saputo apprezzarne la qualità. A tutto ciò si aggiunga il caso, che rende più ridicolo il vanaglorioso amfltrione. Nel meglio del convito la tappezzeria, sospesa al triclinio , improvvisamente rovina sulla tavola e sul piatto, di cui Nasidieno stava facendo la storia e 1* elogio , e nel rovinare trae seco tanta polvere , quanta non ne soleva sollevare lo scirocco nelle pianure della Campania. Ad una tale dissavventura Nasidieno confuso si mette a capo chi- no a piangere, come se gli fosse morto immaturamente il figliuo- lo. E non l’avrebbe mai finita, se Nomentano , uno dei suoi pa- rassiti, appoggiato da Balatrone, il più burbero della compagnia, non lo avesse rincorato con una invettiva contro la fortuna ne- mica sempre delle grandi cose. Allora Nasidieno ringraziando co- stui , cerca le pianelle per alzarsi da letto , e nello stesso tempo tum , soggiunge il poeta , tum ledo quoque videres, Stridere secreta dioisos aure susurros. È questo il passaggio che ha richiamato l’attenzione mia, e che a me pare sia stato frainteso da tutti i traduttori e chiosatori di Orazio. Costoro concordemente 1* interpretano come se il Poeta avesse voluto parlare del susurrare che ciascun convitato faceva sepa- / ratamente, e sommessamente nell’orecchio dell’altro. « Allora avre- sti (traduce il Gargallo che cito per tutti), « Stridere udito un susurrar segreto « In ciascun dei letti. Parecchi chiosatori congetturano inoltre quello che i convitati avrebbero potuto dirsi tra loro , ed anche il perchè di quel par- lare sommesso. L’Orelli, per esempio, crede che partito il padron Digitized by Google — 152 — di casa, tutti, non esclusi i parassiti, si fossero posti a. bisbigliare e a ridere sul caso pocanzi intravvenuto , e che per rispetto di Mecenate lo facessero sotto voce (1). Il Doederlein però, nella sua speciale dissertazione sopra que- sta satira (2), combatte la opinione deirOrelli, e non sembrando- gli naturale, che uomini della buona società quali erano Mecenate ed i suoi compagni , si burlassero di un assente innanzi ai pa- rassiti suoi amici , pensa che essi piuttosto si concertassero tra loro di nascosto se dovevano o pur no lasciare immediatamente, e prima che finisse , la cena. Il Ritter (3) finalmente , per tacere di altri , afferma , che susurravasi dai convitati non solo intorno alla confusione del padron di casa , ma anche sul proposito da lui preso di riparare con qualche nuovo ritrovato lo smacco sof- ferto. Ma tutte queste congetture sono certamente arbitrarie , e non hanno alcun fondamento. Esse inoltre, come ognun vede, per Io più si contraddicono a vicenda tra loro; e però non mi sembra- no accette voli. Invece prendendo argomento dal carattere di Na- sidieno, che è quello di un parvenu , poco avvezzo alla buona so- cietà, dalle costumanze dei conviti romani, e Analmente anche dal seguito del racconto , opino che i convitati, vedendo il padron di casa levarsi da tavola , ed inferendo naturalmente da ciò che il convito fosse già terminato (4), anch’essi avessero chiamato i pro- prii servi per calzarsi e levarsi. L’equivoco de’chiosatori, secondo me, è nato dal vario significato che le parole susurrus e secreta (1) Orelli in 1. Chabot nel suo Commen- tario sopra Orazio (1615) dice : Quisque insusurrabat aliquid ridiculi in aurem sodalis sui. *(2) Doederlein, De coena Nasidieni. Er- lang. 1855. (3) Ritter , Hor. opera t. II : susurra - bant haud dubiede confuso hospitis ani- mo, de capto fortiter consilio nooum artis specimen edendi. Clam haec fabulati sunt ne audirent servi Nasidieni et amici. Non recte Wùstemannus dicit furtioos sermo • nes habitos esse quod hospes signijlcaoerit mox discedendum esse. Immo quatn diu- tissime ille convioas tenere , et arte sua de - lectare voluit. , (4) Cf. Plauti, Trucul. II, 4, 12, ove Di- narco non volendo stare a cena dice: cedo soleas mihi , properate f auferte men- sam. Digitized by ^jOoq le — 158 — hanno nel latino ed anco neir italiano linguaggio. Con la prima infatti si esprime non solo il bisbigliare, o il parlare sommessa- mente, ma anche il suono dell’aria leggermente agitata, o spinta con più o meno forza dalle labbra ristrette. La parola secreta poi - si adopera non solo nel significato di occulto o nascosto, ma an- che in senso di segregato o lontano. Ora i chiosatori del poeta si sono attenuti al primo , e non al secondo significato di ambedue le parole , mentre a me pare do- versi preferire il secondo che è determinato principalmente dal verbo stridere. Orazio , qui nil molitur inepte , con adoperare questa voce e col sigmatismo o frequenza della lettera s, avver- tita anche dai chiosatori nel verso in quistione (1) , volle rappre- sentare piuttosto il fischio , o il sibilo , che il parlare sommesso dei convitati. Ed in questo modo il senso del citato passaggio riesce assai facile e piano. Partito il padrone di casa per dare degli ordini , onde ricomporre , come in appresso si vede , il convito , (il che in un pranzo di etichetta, non avrebbe dovuto fare egli, ma il tricliniarca) i convitati dovettero supporre che la cena fosse terminata. Anche essi quindi chiamarono sibilando, o zufolando i (1) Schol. Cruqu. ad 1. — Nota sigmatis- mum in hoc versu consulto quaesitum ad expvimendos susurros . Orelli ivi. — Ipsos sermones clam habitos sono versus et cor - repta penultima stridere sillaba poeta i- mitatusest . Bitter ivi.— Così lo stesso Ora- zio altrove parla dei lenes susurri ( Carmi- na, 1 , 8), che annottando i giovanotti sole- vano ripetere ad una certa data ora. Gli espositori del poeta li credono colloqui! amorosi , fatti sotto voce , affinchè altri non sentisse. Ma a significare il parlare sommesso degli amanti a me pare che sarebbe bastata la sola parola susurros senza l’aggettivo lènis. Questa attenua- zione più che al bisbigliamento di dolci parolette, che Properzio (Carm. 1,15) chia- ma appropriatamente blandos susurros, più ehe alle serenateci cui congetturò il Galiani,che composte di suoni e canti non possono dirsi susurri, fa pensare a qual- che cosa di meno forte e sonoro, a quei tali sibili o zufoli cioè che ai nostri tem- pi dai giovani popolani usavansi e forse ancora usansi per chiamare le loro in- m narri morate, e che nel dialetto napolita- no si chiamano sordiglini. Ma forse que- sta mia congettura è troppo arrischiata, ed io ne lascio il giudizio ai dotti. Digitized by Google — 154 — propri servi che stavano fuori il triclinio, e probabilmente nella stanza anteriore , che Petronio chiama parte prima (1) , affinchè portassero loro le pianella, e venissero a calzargliele per potersi levare da tavola. È noto il costume dei Romani di farsi seguire da liberti, o servi addetti ad un tale uso , i quali dicevansi servi a pedibus , o ad pedes. Essi sono ricordati spesso nelle antiche epigrafi sepolcra- li, ed in vari luoghi dei classici e specialmente di Marziale (2). Che poi costoro venissero in quella guisa chiamati dal padroni è cosa affatto naturale, e che non abbisogna dell’appoggio di an- tiche testimonianze. Pure queste non mancano. Ricordo in pro- posito Clemente Alessandrino (3), che, come modi adoperati dagli antichi per chiamare i servi senza parlare indica il zufolare (irou'- '7rt<7f/.oj) il sibilo (v -v^opoi). Vero è che questo ultimo si trova più frequentemente mentovato negli scrittori latini (4) , ma è da os- servare che esso doveva usarsi solo quando il servo stava nello stesso luogo, in cui trovavasi il padrone, ed era a portata di udir- lo, e quasi esclusivamente quando occorreva perchè il padrone soddisfacesse ad un bisogno naturale, che è bello il tacere (5). Intanto mentre Mecenate ed i suoi compagni si allestivano, Vi- bidio, secondato da Balatrone, sotto finti pretesti seguitava a bur- lare Nasidieno e dimandava ai servi se per disgrazia si fossero rotte anche le fiasche, poiché, chiedendolo egli, non gli si dava da bere ( quod sibi poscenti non dentur pocula). Erano questi gli ul- timi bicchieri {pocula ultima, novissima ) (6), i bicchieri del com- miato, che si libavano al Genio buono ed a Giove. Così senza arzigogolare colla fantasia su quello che i convitati di (1) Petronii Arbitri, Satyr. c. 30. (2) Martialis, Epigramrrtata L. XII, 89; L. XIV., 65. Altrove chiama costoro pe- dam. turbarti L. Ili, 23, 82. (3) Clem. Aless. Paedagogica L. II, c. 7 p. 204 nell' ediz. del Potter del 1715. (4) Marziale, Epigrammata III, 82, 15; VI, 89; XIV, 119. Val. Longo. De orthographia. (5) Seneca, Tragediae , Thyestes v. 915. (6) Petron. Arbitro, Satyr . c. 27. Digitized by ^jOoq le — 155 — Nasidieno avessero potuto dirsi sotto voce all’orecchio, senza sup- porre che i parassiti contro la loro natura si burlassero di colui, alle cui spese ogni giorno mangiavano, e finalmente senza ritenere che a Mecenate, chiamato iocosus dallo stesso Orazio (1), potessero di- spiacere gli scherzi dei suoi amici (cose tutte arbitrariamente af- fermate dai commentatori del poeta) il controverso passaggio ac- quista una spiegazione assai naturale, e certamente assai più delle altre consentanea all’ indole , ed al costume degli uomini e dei tempi, cui la bellissima satira si riferisce. ) (1; Horatii, Epod.S, 30. Digitized by ^.oogie Digitized by ^OOQ Le DI MELISSA e FILOTTETE NELLA MAGNA GRECIA. MEMORIA LETTA ALL’ACCADEMIA nella tornata del 5 Agosto 1888 DAL SOCIO NICOLA GORGIA. Nello stadio deirantichità e della mitologia spesso avviene, che solamente integrando le une colle altre le notizie diverse che si hanno di un soggetto qualsiasi, si ottiene la piena cognizione di ciò che bramasi sapere, mentre che se le notizie stesse si consi- derano separatamente, e senza che l’una dia lume all’altra, tutto rimane oscuro e indeterminato, e di leggieri si può venire alla fa- cile e frettolosa conclusione, che favolose sono le tradizioni degli antichi, senza curarsi d’investigarne le origini e. le cause, e senza tentare di spiegarle. La difficoltà si accresce allorché piuttosto rare sono le notizie riguardanti una città, un popolo, un perso- naggio mitico, un’usanza, o un culto qualunque, e quando le no- tizie , o le spiegazioni degli autori moderni non hanno alcun ri- scontro con quelle che ci tramandavano gli antichi; ma il contra- rio addiviene quando si trovano in corrispondenza le une con le altre ; e che sia così può bene esserne un esempio la tradizione Digitized by ^OOQ Le — 158 — sul Tessalo Filottete, non meno che il nome di Melissa tra i paesi della Calabria con quanto ne trovo ricordato da’patrii topografi. Rinomatissima fra le altre greche colonie che vennero a stabi- lirsi nelle nostre contrade, fu quella che si disse condotta da Fi- lottete nella Magna Grecia, il quale si celebrò qual fondatore di P etilia , Crimisa , Macalla , e Cone *); e nel mentre gli scrittori patrii e stranieri tale colonia ricordano senza alcuna spiegazione, e con la stessa buona fede degli antichi, il Lenormant, ch’è stato 1’ ultimo a parlarne , ne scrive altrimenti ; giacché mentre più a lungo si trattiene della situazione delle due prime delle dette cit- tà, niente osserva sul fondatore; e riferendo appena l’opinione de- gli odierni Melissani, i quali credono che nel loro paese fu l’an- tica Macalla fondata da Filottete , contraddice la colonia , ed in- clina piuttosto a credere che, se Chone si annoverava tra le città fondate dall’eroe della Tessaglia, è ben diffìcile di non pensare, che tutte le piccole città che così pretendevano , furono di fatto fon- date dal popolo pelasgico de’ Choni , e che già esistevano lungo tempo prima della grande colonizzazione greca del secolo Vili e del VII prima di G. C. 1 2 ). Con questa sua opinione egli ha negata chiaramente la memoria delle fondazioni dagli antichi attribuite a Filottete; ma oltre che i coloni, che dicevansi da Filottete con- dotti, si poterono distendere sulle città prima fondate dagli Eno- tri, il piccolo paese odierno di Melissa ricorda nel suo nome una fondazione de’ Tessali , e dimostra il contrario dell’opinione del Lenormant, perchè essi soli vennero a fondarla, riproducendovi la favola di Meliteo, preteso fondatore di Melite nella Ftiotide della Tessaglia 3 ). Benché l’antica Macalla devesi probabilmente crede- re altrove situata, anziché nell'odierna Melissa, importante è non- 1) Strab. VJ , p. 254. - Ovid. JHet XII! , 313. - P. Mela II, 3. — Steph. Byz. a. m«- mxxa. — Serv. ad Mn. Ili, 402. — Tzetz. ad Lycophr. 911 , 927. — L* Etimologo M. o. xvn> dice che la città di tal nome nell'I- talia fu cosi detta da Ercole , il quale neU'Egitto si nomò Xone- 2) Fr. Lenormant , La Grande Gréce , Paysages et Histoire. Paris 1881 in 12, t. I, p. 379. 3) Antonin. Liber. MeL 18. Digitized by t^oogie — 159 — dimeno l’opinione d e'Melissani che la pongono nella loro patria, perchè questo piccolo paese ricorda appunto nel suo nome la pro- pria origine, che si deve attribuire a’Tessali, i quali vennero nella M. Grecia, e col riprodurvi la memoria della nimfa Melissa 4 ) , o di Meliteo, dalle api (jxlX/crcrai) nudrito della loro patria origina- ria, vi portarono ancora la memoria di Filottete, il loro eroe na- zionale. Le città da’Greci fondate nelle nostre regioni ebbero per Io più i nomi delle loro metropoli, e tra queste devesi anche an- noverare Melissa , la quale ricorda il nome simile di Melittea , o Melitea della Tessaglia , ricordata da Strabone e Stefano Bizan- tino 5 ); e soprattutto la testimonianza del secondo , trascurata da tutti i topografi moderni, dimostra l’origine dell’odierna Melissa, la quale è perciò da contare tra le città antiche della M. Grecia. Perchè il dottissimo annotatore di Stefano, Tommaso de Pinedo, non si avvide che il geografo ricordò il villaggio (xcójxyj) nella con- trada, o nel campo Ciriaco, corrispondente a quello di Cirò nella Calabria, scrisse: Melissa oicus in Cyriaco campo a nemine, quod sciam celebratur; e onde spiegare la testimonianza di Stefano ri- cordò il campo di Ciro celebrato da Strabone nella Lidia, e sot- toposto a Sardi (Strab. XIII, p. 629. Id. idid., p. 627), il quale per nulla ha che fare col campo, o colla contrada, in cui fu la nostra Melissa. Se Strabone ricorda invece Mèlibea come patria di Fi- lottete, senza nominare Melissa, fu perchè, come a me sembra, una città istessa nella Tessaglia si nomò Melibea, Melitea, o Me- littea, e Melissa, in tempi diversi, tanto più perchè anche a Me - *. thone , città della Magnesia annessa alla Tessaglia ricordavasi la favola di Filottete 5 ); ma l’ultimo nome sembra il più antico, per- chè ha il suo riscontro nell’odierno nome di Melissa , il quale è da ripetere senza più da’ coloni Tessali, che vennero a fondarla. Si aggiunge a questo , che l’odierna Melissa è stata celebre per le maliarde 7 ) , e furono certamente i Tessali quelli che ne intro- 4) Schol. Pind. Pyth . IV, 104.— -Hesych. Xiw«: *<*» tp Kvpiax* %*fni M»\i). Non facendo d' uopo trattenermi de’ nomi di tali Ninfe , perchè furono chiaramente, l’una la personificazione della Neme- si, o della divina vendetta, e l’altra la personificazione simile del monte Ida nell’Isola di Creta, è piuttosto da notare che Melisseo fu cognome dello stesso Zeus n ), appunto perchè volevasi alleva- to da Melissa e da Amaltea 12 ). Non fa meraviglia che gli anti- sione de W origine e vicende politiche— ccon. di Cirò in prov. di Calabria Ultra II.- Napoli 1849, t. II, p. 265: « Melissa si ritiene antichissima, e di aver ricevuto il nome o da Melisso re di Creta che l’e- diflcò, o dalla famosa Maga Melissa, che si vuole coeva della Cumana Sibilla. In vero questo paese ha molti cavi sotter- ranei, ed ha avuto sempre, come conti- nua ad avere, le sue streghe, maliarde, e indovine.... Non vi è popolo, che non abbia avuto, e che non continuasse ad avere la stes- sa credenza per le maliarde, e come nei nostri luoghi è in fama Melissa, così in altri luoghi ed altri paesi, come Rotonda inBasilicata,e Benevento famosissima pel suo noce ». 8) Diod. Sic. IV, 55.— Homer. Odyss. XI, 259. — Apollod. I, 9, 11, 28.— Paus. II, 3, 6. 9) Strab. X, p. 444. 10) Apollod. I, 1, 6. — Hygin. P. Astr. II, 13. — Herm. ad PlaL Phaedr. p. 148. 11) Hesych. o. m*x*Vo , «io«. 12) Lactant. I, 22. Digitized by ^jOoq le — 461 — chi immaginassero tali personificazioni, se anche Zeus supposero un mortale e sepolto a Creta, e propriamente a Cnosso, nell’antro stesso, nel quale poi si disse sepolto Minosse lS ); giacché il famo- so e supposto legislatore de’ Cretesi fu detto figlio di Zeus , e fu tutt'uno con lo stesso nume supremo di tutti i Greci u ). Le cose dette sono sufficienti a spiegare il nome di Melissa nella Cala- bria Ultra ll a , ed aggiungo che i Melissei, persuasi che la loro patria ebbe nome dalla Ninfa Melissa, prima autrice del mellificio , nel loro stemma, e nel loro suggello comunale figurarono uno sciame di api svolazzanti intorno d’una ninfa 1 *); e secondo questa opi- nione la nostra Melissa sarebbe stata fondata da coloni simili a quelli che si condussero in Efeso nella figura di Melisse o di api 16 ) , come gli Elleni che dalla città di Eliade trasmigrarono a Melitea, e nel foro di questa città posero il sepolcro di Elleno, figlio di Deucalione e Pirra 17 ). Melissa e Melitta , o Melite , sono le stesse, e da’ due nomi si risalì alle simili tradizioni favolose, ma 13) Hòmer. Odyss. XIX , 172. — Plat. De Lcgg. I, 1.— Diod. Sic. V. 70. — Cic. De N. D. Ili, 21. — Strab. X, p. 730. 14) Minosse, figlio di Zeus ( Iliad . XIV, 321), o di Licasto (Diod. IV, 62), e gene- ro di Liczio , è perciò predicato , dice Nork, di Giove Avxalot; giacché non vi fu un Minosse II , come Diodoro suppose , come non vi fu un II Radamanto, come favoleggiò Eforo in Strabone (X, p. 730), perchè nè Omero, nè Esiodo (nò lo Pseu- do-Plat. in Min. Opp . ed. Bip. VI,p. 139), nè i posteriori poeti e logografi , nè gli storici, nè Platone , Aristotele , Strabo- ne ecc. , parlano di duo re dello stesso nome. Minosse, come predicato di Gio- ve Liceo, indica che i Cretesi, i quali lo adorarono come lor nume, cominciaro- no a computare il loro anno dal sorge- re della Canicola, non altrimenti dagli Egizii e dagli Arcadi. Minosse, figlio di Asterio (Diod. VI, 62) è perciò il rappre- sentante del solstizio estivo, ed il suo figlio, o successore, rappresenta quindi il solstizio d’inverno, l’astro ch’entra nel segno dell’Aquario, cioè Deucalione (/- liaà.. XIII , 451) , nel cui regno dicevasi avvenuto’ il diluvio. A questo succede di nuovo il solstizio estivo, e perciò Ido- meneo, nipote di Minosse, è identico con esso , il quale si potè dire Minosse , o Menes nato dall’lda, perchè Minosse II si disse figlio dell’Ida, o di Licasto. L’i- dentità di Minosse e di Zeus è indicata anche dalla iscrizione posta sul preteso sepolcro del primo: miiwoj r» A/o* o*. 15) Pugliese, Op. cit. v. II, p. 266. 16) Philostr. Icon. II, 8, p. 823. 17) Strab. IX, p. 432. Digitized by Google — 162 — sì l’una, che l’altra accennano alla Tessaglia. Ma anche Filottete si è detto e si dice fondatore di Melissa, e qualche cosa pur fa d’uopo notarne per la verità della storia , dopo che molti archeologi ne hanno trattato con dottrina e diligenza. Ma non posso di Filottete dire la cosa più importante senza prima riferire quanto ne nar- rarono gli antichi, a cominciare da Omero, il quale fu certamente autorità prima e singolare a tutti gli altri, che ne discorsero va- riamente secondo le congetture proprie , o secondo le narrazioni della stessa leggenda popolare ne’diversi tempi. Se il catalogo delle navi, o de’duci della grande spedizione con- tro Troja, non fu da altra mano aggiunta all’Iliade, Omero fu il primo a cantare di Filottete, dicendo : Di Metone, Tauniachiu e Melitea E dell* aspra Olinone era venuto Con sette prore un fler drappello , e carca Di cinquanta gagliardi era ciascuna Sporti di remo e d*arco e di battaglia , Famoso arderò li reggea dapprima Filottete ; ma questo egro d*acuti Spasmi or giace nella sacra Lenno, Ove da tetra di pestifer angue Piaga offeso gli Achei Vabbandonaro 18 ). e Nell’ Odissea fa supporre che , guarito l’ eroe dalla sua ferita , andò a Troja, e felicemente ne ritornò con altri duci, perchè dice che tal ritorno Felice l'ebbe Filottete ancora. L'illustre prole di Peante W). 18) Homer. Iliaci. II, 716 sgg.— Trad. di 19) Odyss. Ili, 190 sg.— Trad. d’Ipp. Pin- V. Monti. demonte. Digitized by ^OOQ Le — 163 — E nel canto Vili dello stesso eroe fa dire ad Ulisse : Sol Filottete mi lincea dell'arco Mentre a gara il tendean so tv Ilio i Greci 20). Sofocle, Pindaro, Ovidio e Servio ripetevano che l’eroe fu figlio di Peante 21 ) senza ricordarne la madre, la quale a detta d’ Igino fu Demonassa **). E neir estratto che de’ Versi Ciprii di Stasino ci fu lasciato da Proclo, si narra che gli Achei dopo di esser giun- ti a Tenedo , e di avervi tenuto un banchetto , non potendo più sopportare la vicinanza di Filottete per la piaga che lo addolora- va, lo lasciarono nell’altra isola di Lenno w ). Sofocle ancora, se- guendo in tutto Omero, dal che con ragione è stato detto Omeri- cissimo 24 ), nella Tragedia su Filottete ne faceva più a lungo dallo stesso eroe narrare il caso doloroso e i patimenti nell’ isola di Lenno , dove fa dirgli che fu lasciato da’ duci della flotta e da Ulisse , Vólto il cammin dalla marina Crisa2 5). E le cose dette bastarono , io credo , che si dicesse morso dal serpente a Crisa, ed anche a Tenedo e ad Imbro M ), isole vicine, all’opposto del racconto di Omero, il quale lo disse ferito a Lenno. Se altre testimonianze non si opponessero a quella di Omero, me- glio che alle dette isole converrebbe credere che Filottete, morso dal serpente a Lenno , fu abbandonato nell’ isola vicina Nea 27 ) , quella che Appiano dice deserta M ), sebbene vi si mostrasse l’ara 30) Odyss. VII, 21» sg. 21) soph. Philoct. 5. — Pind. Pytk. 119.— Ovid. Mei. XIII, 313.— Serv. ad JEn. Ili, 402. 22) Hygin. fab. 102. 23) Proci. Chrestom . 24) M. Lechner, De Sophocle poeta &***- fixwrar». Erlang. 1959 in 4.— Lo stesso può dirsi di Virgilio, secondo Macrobio. 25) Soph. Philoct 270. 26) Schol. anon. ad Homer . 11. 11, 721.— Eustath. in IL li, 723, p. 329 sg. 27) Steph. Byz. o. Suid. o. n»*#.— Hesych. o. Ni*. 28) Appian. De B. Mythr . I, 77. — Plinio Digitized by ^jOoq le — 164 — di Fi lottete, monumento depravagli che vi sostenne; il che dimo- stra che fu prima abitata, ma poi abbandonata, e tanto più è da credersi deserta in un tempo molto più antico , mentre non po- tevano esser deserte , anche nell' età anteriore ad Omero , le al- tre isole già dette , nelle quali perciò 1’ eroe nel suo infortunio poteva esser soccorso e di medele e di vitto, se Sofocle di lui fa dire da Neottolemo , che fu costretto di darsi alla caccia per vi- vere : Un'aspra orrida vita Fama è ch’ei tragga: ognor co'dardi in caccia Andar di fiere, e un sanator de'mali Non trova mai**). E dallo stesso Filottete fa dire a Neottolemo nove anni dopo che così visse nel suo stato infelice: Poi che stanco del mar gli empj m'han visto Dormir sotto una rupe , alcuni tosto Salparo a me, come a mendico , innanzi Pochi cenci gittando, e poco cibo t Il tempo Passava intanto, e mi si fisa pur forza Là da me solo in quelVangusto tetto Sostenermi la vita. Al ventre allora Cominciò l'esca a procacciar quest? arco Le volanti colombe trafiggendo 30). Così secondo la tradizione Omerica doveva Sofocle narrare lo stato infelicissimo di Filottete , e la vita malaugurata che menò (H. N. IV, 23) dice risola Nea sacra a Mi- nerva; ed Antigono Caristio, il quale co- me Servio e Suida ricorda in vece le iso- le Nee, dice che non vi nascevano le per- nici; ma esservi potevano i colombi, con cui si nudriva Filottete. 29) Soph. Philoct . 165 sgg. 80) Soph. PhilOCt.2 70 sqq. Digitized by ^jOoq le — 165 — fino a che ne fu liberato per esser condotto innanzi Troja, che in- darno era assediata, e che cader dovea col suo mezzo. Se lo scoz- zese avventuriere Alessandro Selkirk naufragando nell’ isola di Juan Fernandez con poche cose necessarie , e con un fucile da caccia e qualche relativa munizione , non avesse probabilmente inspirato Daniele de Foe a scrivere il famoso romanzo di Robin- son Crusoe, si direbbe che l’autore inglese s'inspirò all'antico rac- conto su Filottete. Più antichi scrittori dicono che tale eroe, amico di Ercole, dal quale apprese a tirar l’arco^ e che ne portò le ar- mi, dopo la morte del suo maestro ne ereditò le frecce avvelena- te, in ricompensa di avergli alzata la pira, e dell’averlo così libe- rato da’ tormenti che lo trambasciavano dopo che indossò la tu- nica avvelenata col sangue del Centauro Nesso 81 ). Ma secondo altri , non già Filottete , sì bene Peante , o Morsimo , o lo stes- so Ilio , figlio di Ercole , o Zeus , furono quelli che aiutaro- no il grande eroe ad uscire dalle sue pene con abbruciarlo sul- l’ Oeta s2 ). Ma il catalogo delle navi nel II canto dell’ Iliade ora comune- mente si crede aggiunto da altro poeta, e ciò che si narra di Fi-, lottete nello stesso poema si stima anche un' aggiunta attinta da un avvenimento narrato da altra tradizione, che si potrebbe rap- portare ad Aretino , continuatore di Omero , e che sarebbe stata incorporata nell’Iliade nel tempo scorso tra Aretino e Stasino 83 ). E siccome non altrimenti si credono aggiunti all’ Iliade gli ultimi due canti, ne risulta del pari favolosa la cooperazione di Filottete alla, presa di Troja, e favoloso del pari tutto che dell’eroe si narrò ne' nove annj antecedenti ; e chi vorrà quindi credere , che dopo egli venne nelle nostre contrade ? E poiché narravasi che Giasone nella sua famosa spedizione per la conquista del vello d’oro, scio- gliendo le vele da Iolco nella Tessaglia 80 anni prima della guer- 31) Diod. Sic. IV, 38. - Hygin ./ab. 36.— Ovid. Met. IX , 230 sgg. — Philostr. Icon. 17. Hcr . 5. 32) Soph. Phil. 802.- Apollod. II, 7,7. - Callim. H. in Dian. 159. — Tzetz. ad Ly - cophr. 50. 33) Th. Bergk , Grieeh. Literaturgesch . Berlin, Weidm. 1872, t. I, p. 558, nota H- 22 Digitized by Google — 166 — ra trojana, approdò primamente a Len no M ), ed Ercole fu nel nu- mero degli Argonauti, anzi ne fu il conduttore “), il che altri con- traddicevano “), per la stretta relazione tra Ercole e Filottete si disse che anche Filottete fece parte della spedizione contro la Col- chide 37 ). A questa prima discordanza dalla tradizione aggiunta alTIliade nel II canto seguirono le altre, con cui si disse che quan- do i Greci partirono per alla volta di Troja loro era stato predet- to, che se non ritrovavano l’altare della Ninfa Crisa, o di Minerva Crisa nell'isola di tal nome, non potevano impadronirsi d’ilio. Fi- lottete scovrì questo altare , e fu al piede ferito dal serpente, che 10 custodiva ®). Igino dice, che Giunone contro di lui adirata, perchè preparato avea il rogo ad Ercole , mandò il serpente per punirlo S9 ). Ma non già nell’isola Crisa, si bene nel contemplare 11 sepolcro di Troilo nel tempio di Apollo Timbreo nella Troade , o in un sacrifizio offerto ad Apollo Sminteó nella stessa regione, o nell’anzidetto banchetto da’Greci tenuto a Tenedo, o ancora per avere indicato, contro le sue promesse, il luogo in cui Ercole fu sepolto, fu egli ferito secondo altri dal serpente *°) , dicendosi al- tresì, che non da un serpente, ma da un sorcio fu morsicato nel tempio di Apollo Sminteo a Crisa , dove il nume adoravasi nella statua con un sorcio ai piedi 41 ), perchè il sorcio fu simbolo della divinazione 42 ). E Servio con più o meno di credulità, x> di verosi- miglianza, scrisse ancora che l’eroe dalle, stesse freccio d’ Ercole 34) Pind. Pyth. IV, 448. — Apollod. I, 9, 17. Ili, 6, 4. — Apollon. Arg. I, 601.— Val. FI. I, 391. 35) Schol. Apollon. I, 1289. — Ptol. He- phest. II, p. 310.— Antonin. Lib. 26.— Diod. Sic. IV, 41 sg.— Schol. Pind. Nem. Ili, 64. Pyth. IV, 303. — Herod. VII, 193.— Hygin. fah. 14. 36) Hygin. fab. 4. - Val. FI. I, 391. 37) Hygin. fab. 14. — Val. FI. I, 39 —1. Philostr. Icon. 17. 38) Soph Philoct. 1327.— Philostr. Icon. 17. — Eustath. In. II. p. 330 , IO. - Schol. Homer. II. II, 716 agg. — Tzetz. ad Lyco- phr. 911. 39) Hygin. fab. 102. 40) Meurs. ad Lycophr. 912. — Philostr. Icon. 17.— Schol. Soph. Philoct. 266.— Dict. Cret. II, 14. - Hygin. fab. 14. 41) Strab. XIII, p. 604.— Eustath. In. II. p. 34, 18. 42) Homer. II. 1 , 39. — Ovid. Fast. VI , 425. Met. XII, 585. Digitized by l^.OOQLe — 167 — fu vulnerato al piede , col quale ne aveva percosso la tomba , e così indicatala agli Achei 4$ ). Checché dir si voglia con tutte queste diverse testimonianze sulla cagione, sul luogo, e sul mezzo con cui Filottete fu ferito, è piut- tosto da considerare che , se può credersi a Diete ed Eustazio , l’eroe si disse lasciato nell’isola di Lenno, perchè vi poteva esser sanato da' sacerdoti di Vulcano, i quali facevano professione di guarire le ferite de'serpenti u ), non si comprende come vi rimase nove anni continui senza esservi sanato affatto sino a che poi nel- l’anno seguente fu guarito innanzi Troja. Tolomeo Efestione dice, o suppose , più conseguentemente , che fu sanato da Pilio , figlio di Efesto w ); e secondo Pausania, seguito da Fozio, morì in quel- l’isola per cagione della sua piaga “). Ma si disse ancora nudrito da Fimaco, figlio di Doloflone, e pastore del re Actore, nella stessa isola di Lenno 47 ), e Filostrato riferisce, che uno de’ Melibei eh’ ei capitanava , rimase in sua compagnia , e che fu tantosto guarito da’medici Lemnii con la terra lemnia, o sigillata , valevole con- tro le morsicature de’serpenti; cosi che potè poi con Euneo inva- dere le isolette vicine, scacciandone i Carii, che le aveano occupate, e ch’ebbe in ricompensa una parte dell’isola, che nominò Acesia, in memoria della guarigione, che vi avea ottenuta 48 ). Senza trattenermi di queste ultronee affermazioni , le quali si diranno piuttosto supposizioni, e passando alla tradizione più ri- cevuta , che 1’ eroe riguarda in relazione coll’ eccidio di Troja, si ■ narra che stando egli tuttavia trambasciato da' bisogni e dal do- lore della insanabile ferita *•) nel decimo anno dell’ assedio della città, poiché un oracolo avea dichiarato, che Troja non poteva esser presa senza le frecce di Ercole , i Greci si videro nella ne- cessità di mandare a rilevar l’eroe da Lenno colle armi fatali che possedeva. L'oracolo era stato dato da Eleno, figlio di Priamo, o 43) Serv. ad jEn. Ili, 403. 44) Dict. Cret. II, 14.-Eustath. In Iliad . p. 330, 12. 45) Ptol. HephQpt. VI, p. 334. 46) Paus. I, 22, 6. — Phot. Bibl . p. 486. 47) Hygin ./ab. 102. 48) Ptol. Hephest. 5. 49) Pind. Pyth. I, 96 s gg. Digitized by Google da Calcante , o anche nella isola di Lesbo M ) , e furono a Lenno mandati Ulisse e Neottolemo , o anche Diomede ; i quali giunti presso Filottete, e dichiarata la cagione della loro venuta, egli vo- lentieri li seguì infermo come era. E come furono giunti innanzi Troja, addormentato 1’ eroe per opera di Apollo, o di Macaone, o di Podalirio, o di entrambi, o dello stesso lor padre Asclepio, gli sanarono alla fine la ferita “); e potendo egli facilmente combat- tere, uccise tantosto Paride e tre altri Trojani , e la città fu pre- sa 52 ). Siccome narravasi ancora , che secondo un altro oracolo Troja non sarebbe caduta, se i Greci non vi trasferivano dall’Elide le ossa di Pelope , il che pur fecero, e portarono a fine l’impre- sa M ) , la prima tradizione sembra copia di questa , secondo la quale si scoprì un osso della spalla di Pelope a Letrina, o anche a Pisa, e ne fu fatto il Palladio M ). Il nome di Pelope trovasi ri- cordato non solo a Pisa, dove ebbe i divini onori e dicevasi se- polto w ), ma anche in Oleno e nell’Arcadia, nella Lidia e nella Frigia, il che si riferisce, secondo la giusta osservazione di Nie- buhr, all’ affinità de’ popoli sulle due parti dell’Egeo “), e giova notare anche pel Palladio, che dicevasi posseduto da Roma, La- vinio, Luceria e Siri w ), e per la tradizione che riguarda Filottete nella Grecia e nell’Italia. Omero dice, come ho riferito, che dopo la caduta di Troja egli ritornò felicemente nella patria M ), neWEtea contrada, come dice Sofocle "), la quale divisa in quattordici pa- ghi, o villaggi, contenne anche Eraclea e la Driopide ®°); ma se- condo altri scrittori fu da’venti sbattuto sulla costa dell’Italia, e 50) Schol. Pind. Pyth. I, 100.— Philostr. Jcon. 17. — Q. Smini. IX, 325. — Tzetz. ad Lycophr . 911. 51) Schol. Soph. Philoct. 133, 1437.-Pbi- lostr. tìer. 5. — Q. Smirn. X, 180. 52) Soph. Philoct . 1426.'— Apollod. Ili . 12 , 6. — Conon. Narr, XXIII. — Hygin. fab. 112. 53) Paus. V, 13, 3. Ct. VI, 22, 2. — Tzetz. ad Lytophr. 52-54. 54) Clem. Alex. Protr. p. 30. — Plin. H. N. XXVIII, 4. 55) Schol. Pind. Ol. 1, 146. 56) Niebuhr, K teine hist. Schrift. p. 370, not. 57) Strab. VI, p. 264. 58) Odyss. Ili, 190. 59) Philoctet. 479, 466. 60) Strab. IX, p. 434. Digitized by ^jOoq le — 169 — propriamente nella Crotonitide , nella quale fondò Petilia e Cri- missa. La spiaggia della prima di queste città sarebbe stato il luo- go di approdo dell’eroe #1 ), perchè Petilia secondo i patrii topo- grafi corrisponde all’odierna Strongoli posta presso la marina, e la seconda, che suole situarsi presso Paterno, fu notabile pel tempio che si disse dallo stesso Filottete innalzato ad Apollo Ateo, nel quale consecrò il suo arco ® 2 ), o nel quale si consecrò un arco, poi che si credette da Filottete edificato. Chone e Macalla , nella stessa regione , si dissero anche fondate dal Tessalo eroe , e quando i Rodii, dice Tzetze, vennero nella.Campania, ed ebbero a combat- tere i Greci* che già vi si erano stabiliti, Filottete pugnò in aiuto de’nuovi venuti, ma cadde nella battaglia, e fu sepolto a Macal- la, dove mostravesene il sepolcro ne’tempi più tardi della storia. £ possibile che tal sepolcro tuttavia si vedesse nel secolo XIII al tempo di Tzetze , o egli ne attinse la memoria da altro scrittore più antico ? Non so che dirne, ma è certo che Tzetze fece una sin- golare confusione nel narrare gli ultimi fatti di Filottete, perchè lo fa approdare nella Campania , di là passare più oltre e com- battere i Lucani, poi ritornare nella stessa regione per collegar- si co’Rodii, ed essere in fine sepolto nella detta città della Cro- tonitide ; mentre che nel tempo anteriore ad Omero , quando si suppose vissuto Filottete , non parlavasi ancora de’ Lucani , ed i Rodii vennero nella Campania quasi nel tempo storico , perchè vi si credono giunti nel secolo Vili a. C. Nè si sa quali mai fos- sero i Pelleni da’ Rodii combattuti e da Filottete nella detta re- gione, se non furono gli antichi abitatori della regione stessa, che Tzetze nominò piuttosto Paileni, come gli abitatori della penisola Pailene , la quale per la sua natura vulcanica era simile alla Campania. Per tutte queste contrarie tradizioni , coll’ occasione di alcuni nuovi monumenti riguardanti Filottete, ed anche più per l’origine 61) Paroa. Philoctetes subnixa Petilia 62) Etyro. M. v. A\aht. muro, dice Ovidio. Digitized by Google — 470 — di Melissa, mi è aggradito di occuparmi con questo breve studio della colonia che si volle da Filottete condotta nella M. Grecia, e con tutto l’interesse che eccita ogni nuova illustrazione delle me- morie patrie ho letto la monografia del eh. L. A. Milani col tito- lo: Il mito di Filottete nella Letteratura classica e nell'arte fi- gurata. Firenze 1879. Avendo l’autore con rara diligenza e dottri- na studiato il mito di Filottete nell’ antica epopea , nella poesia drammatica, e ne'monumenti d’ogni sorta, cioè vasi, pietre incise e pitture, ha scritto come una enciclopedia sul mito istesso, che fa desiderare uno studio simile su altri miti non ancora così este- samente trattati da’dotti archeologi. Oltre all’aver messo in chiaro alcune dubbiezze risultanti dalle diverse testimonianze degli an- tichi scrittori, ha dimostrato fra l’altro che gli artisti s'inspirava- no alle narrazioni de’ tragici più che a quelle de’ mitologi. Come degli artisti, avvenne ancora de’poeti più insigni, i quali s’inspi- rarono alla tradizione mitica, per tradurre soprattutto sulle scene i fatti e le avventure degli Eroi , dopo che Omero con tanta ric- chezza di fantasia ne cantò ne'suoi poemi immortali. Tutto que- sto risulta dallo studio che si è fatto, e che può anche farsi dopo il diligente trattato del signor Milani , studiosissimo nelle opere di tanti illustri scrittori e maestri nello studio delle cose archeo- logiche e della mitologia. Ma non ostante gli studii fatti, qualcuno può tuttavia bramare di esser più chiarito sulle avventure di Fi- lottete, ed anche dimandare se mai visse al mondo con tanti eroi contemporanei, e se non visse al pari di tutti gli altri, qual mai fu 1’ origine della favola che lo riguarda, e come è mai da spie- gare , o si può spiegare in modo che soddisfaccia alla ragione, e alla nostra curiosità , che sovente indarno si affanna sulle cose ignote, o difficili a sapersi. Tali cose ricerco e dimando io stesso nella presenza di tanti monumenti di recente illustrati su Filottete. Benché il signor Milani non ha tralasciato fra tante testimonian- ze de’ dotti Topinione del De Witte, il quale credette illustrare il racconto mitico della ferita di Filottete con la ferita di Orione **), 63) Catalogue Durand. p. 446, 2198. Digitized by ^jOoq Le — 171 - del che sembra che altro partito per la spiegazione del mito non trasse lo stesso dotto archeologo; benché non ha mancato di ri- ferire le parole più importanti di Buttmann : Nihil enim in my~ thologia solemnius, quum ut Deoru/n dearumoe cognomina tran- sierint in heroas nymphasque, et ita fabulas a deorum illorum historia distinctas , cum iisdem tamen fere coniunctas procrea- rint M ); si limita a notare, ed il suo dire pur vale in parte a ri- schiarare la quistione più intima sul mito di Filottete: « Sembra « strano ad ogni modo, che da tante città che nell’antica tradizio- « nc si associavano al nome di Filottete in Grecia e in Italia (Me- « libea , Olizone, Thaumakia, Methone in Magnesia; Trachinia , « Melia (?) nella Ftiotide; Sybari, Krotona, Petelia, Chone, Krimis- « sa , Macella in Lucania) , non siano mai venute in luce alcune «monete con Filottete, se non quelle di Lamia; molto comuni « sono però tanto nelle monete di Tessaglia in Grecia, quanto in « quelle di Lucania in Italia, i tipi con Ercole e con i suoi attri- « buli, e questi tipi in certa guisa già ricordano Filottete, il quale, « come erede delle armi di Ercole, può e poteva considerarsi nulla « meno che una sua propria emanazione » 45 ). Queste ultime pa- role sono importanti per la spiegazione del mito in quistione; ma il Milani non vi si è trattenuto - più che tanto , non le ha svilup- pate, e per quanto dirò in seguito io credo che dir si possa, che appunto pe'tipi di Ercole molto comuni sì nelle monete della Tes- saglia, che in quelle della Lucania, Filottete non si doveva effi- giare in tali monete, giacché Ercole è Filottete , e Filottete è Er- cole, ed il Filottete di Omero, de’tragici e degli antichi artisti con- siderar si deve come la stessa persona mitica di Ercole, adorata nella Tessaglia, e quindi da’coloni Tessali, che vennero a fondare i nella M. Grecia le città che si dissero fondate da Filottete, o che si unirono agli abitatori delle città istesse fondate prima della loro venuta da altri più antichi coloni della stessa Grecia, esclusa non- » 64) Buttmann, De Sophoclis Philoctete. 65) L. A. Milani, Il mito di Filottete p. Berol. 1822, p. 57 8 g. 83 , nota 3). Digitized by Google — 172 — dimeno la città di Melissa, la quale fu, come ho detto, loro pro- pria fondazione, per avervi riprodotto il nome della madre patria. E questo è il solo fatto storico , che si può sostenere dopo tutte le ricerche sul mito di Filottete. I più che si danno il pensiero di ritrovare il significato de’miti nelle spiegazioni date , o da darsi, facilmente possono rimanersi alle tradizioni volgari, e non dubi- tare dell'esistenza degli Eroi , quando leggono soprattutto negli antichi, che di tali Eroi si mostravano i sepolcri in varie regioni dell’Ellade, come è anche il caso di Filottete, del quale vedevasi il sepolcro nella piccola città di Macalla della M. Grecia. Ma è ben nota, non so dire, se la pietà, o la superstizione degli antichi Elleni e delle loro colonie, con la quale eressero tempii, altari , monumenti eroici e sepolcri ai supposti fondatori delie loro città, immaginati da’ nomi delle città istesse , le quali altrimenti ebber nome non solo da’ numi che vi furono adorati, ma anche da’ co- gnomi de’numi stessi personificati, o da altre circostanze. I culti, le feste, le memorie favolose delle origini e delle fondazioni delle città nella Grecia e in altre contrade , ma degli stessi Greci , ri- cordano questo fatto notissimo, il quale si ripeteva quasi in tutte le pagine dell’antica geografia e della mitologia. Benché per esem- pio Idomeneo, detto e creduto nipote di Minosse, e fondatore della città di Salento nella regione d e'Salentini, dicevasi sepolto a Caos- so nell’isola di Creta con Merione ® 6 ) , che lo accompagnò nella spedizione contro Troja 67 ), volevasi anche sepolto sul monte Cer- cafo presso Colofone pell’Asia Minore 68 ), nò certamente, che per le relazioni di questa città con Rodi, e con Créta, e per una co- lonia di Cretesi nella regione de’ Salenti ni 6# ). Se da Igino e da 66) Diod. Sic. V, 79. 67) Homer. Iliad. II, 651. IV, 254. ' 68) Strab. X, p. 479.— Schol. Odyss. XIII, 259 Serv. adJEn. 11,121, 401,531, XI, 264. 69) Serv. ad &n. Ili, 121. — Dall’esem- pio d’Idomeneo e di Merione chiaramen- te si vede come Omero da diversi epiteti solari ideò varii personaggi mitici, o E- roi nell’Iliade. Perchè Merione, Puomo del lombo (wpof), ma nel significato fal- lico, o di generatore, fedele compagno del suo zio Idomeneo (Iliad. VII, 165, X, 58. XXIII , 113) , col quale i Cretesi co- mandò contro Troja (/(. II, 650), rinoma- to per la celerità del suo corso (Il.Xlll, 248 ) , e come il più eccellente difensore Digitized by {jOOQie — 173 — Strabone si narra che Diomede ritornò nell’Etolia, e riconquistò il suo regno di Argo dopo il ritorno dalla guerra trojana 70 ), altri scrittori con lo stesso Strabone lo fanno giungere nelle nostre re- gioni, e fondarvi non meno di undici città 71 ) , tra le quali Arpi, Luceria e Benevento furono le più celebri; e mentre dicevasi morto assai vecchio nella Daunia , e nell’ A rgolide 72 ) , o ucciso dal re Dauno 7S ), face vasi anche scomparire nel paese degli Eneti, o nella Venezia , dove ebbe i divini onori 74 ) , o nell’isola che n’ebbe il nome (l’odierna Tremiti), e in cui fu sepolto 75 ), benché Strabone quest’ultima narrazione tenne giustamente come favolosa. Oreste, preteso fondatore di Argo Orestico nell’Epiro 79 ), si disse morto a (IL XXIII, 860-83), venerato in Creta qual eroe, si è spiegato da Nork non solo per lo stesso nume dei Sole Idomeneo per la celerità della luce, e per la fecondan- te forza del raggio luminoso, ma anche per lo stesso Minosse, che da Giove x«- o parlatore, ricevè le leggi nell'an- tro del monte Ida, e perciò ebbe in ma- no la bipenne punitrice, come Merione ne'giuochi de’Greci per la morte di Pa- troclo ebbe in premio dieci bipenni (II. XXIII, 860) secondo il numero de'mesi dell'anno cretese, e perciò anche Idome- neo doveva per dieci mesi andare va- gando, ma pel Zodiaco. Il Cerano (koi- pxrot), cioè il dominatore, scudiero ed au- riga di Merione (IL XVII, 610), dallo stes- so Nork si è riferito a Moloch , il Sirio nume del Sole, o al Sole re, che su tutto domina nella natura, il cui culto i Cre- tesi dovettero avere da’Fenicii, come gli antichi abitatori della Sardegna e della Sicilia; cosi che Merione non fu altro che l’auriga del carro solare. E se Me- rione intender si dee per lo stesso Ido- meneo, ossia il Sole che sorge sull’Ida, (rto-pirifr), o anzi pel suo avolo Minos- se, si spiega perché Omero dalla freccia di Merione, cioè dal raggio fecondatore del sole di primavera , faceva uccidere Ferodo, figlio di Armonide (II, V, 59-68), il quale fabbricò la nave, sulla quale Pa- ride trasportò Elena (cioè la nave dell'an- no lunare , rappresentato dalla figlia di Zeus o di Leda) , ed Arpalione (IL XIII, 643-59), cioè il rapitore, il tempestoso, il distruttore sol hibernns, figlio di Pileme- ne, cioè il nume dell’anno Mencs, o Mi- nosse, al quale succede quello della pri- mavera; epiteti tutti di un solo e gran- de oggetto della natura, il grande e pos- sente figlio d'Iperione ( Hesiod. Theog. 370. Apollod. 1,,2, 3). 70) Hygin./ab. CLXXV.— Strab. X, p. 462.— Cf. Dict. Cret. VI, 2. 71) Strab. VI, p. 283 sq. — Iustin. XII, 2. — Plin. H. JV. III, 20. — Serv. ad Mn. Vili, 9, XI, 246. 72) Antonin. Liber. 37.— Strab. VI, p.285. 73) Tzetz. ad Lycophr . 602, 618. 74) Strab. V, p. 205, Cf. VI, p. 285. 75) Plin. H. N. XII, 3. 76) Strab. VII, p. 326. 23 Digitized by Google — 174 — Tegea nell’Arcadia, dove ne furono scoverte le ossa gigantesche, e trasferite a Sparta 77 ); ma si volle anche sepolto in Arida, don- de ne furono portate le ceneri a Roma, dove si tenevano tra i sa- cri pegni della città 78 ). Ma le ceneri, e le ossa di Oreste, furono certamente come le ossa di Teseo trasferite ad Atene da Cimone 7 *), e non si hanno a credere, che come le ossa de'giganti da Augu- sto scoverte nell’isola di Capri 80 ) , cioè di animali antidiluviani de’geologi. E chi vorrà credere alla Sirena Partenope sepolta nella nostra città, della quale fu creduta fondatrice? 81 ). Ma se si pensa che i Teleboi dall’isola di Capri, in cui eransi stabiliti, venendovi dall' Epiro, si unirono sul, nostro lido ai più antichi abitatori di Falero, e vi portarono il culto della Sirena, il culto di Parteno- pe ne spiega il sepolcro, al quale manipoli di spighe si offrivano da’ divoti Napolitani. Così ancora presso la città di Panopo nella Focide vedevasi il colossale sepolcro di Tizio , gigante o re di quella città, come dicono Pausania e Strabone M ). Se nell’Hades due avvoltoi si cibavano del suo fegato sempre rinascente “), per- chè rapita avea Latona, o la sua figlia Artemide 84 ), come poteva esser sepolto presso la città della Beozia? Ma le credenze popo- lari degli antichi Greci, accreditate da’poeti, non si curavano delle contraddizioni delle loro favole , ed un mito puramente calenda- rio ®) fu creduto letteralmente , e fu eretto il sepolcro a Tizio. 77) Paus. Vili, 54, 3.— Pbilostr. Her. 1,2. 78) Serv. ad Mn. II, 116. 79) Plut. Thes. 36.— Paus. Ili, 3, 6. 80) Suet. Aug. LXXI1. 81) Strab. I, p. 26. V,p.247.— PJin. H.N. 111,9,9. Par thenope a tumulo Sirenis appel- lata- Ma Strabone, meno forse di mezzo secolo prima di Plinio , non rioordò che il monumento *<*) della Sirena, e nel frattempo tra i due scrittori il monumen- to si potè credere un sepolcro, tanto più perchè vi si offrivano manipoli di spighe dagli agricoltori , il che non si potè fa- re senza credere che di fatto la Sire- na vi fu sepolta. 82) Paus. X, 4, 4.— Strab. IX, p. 422. 83) Homer. Odyss. XI, 576 sgg. 84) Hygin./aò.LV.— Euphor. ap.Schol. » Apollon. Rh. I, 181. 85) Tizio , figlio di Titea , o della Ter- ra , fu detto ucciso da Apollo e Diana (Apollod. I, 4, 1. Callim. H. in Dian. 110 , o dal fulmine di Zeus (Hygin. /• LV) per le dette cagioni , come Pytho - ne da Apollo, e si è spiegato colla suc- cessione della stagione luminosa al fan- Digitized by ^ooq le — 175 — Il gigante di Panopo, detto anche figlio di Elara e padre di Eu- ropa M ), per quelli che inventarono, o ne comprendevano l’allego- ria, non fu che il Sole Panopeo, che vede da per tutto (TlcLv-o'ffSvg), il quale rapisce, o fa scomparire la notte (Leto, o Latona), per- chè il sole vince la notte, alla quale succede, e fa il giorno; e ciò non ostante il Sole che succede alla Luna (Elara, o Ilaria), e ne è succeduto (Europa), da Omero sino a Pindaro almeno e ad al- tri poeti fu qual gigante rappresentato, e sino al tempo di Pau- sania si diceva sepolto presso Panopo. Bella è la poesia , ma spesso oscurava il vero, e propagava l’errore, o le false credenze; e sotto questo riguardo non aveva torto Platone di condannare Omero, ed avevano ragione Epicuro, Zenone e Maometto di condan- nare la poesia 87 ). Ed il vero si dirà, al contrario della tradizione e de’poeti, che furono le colonie greche quelle che nelle dette re- gioni, come in altre molte, portarono i culti e le memorie favo- lose de’loro Numi ed Eroi, e loro innalzarono tempii, monumenti e sepolcri; nè altrimenti spiegar si possono le fondazioni a Filot- tete attribuite nella, M. Grecia, delle quali la meno dubbia è quella di Melissa, nel cui nome fu ripetuto quello della metropoli de'co- loni Tessali, che vennero a fondarla. Ma se tutto questo dire non sembra dubbio , il significato del mito e della persona di Filottete rimaneva sempre per me oscuro, e mi fu d’uopo studiare i nomi del padre e della madre, per po- terlo in qualche modo comprendere , per la ragione che a cono- scere il significato di una persona mitica , giova o anzi si deve studiarne la genealogia 88 ). Non altrimenti pensava molto prima goso inverno , perchè Callimaco ( H. in Joo. 3) Tizio nominò yoto*, o anche per la successione del sole del giorno a quello della notte, o dell’ opposto emis- fero. 86) Homer. Odyss. VII, 324. — Apollod. I, 4,1. — Schol. Apollon. 1, 181, 761.— Pind. Pyth. IV, 81. 87) Vedi Plat. De Rep. lì et III, p. 603 sq., p. 614, et Lib. X, p. 751.— Cf. Hera- clid. Allegor . Homer . ed. Nic. Schow , Gottingae 1782, p. 10.— J. Reber, Platon u. die Poesie . Leipz. 1864. —Di Maometto si narra, che disse la poesia salterio del diavolo. 88) K. H. W. Vólcker , Die Mythologie Digitized by Google — 176 — di Volcker il dotto Benedettino Doni. Antonio Giuseppe Pernety degli Eroi in generale , e di quelli specialmente della Iliade ") , della quale se si è disputato e si disputa sì sottilmente, non si ri- corda almeno con Pascal, che narrava una guerra del pari favo- losa 90 ). Se dunque Filottete è detto figlio di Peante e Demonas- sa , che significano primamente, e a che alludono questi due nomi? Peante (IlaiaV) in Omero è il medico degli Dei, al quale ricor- rono Marte e Plutone feriti nel combattere 91 ). Poi dopo di Esio- do 92 ), IloucLv fu un cognome applicato, ora in un senso ristretto des Japetischen Geschlechts. Giessen 1826, p. 129: « Dio genealogien sind die Fàdc, « in welchen alle mythologische Unter- « suchung , als dem sicher leitender « Knàuel aus dem Labyrinthe verworre- « ner Mythen, sie abwinden mussen ». 89) Lesfables Egyptiennes et Grecques. Paris 1758, t. II, p. 497. « Il est bon de re- « marquer ici que tous les Héros doni * nous avons à parler , et dont nous a- « vons fait mention jusqu’ici, sont non « seulement tous descendus de Dieux « imaginaires et chimeriques, mais qu'ils « ont cela de commun, que leurs généa- « logies sont toujours composées de « Nymphes, de Filles de 1’ Ocean, ou de « quelques Fleuves », p. 505: « 11 est donc « à croire quo ces pretendus Hóros de « part et d’autres étaient de mème nato- ti re que les compagnons de Cadmus; et « qu'ils ont péri de laméme manière qu* « ils ont été cngendrés, c’ est-à dire, que « Pimagination des Poétes où ils avoient « pris naissance, lour a servi aussi de « tombeau ». 90) Pascal, Pensèes. Besangon 1828, p. 129.— Per diverse ragioni Michele Maier, alchimista, di Rindsburg nell’ Holstein (1568-1622) , cercò dimostrare favolosa la fondazione e la distruzione di Troja,e quindi anche la guerra che Omero ne narrò nell’Iliade. Queste ragioni sono: l.° perché favolosi sono tutti i fondatori di Troja, ed hanno l’origine dalle genea- logie di numi immaginarli; 2.° perchè sono del pari favolosi i re Trojani; 3.* per le cause finte e favolose dell’ assedio e della distruzione della città; 4.* pel tem- po in cui si dice avvenuto P assedio; 5.* pel luogo in cui si dice la città fondata; 6. # finalmente dalle condizioni, senza le quali la città non poteva esser presa. Queste condizioni furono l. # la presenza di Achille, e di Neottolemo suo figlio; 2.* la presa del Palladio; 3.* uno degli ossi di Pelope; 4. # le ceneri di Laomedonte; 5.* le freccio di Ercole; 6.° i cavalli di Re- so; le quali tutte al solo annunziarle so- no favolose; e l’esame se ne trova in tut- to il VI libro di Maier, p. 245-285: Arca- na arcanissima , hoc est tìieroglyphica Mgyptio-graeca vulgo nccdum cognita* Anno salutis humanae 1614 in 4. 91) Homer. IL V>401, 899. 92) Eustath. p. 1491, 12. Digitized by ^ooq le — 177 — / ad Esculapio **), come nume della medicina, ed ora in più ampio ad Apollo, come nume che liberava da ogni flagello M ). Anche la morte (0ava?Ty)p) senza che nien- te sembra potersene concludere riguardo a Filottete, eccetto che, siccome nell’ isola di Lenno sotto il nome di Iasone si adorò il Sole, che vi maturava le uve, con cui facevasi il vino, che abbon- dò nell’isola 102 ) , così pure vi si adorò la madre terra che con le altre piante nudriva le viti e le uve che lo producevano, in pruova di che giova ricordare che a Lenno si adorarono i Cabiri m ), tra’quali si notano Demeter e Persephone , cioè la madre terra e la vegetazione. E la stessa Ipsipile, figlia di Toante, e regina di Lenno, con cui Giasone procreò Euneo e Nefrobono 1M ) , con questi suoi figli , e collo stesso suo padre, re della detta isola I05 ), si riferisce al mito solare di Giasone ; perchè Ipsipile col suo nome allude alla su- blime porta (T-^i-'irvXri) dell'anno, dalla quale il sole passa alla stagione dell’ariete; Euneo è il buon navigante , cioè Giasone, pi- lota della nave Argo , la nave dell’anno, o del tempo; Nebrofono è l’uccisore del cerbiatto, o della tigre, simbolo dell’autunno m ) ; e Toante , o il veloce (Sbtxg), è predicato di Ares, odi Marte, col segno della veloce saetta adorato in Abdera, in cui anche Giaso- ne ebbe un tempio 107 ). Inutile è distinguere un altro Toante, sup- posto figlio di Giasone e d’Ipsipile e fratello di Euneo 108 ), con al- tri cinque personaggi dello stesso nome, di cui parlano altri poe- ti , mitologi e scoliasti 109 ) ; e se Toante è anche detto padre di Sicino no ) , fu forse per le relazioni di origine e di culto di que- 102) Omero da Euneo, figlio di Jasone e d’Ipsipile, fa di vino provvedere gli A- chei che assediavano Troja {IL VII, 467) 103) Acusil. ap. Strab. p. 472.— Cf. Hau- pt, De religione Cabiriaca. Kònigsberg 1884 in 4. 104) Apollod. I, 9, 17. — Pind. Pyty. IV, 448. — Hygin. /ab. 15, 74. 105) Homer. IL XJV , 230. — Diod. Sic. V, 79. 108) Winkelmann, Opp. II, p. 569. 107) Natal. Com. Myth. VI, 8. 108) Homer. II. XXIII, 745.-Schol. Stat. Theb. IV, 771. 109) Lo stesso* Omero ricorda ancora Toante, figlio di Andremone e di Gorge, e re degli Etoli , dal quale faceva con- durre non meno di 40 navi contro Troja {IL II, 638 IV, 529, XIII, 216, XV, 281). 110) Hygin. /ab. 15, I20.-Schol. Apoi* lon. I, 624.— Tzetz. ad Lycopkr. t874. Digitized by t^oo le — 179 — st'isola del mare cretese m ) con Lenno; e da tutte le riferite spie- gazioni si vede da che s’ immaginarono tanti personaggi mitici , allusivi all’astro maggiore, e a’ suoi diversi attributi , o passaggi in stagioni diverse. E che ancora dinota il nome stesso di Filottete, quale può dir- sene l'etimologia? F. Nork, il quale il nome del padre deriva da 'TTO/ècd, e lo spiega in conseguenza per creatore, quello del figlio dice significare amico del tesoro (tXoXTyjTrjS sembra sinonimo di IAOKTHTHS 125 ). Se dunque Giasone fu Filottete, come quegli almeno che amò il vello d’oro, spiegazione dell’ allegorica spedi- zione, abbiamo tre nomi dello stesso eroe puramente solare, i quali nella mitologia divennero tre personaggi diversi. Or lo stesso av- venne di Eracle, altro nome del Sole. E se non è dubbio che Heracles, o Hercules, non fu altro che il sole, come sapevasi fin dal tempo di Macrobio 126 ), e molto pri- ma di Macrobio dall’autore di un inno Orfico ad Ercole, come dirò in seguito, il supposto eroe non fu mai al mondo, nè vi fu mai Filottete, e in conseguenza non venne nella regione de’ Coni, ma vi venne soltanto la colonia de’ Tessali, che vi portò la memoria dell'eroe favoloso. Gli antichi popoli e le loro colonie nel tramu- tarsi da una in altra contrada, o regione ripetevano i nomi delle loro metropoli nelle nuove città che fondavano, od in queste an- cora riproducevano naturalmente i culti de’ loro numi ed eroi; e fra molti esempi dell’un fatto e dell’altro giova ricordare che, sic- come i Sicoli molto probabilmente per la sterilità del loro pae- se 127 ) dalla Tracia si condussero in Italia, perchè Esichio ricorda la Sicilia come regione della Tracia 128 ), così poi nel passare nel- l’isola, che ne prese il nome, ripeterono anche i nomi delle città di Agatirso e di Adirano della Tracia, di cui furono originari! m ). 124) K. H. W. Vòlcker, Op. cit. p. 222. 125) Sul detto vaso Giasone, stando in- contro ad Eete , che lo aveva mandato a conquistare il vello d’ oro ha il nome di Filottete (E. Gerhard, Noticc sur le vo- se de Midia3 au Mus. Brit. Berlin 1840; il che o significa amante del tesoro, in quanto viene dal rapire il vello d’ oro (O. Jahn, Archèol . Au/b. 1845), o ripilki* (Medea) *r*/c«rof (Wieseler, Zeitschrift fùr A Itcrth. 1847, p. 844). 126) Saturn. V, 21. 127) P. Mela II, 2, l. 128) Hesych. v. Siimi A ia: . 129) Vedi Stefano Bizantino su queste città. Digitized by ^jOoq le — 183 — E così pure il demo dell’ Attico Tithras ripetè il nome identico della madre patria nella città di Titraso sul lago Tritone nella Libia, e con questa il culto della dea di Atene 1S0 ). Cuma e Locri, e le città fondate dagli Arcadi , e la stessa Troja riprodotta nel Lazio m ) , non sono un esempio simile? Avvenne lo stesso nella fandazione di Melissa nella M. Grecia , nella quale fu riprodotto il nome deH’omonima città della Tessaglia, donde i coloni si par- tirono per venire in Italia; e siccome il motto d’ordine, per così dire, de’Greci coloni furono i nomi de’loro Numi, e degli Eroiche venerarono, così nella M. Grecia fu da’ Tessali portato e ripetuto il nome di Filottete. In somma, se nella M. Grecia fu la piccola città di Melissa, della quale tuttavia dura il nome nella Calabria , una colonia di Tessali venne a fondarla col nome della metropoli , non già un personaggio col nome di Filottete; ed è questa la cosa più nota- bile ch’io voleva riferire si per l’origine di Melissa, sì pel nome che quasi più degli altri de’supposti fondatori delle nostre città si ripete nella Calabria dopo tante N accu rate ricerche fatte su’monu- menti , che tramandavano la memoria dell’ eroe favoloso , come quelli d’Idomeneo, Diomede, Enea ed Ulisse. E se non fu Omero l’autore del mito di Filottete, perchè il catalogo delle navi, in cui se ne parla, fu di un altro poeta secondo l’ipotesi di Bergk, si può dire che fu all’Iliade aggiunto da Aretino, il quale in conseguen- za immaginò Filottete; e se non è questa una giusta illazione dalla premessa ipotesi , i dotti mitologi diranno più conseguentemente chi fu il vero autore del mito in quistione. Prima di finire osservo ancora , che il sepolcro di Filottete a 130) Steph. Byz. v. T&fat. — Suid. v. 131) Per la Troja nel Lazio , o per le varie città di questo nome in tale regio- ne, perché anche Laureato ed Ardea fu- rono dette Troja , vedi Livio , Dionigi d’Alicarnasso, Servio (ad .tin. 1,0. VII, 158, XI, 316), e Stefano Bizantino, v. *Af- $**); ed Astura , che ricorda Astira del- l'Asia Minore, conferma la tradizione del- la venuta de' Trojani nel Lazio, e nella Venezia, dove anche fu un borgo col nome di Troja (Liv. 1,11). Digitized by Google — 184 — Macellici fu come il sepolcro di Sisifo a Corinto 1S2 ), e come i tre sepolcri di Euristeo fuori la regione, in cui ebbe dominio, secondo la favola. Se il supposto re di Argo fu sepolto a Gargetto , pago dell’Attica, ed il suo capo a Tricorito, città della stessa regione 1S3 ), come dicevasi anche sepolto presso Megara sulla via che mena- va a Corinto ? m ). Anche Orfeo si disse sepolto a Pieria sull’Olim- po m ), ed a Libetra nella Macedonia , donde ne furono traspor- tate le supposte ceneri a Dio nella stessa regione, dove si serba- vano in un’urna posta sopra un’alta colonna m ) ; e non si disse ancora, che il capo ne fu scoverto da un pastore sulla sponda del fiume Mele presso Smirna? 1,7 ), e non se ne mostrava il sepolcro anche a Lesbo ? 188 ). Perchè diverse città celebravano le feste fu- nebri dell’anno che terminava, o del sole d’inverno, dicevasi che serbavano le ossa , o le ceneri di Orfeo, il cui nome corrisponde appunto al sole retrogrado dell'inverno, lo stesso che Licurgo e Dionisio opfòvg di altre simili favole allegoriche. L'immagine di Orfeo, dice Pausania, si vede allato a quella di Dioniso ne’tempii di tutta l’Ellade 1S9 ), il che dà pur ragione delle ceneri di Dioniso serbate in un tripode nel tempio di Apollo a Delfo 140 ); e notabile è ancora la testimonianza di Diodoro, che Orfeo dall’Egitto attinse i misteri di Osiride M1 ), per la simiglianza de’ dogmi , delle sacre istituzioni, de'rituali e de’misteri orfici a quelli de’sacerdoti egizii. E se è più noto, che si figurò il Sole secondo le stagioni diverse sotto le forme de'diversi segni del Zodiaco, ne’quali passa succes- 138) Paus. II, 2, 2. 133) Strab. Vili, p. 373.— Iolao, che Io seppellì dopo aver vinto Euristeo , fu supposto come Iolao, che condusse una colonia nella Sardegna (Diod. Sic. IV , 29), cioè lo stesso che Ercole , come fi- glio d’Iflcle, cioè il forte , analogo al no- me orientale di Iolao , che dinotò lo stesso. 134) Paus, I, 44, 10. 135) Apollod. I, 3, 2. — Anthol. pai. 7, 9. 136) Eratosth. Cataster. 24.— Paus. IX, 30. 137) Conon. Narr. 45. 138) Hygin. P. Astr. II, 7. — Serv. ad Georg. IV, 525. 139) Paus. V , 26, 3. 140) Vedi Chr. Petersen, Der DelpMsche Festeyclus des Apolloa und des Dionysos. Hamburg 1858. 141) Diod. Sic. 1,23. Digitized by v^oogie — 185 — sivamente 14J ), è notabile che Tinno orfico ad Ercole tali segni fa percorrere da Ercole , non dal sole , appunto perchè Ercole ed il sole furono per gli antichi Greci gli stessi , e con le XII fatiche di Ercole si simboleggiò il passaggio del sole ne’diversi segni. Nel detto inno orfico Ercole è invocato co’ titoli di Aio\ó[Aop(pe , e di fjpQV 8 / 7Ta?sp, di varie forme , e padre del tempo , 'Tra.yyBVZ'top, nrcLWTrspftOLXri , nroiciv dpioys , padre del tutto , altissimo , e di tutti soccorritore , attributi proprii del sole , il quale del resto compie le XII fatiche sotto il nome del supposto eroe : Acbhx’ d'ir' dvntoXuìv dyjpi Bvv aS-Xa Bispir oov. Non altrimenti l’egizio Nonno dice ‘Ercole vestito di stelle, e pren- ce del fuoco e del cosmo: ’ Atrrpoyjrw H poLxkr,g a.va£ n rvpvg, xotrptH 14S ), e non è forse da dubitare che gli egizii sacerdoti furono i primi autori del mito , o del simbolismo di Ercole 144 ) , il quale passò a'Fenicii nel culto di Melkarth, o del sole, detto anche ’AgiCLVOL%, ossia principe, o re della città, a Tiro, e padre di Cartagine ,4S ) , fondata da’coloni di Tiro, perchè vi fu venerato oltre ogni crede- re 14 *), e vi era considerato qual fondatore, come Filottete fu detto fondatore di Melissa, ed Ercole di altre città, come di Carteja e di Gades nella Spagna 147 ). Ma Nicolao Damasceno , vissuto nel 142) Jambl. De Myster. ^Egypt . VII , 3 , p. 253, ed. Partliey, Berol. 1857.— Cf. Ma- crob. V, 21. 143) Nonn. Dionys. XL, 1038. 144) Nell’Egitto Erede fu detto , lo stesso che il nume del tempo de’Moabi- ti detto Chiun (Amos 5> 26) o Cheoan , os- sia preparator , o creator , o il sole nel segno deH’ariete (Nork,v. Chion, e Chon). 145) Cic. De Nat. D. Ili, 16. 146) Strab. XVI, p. 757. 147) Timosth. ap. Strab. Ili, p. 140. — In una medaglia di Commodo si vede Er- cole in atto di tenere un aratro, coll’ iscri- zione Fundator. Claud. lui. ap. Etym. M. v. Afx«As»*> detto tiglio di Fenice, il qua- le spiega V Archelao, nipote di Ercole> e mitico fondatore di Egina(Hygin. fab- \ Digitized by t^oogie — 186 — secolo anteriore all’èra cristiana, diceva che Ercole e Crono sono gli stessi 148 ), nè per altra cagione, come sembra, se non perchè Ercole fu il nume deiranno, come Giano, e gli anni moltiplicati sono il tempo, o Crono, il tempo passato e l'avvenire. Sotto l’im- magine di un serpente che si attortiglia intorno al Zodiaco gli Or- fici figuravano la circomvoluzione del tempo, ed il serpente circo- lare è detto il nume dell’eternità da Servio 149 ). Senza ripetere le favole di Osiride, si chiaramente allusive al sole secondo le spie- gazioni di Diodoro e di Plutarco, dico soltanto che il sepolcro di Osiride mostra vasi in diversi Nomi, o regioni dell’Egitto, da per tutto ove alla fine dell’anno celebravansi le misteriose feste fune- rali dell'anno già scorso; ed il sepolcro di Osiride nell’ isola di File ne’ confini della Nubia era circondato da 360 urne, in una delle quali ogni di offrivasi latte al nume 16 °). Queste libazioni cor- rispondono alle libazioni simili che facevansi nella Grecia nelle feste de’ defunti 151 ) ; e nel gran tempio di Osiride della città di Acanto nello stesso Egitto 360 sacerdoti, probabilmente uno per volta, uno in ogni di, versavano l’acqua del Nilo in un gran vaso forato I52 ), per indicare cortamente il ciclo dell’anno, o del tempo, o i giorni dell’anno dal sole prodotti. Il numero delle urne e dei sacerdoti corrisponde a’360 compagni di Ercole 1M ), e questi e quelli ai giorni dell’anno, senza contare i giorni epagomeni, o aggiunti, per compirne il numero giusto di 365, i quali furono da’sacerdoti egizii festeggiati in onore di Osiride , e di quattro suoi fratelli e sorelle 154 ), corrispondenti alle quattro stagioni. Un’antica tradizio- 219) . Ma come il sole» che promuove la v eget&zione , fu considerato come fon- datore delle cose naturali, perché in una medaglia di Commodo si vede Ercole in atto di tenere un aratro coir iscrizione Fundator (Voillant, Med. imp. ili, p. 147), in questo senso fu con Crono analogo a Saturnus, il quale fa maturare i frutti. 148) Nork, t. II, p. 273. 149) Ad Mn. HI, 104. 150) Diod. Sic. I, 22. 151) JSschyl. Pers. 590-93. — Soph. EUctr. 894.— Eurip. Orest . 115. 152) Diod. I, 97.— Sirab. XVII, p. 809. 153) jEJian. V. H. IV, 5. 154) Diod. Sic. I, 13. — Piu». De Y.el Oeir. 12. Digitized by ^jOoq le 187 — ne racconta, dice Macrobio, che. EJrcole si servì di una tazza come di una nave per valicare mari immensi. Paniasi e Ferecide nar- ravano che fu sopra una coppa trasportato all’isola Eritea 155 ), e più chiaramente per la intelligenza del mito Apollodoro dice, che nella coppa del sole passa sitjo alla fine del mondo 156 ). Ma l’isola Eritea, sulla quale regnò Gerione, è un’isola favolosa 157 ), dall’oc- cidente in generale fu trasportata o identificata a Gades, o Gadi- ra (la città del confine), o non lungi da questa città, presso la costa occidentale dell’ Iberia, e sin nell' Epiro tra Ambracia ed il paese degli Amfilochi 158 ); e Gerione, o il vecchio (Tripv&V in vece di Triptav), vinto ed ucciso da Ercole, non si è spiegato, che pel sole d’inverno, superato da quello della nuova stagione; così che s’intende chi è Ercole, che portò nel Lazio i buoi di Gerione 159 ), il pastore a tre corpi di Eritia 16 °). La coppa nel simbolismo egizio fu la nave di Osiride, o la grande nave d’oro consecrata nel tem- pio di Sesostri a Tebe m ); benché Osiride, che governava la nave del sole per gli Egizii, più giustamente per Aristotele è Dio, che governa il mondo I62 ). Le 52 figlie di Tespio nella città di Tespia della Beozia, colle quali Ercole generò altrettanti figli 183 ), corrispon- dono alle 52 settimane dell’anno bisestile, come i XII figli che gli attribuiva Igino 144 ), corrispondono ai mesi dell’anno in generale. Tali favole allegoriche confermano la spiegazione del mito di Ercole pel Sole, come Ercole che ferisce Giunone 165 ) si riferisce alla stes- sa allegoria, perchè l’aria turbulenta è diradata dalle solari saet- te 16# ). Nè meno ad Ercole corrisponde Iolao, che condusse i figli 155) Macrob. Sat. V, 21. t.II ed. Pane- koucucke, p. 185. 156) Apollod. 11,5, 10. 157) Strab. Ili, p. 168. 158) Hecat. ap. Arran. Exp . Alex. 11,16. 159) Strab. V, p. 230. 160) Eurip. Hcrc./urens 423.— Cf. Virg. JEa. Vili, 202. 161) Diod. Sic. I, 57. 162) Aristot De mundo cap. 6. 163) Apollod. II, 7, 8.— Paus. IX, 27, X, 17.— Athen. XIII, p. 556 sq. Diod. IV, 29. Sul significato del mito di Tespio v. Mul~ ler, Dor. I, p. 435, e Nork v, Thespius. 164) Fab. CLXII. 165) Horaer. II. V, 391. 166) Heraclid. Alleg. homer. c. 34. Digitized by ^jOoq le — 188 — d’Èrcole nella Sardegna, e dal quale alcuni villaggi detti erano Iolei nella detta isola, in cui Ercole al tempo di Pausania aveva i divini onori, come presso i Tebani 147 ). Ma egli sembra che Pau- sania , o la tradizione, ricordava in una le due colonie passate nell'isola, l’una de’Tespiadi della Beozia, e l’altra de’Fenicii Iolei, così detti dal semitico Ioleo, ossia il forte, corrispondente aH’AZ- cide de’Greci, sotto il qual nome adorarono Ercole , personificato nel supposto suo compagno Iolao 148 ), sebbene lo stesso Pausania racconta, che il favoloso Norace condusse una colonia d’Iberi nella Sardegna 199 ), perchè una colonia de’Fenici di Tiro passò nell’Ibe- ria, e vi fondo Gades, o Gadira, donde venne nella stessa isola, e Sallustio dice, che nella città iberica si condusse Io stesso Er- cole 17 °). Gli antichi dicevano spesso le colonie condotte da’ Numi adorati da’ coloni , che lasciando la patria si stabilivano in altre contrade, ed un esempio celebre tra molti se ne ha nella colonia che volevasi da un Greco condotta a Roma, il quale vi diffuse la greca civiltà, e propriamente dal fuggiasco col nome di lanus (o Dianus), il quale vi venne dalla Perrebia m ) , regione della Tes- saglia, abitata da ’Perrebi sì travagliati da’Lapiti, il che è da in- tendere della colonia condotta da’Pelasgioti, gli stessi che i Per- rebi secondo Simonide 172 ) , e fondatori di Roma secondo Plutar- co 17S ), ma dopo gli Arcadi, che prima vi si erano stabiliti, e che si dissero condotti da Evaodro, ossia Ermete m ), non direttamente dall’Arcadia, ma dalla città di Pai/ansio, che fondata avevano nella regione degli Aborigeni, nominata dalla città omonima dell’Arca- 167) Paus. VII, 2, 2. X, 17,5. Cf. IX, 23, 1, 168) Hesiod. Scut . Herc. 103, 313.— Apol- lod. II, 5, 2.— Eurip. Heracl. 217.— Schol. Pind. Pyth, IX, 83 (137).— Diod. IX, 49. 169) Paus. X, 17, 4.— Norace, mitico fon- datore di Nora , e figlio di Ermete Ctonio, cioè attributo di questo nume , da rap» , lo stesso che xap», nascondere, é spiega- to pel padre de'Lari. 170) Sallust. De B. Iugurt. 18. 171) Plut. Quaest . Rom. XXII. — Draco Corcyr. ap. Athen. XV, p. 692. 172) Strab. IX, 441 —È importante che i Perrebi sono detti stranieri dallo stesso geografo (1, p. 61). 173) Plut. Romul. 174) V. Nork. v. Euander. Digitized by ^ooq le — 189 — dia , il cui nome fu del pari riprodotto sul Palatino 175 ). Come i coloni di Tiro portarono il culto di Ercole a Cartagine ed a Ga- des 1TO ), cosi la simile colonia fenicia portò il culto del Sole a Tebe nella Beozia,, nominata probabilmente dalla Tebe egizia, dove fu il culto simile, perchè vi fu adorato il nume solare Memnone 177 ). Questo Memnone, come figlio del nume del sole Titone e dell'Au- rora, come fratello di Emera, del nume del sole Ematione, e del luminoso Fetonte 178 ), si conosce chiaramente pel nume del sole, il che confermano le colonne di Memnone, allusive ai raggi sola- ri; e s’ingannarono Eliodoro e Simonide, che lo dissero re, e se- polto presso il fiume Balta nello Siria m ), e meglio valgono le te- stimonianze di Oppiano e di Filostrato , da’ quali sappiamo che ebbe un tempio nell’Assiria, ed ebbe a Tebe i divini onori 18 °). Non altrimenti che i Fenicii di Tiro portarono il culto di Ercole colle loro colonie, così i coloni Fenicii, i coloni Tessali , i coloni Iolei ed i Pelasgi portarono i culti di Cadmo nella Beozia, di Ercole , di Giano, e di Filottete in Italia. Ma Cadmo, Ercole, Iolao, Giano e Filottete non vissero mai nè nella Fenicia, nè nella Grecia, o in Italia, perchè non furono che i Numi delle colonie, o alle colonie relativi; così che, se i numi, o gli eroi, supposti fondatori di molte città, non ci mostrassero debitamente spiegati, le colonie e le ori- gini delle città e dei popoli, non si avrebbe che fare di tutti i miti del mondo, ed era questa la cosa che ricordare io voleva in pro- posito di Filottete nel dedalo delle favole e delle tradizioni degli antichi. Per venire alla mia conclusione io ricordar dovea le cose ante- 175) Liv. 1, 5.— Virg. JBn. Vili, 53.— Au- rei. Vict. Orig. G. R. c. 5. 1 Greci dissero Ermete nato nell’Arcadia (Paus. Vili, 17), perché vi fu adorato , ma è da ripeterne l’origine nell’Egitto, dove si adorò col co- gnome diTrismegisto, per tutte le gran- di invenzioni che gli furono attribuite , quelle della scrittura, della musica ecc., con cui beneficò i mortali. 176) Herod. II, 43. 177) Strab. XVII, p. 816. 178) Apollod. Ili, 12, 4. 179) Heliodor. JEthiop . IV, 8.— Simonid. ap. Strab. XV, p. 728. 180) Oppian. Cyneget. II, 151.— Philostr. Vit. Apollon. VI, 4. 25 Digitized by ^jOoq le — 190 cedenti, e spero non essere incorso nel difetto di dir cose diverse nel trattare di una cosa sola, perchè tutte mi sembrano connesse col soggetto principale di questo breve studio. E per non trala- sciare qualche altra considerazione , la quale conferma tutte le altre, soggiungo da ultimo, che Cicerone de’ sei Ercoli che cre- dette distinguere, il più antico dice quello che nacque da Lisi- toe 181 ). Ma questo Ercole si riduce allo stesso Ercole di Tebe, nato da Alcmena, sì per questo nome, che indica la forte Mena (AXx- [ xt/VX ) de’ Greci, o la Luna, così detta perchè indica i mesi, ed è la stessa che Lisizona , cognome di Artemide ed Ilitia 182 ), con tal nome adorata in Atene 188 ) , cioè la pronta levatrice (AuO'J-S'oy]) , perchè credevasi che presiedeva a’ parti ed assistere le parto- rienti m ), sì perchè la stessa dea fu distinta col nome simile di Lisidice, c si disse madre di Alcmena 18S ). Al periodo oscuro del- l'astro minore allude il racconto, che Alcmena dopo la morte dei suo consorte Amfltrione passò nel regno delle ombre a spo- sar Radamanto 18# ); e per l’origine del mito di Ercole dall'Egitto giova pur ricordare il mito ed il simbolismo di Galantide , o Ga- lintia, figlia di Preto , re di Argo 187 ) , che si riferiscono alla dea di B ubasti nell’Egitto 188 ), la stessa che l’ Artemide de’ Greci, e la Diana de’Latini. Il mito faceva ancora da Preto ed Antea, o Steno- bea, procreare Lisippe, Ifinoe, ed Ifìanassa 18# ), le quali colle loro 181) Cic. De N. D. Ili, 16.— Cf. J. Lyd. , De mens. 182) Theocr. 17, 60. 183) ,Schol. Apollon. 1, 287. 184) Homer. Odyss . XIX.— Poi si distin- sero due Ilitie per le due attività ecc. V. Jacobi. 185) Schol. Pind. 01. VII, 49. 186) Apollod. VI, 4 , 11.— Antonia. Lib. XXXVIII. 187) Antonin. Lib. Met. XXIX.— Galintia è un nome derivato da la mustela, detta ancora alkyftt , ed Ovidio (Met. IX , 306) nella metamorfosi simile chiaramen- te nominò sorella di Febo la mustela istes- sa, che alludeva a Diana . 188) Pel simbolismo della dea di Bu- basto vedi Erodoto (li, 86, e 137), Orapol- lo ( Hieroglyph . c. 10, e Stefano Bizantino (V. B ufiaarot). 189) In vece d’ Ifinoe ed Iftanassa Ser- vio nominò Ipponoe e Cirianassa ; ed E- liano (V. H. Ili, 42) non attribuì a Pre- to, che le due figlie Elege e Celene . Digitized by L^oogie 191 madri e da'loro nomi si comprende a chi siano da riferire 19 °). Le moltiplici genealogie de’ personaggi mitici alludono per lo più a certe unità, che per le cose dette lascio indovinare, per non ripe- tere le cose stesse ; e chi da Preto risale ai supposti re anteces- sori di Argo, termina ad Egitto. Abante ('Afia-g), figlia di Meta- nica 1M ), e padre de’gemelli Preto ed Acrisio, è Apollo Afidìog 192 ), il quale è insieme il nume deila primavera Preto ( Tlpoiróg per Jlporros), Primus perchè da lui incominciava ii nuovo anno) , e l’infecondo inverno , che lo precede 193 ). Alla primavera succede l’està, che abbrucia la vegetazione , e in cui i giorni cominciano ad esser più brevi, e perciò Megapente (o il Gran Penteo, Msya- Ilsv^r/S da ntWòog, luctus ) fu detto figlio di Preto, e suo succes- sore nel regno di Argo 194 ). E siccome anche si parla di Preto , figlio di Tersandro, e padre di Mera (Maipo.) m ), con tali genea- logie si alludeva alla stessa stagione, perchè Mera , o la lumino- sa, e perciò ’Apyr,, è la Canicola 1M ), o la luminosa stella Sirio, che comparisce addì 20 luglio, e Tersandro (Szp, della Fenicia 21 *), di Ti- 211) Heinrich Freiherrn von Maltzan , Rei&e aufder Insel Sardinien. Lepzig 1869, p. 97 e 98. 212) Von Maltzan , Op. cit. p. 113 e sq. 213) Ovid. Fast. VI, 812.— Suet. Oct. 29.— Serv. ad Mn. 214) PI ut. De creai, animae etc. 33. 215) Diod. Sic. 1, 23.— Paus. IX, 11, 2. 216) Diod. Sic. IV, 2.— Cf. Strab. VII, p. 321, XIII, p. 401. Importante ò ancora l’osservazione di Strabono nel primo pas- so citato , che manifestano un* origine barbara, cioè non greca, i nomi di Ce- cropi, Codro, Scio ecc. nella Beozia. Digitized by ^jOoq le — 195 — ro 217 ), e di Sidone 218 ), e che dall’Egitto e dalla Fenicia portò nella Grecia l’alfabeto di 16 lettere 219 ), fu insieme la personificazione del Sole e degli Orientali che ne diffusero il culto con la coltura e le cognizioni proprie , delle quali il primato mi sembra doversi at- tribuire all’Egitto collo stesso culto del nume, analogo a quello di Oro, e di Apollo, di cui gli antichi già riconobbero l’identità coi detti numi egizii m ). E sembrami in somma che il culto di Cadmo si sviluppò e s’immedesimò in quello di Ercole, perchè furono gli stessi , come Oro fu simile a Diom o Som , perchè Erodoto dice chiaramente che l’Èrcole greco fu una copia dell’Èrcole egizio 221 ), e perchè nella città di Tebe della Beozia, nella quale dicevasi giun- to Cadmo, e dove assicuravasi esser nato Ercole, fu ripetuto, come ho detto, il nome di Tebe dell’Egitto, non altrimenti che altri po- poli ripetevano in altre regioni il nome della loro patria , e può esserne un esempio tra i molti quello di Acanthos dell’Egitto col tempio di Osiride ed il boschetto della spina Tebaica ***) da’Pelasgi ripetuto , come io credo, nella nobile città di Spina nella Gallia cisalpina sull’Adriatico, il che è anche confermato dal tesoro dei Spiniti mandato al tempio di Apollo a Delfo 22S ). Co’ nomi delle città si ripetevano anche i culti de’ numi e i miti a questi cor- rispondenti delle colonie che si stabilivano in altre regioni ; e la circostanza che un gran mostro marino inghiottì Ercole 224 ) , come il pesce Ladon (l’occultante, da Xa^u;, lateo) nel mese egi- zio Athir , che corrisponde a novembre , inghiottì il phallus di Osiride, indica chiaramente dove sia da ricercare la prima origine del mito di Eracle, benché il solo nome ne sia greco, perchè es- 217) Herod. II, 49.— Eurip. Phoen. 639. 218) Eurip. Bacch. 171. — Ovid. Mct. IV, 571. 219) Herod. V, 58 sq. — Diod. Ili, 67. V, 57.— Plin. H . N. VII, 56.— Hygin./a6. 277. 220VDiod. I, 25.— Plut. De Is. ctOsir. 12, 61.— iEIian. H. A . X, 14. 221) Herod. II, 43 f 222) Strab. XVII, 809.— Il boschetto del- le spine egizie sacro ad Apollo si ripe- teva anche nella città di Abido nella Te- baide (Strab. XVII, p. 873). 223) Strab. V, p. 213. IX, p. 421. - Cf. nota antecedente. 224) Schol. Lycophr. 33. Digitized by Google — 196 — sendo detto gloria di Hera, o Giunone (‘Hpa-xXyjs), secondo la fìsica spiegazione degii Stoici; tale denominazione non può appli- carsi, che ai Sole, il quale è gloria dell’aria, o degl’immensi spa- zii celesti. L 'Ercole Sem, o Som, degli Egizii, con corpo di ser- pente e con testa di leone ® 25 ), come si vede anche tra gl’idoli sco- perti nella Sardegna 92# ), è lo stesso che V Ercole Semo , venerato a Roma come Sanchus, cioè Santo, sul Quirinale 227 ), e si riferisce ai giuramenti. Un inno ad Ercole compie la dimostrazione, che il supposto eroe non sia altro che il Sole , perchè è invocato nel seguente modo: O Astrochito Bracle , re del fuoco, Del mondo prence e duce, o Sole, eterno Della vita mortai regolatore, E che Vombre dilegui di lontano , ColVigneo disco percorrendo i poli L'anno, del Tempo figlio, circolando Co'dodici suoi mesi riconduci. DelVempiro tu l'occhio , che rischiari Col mondo tutto, con la tua quadriga Dopo Vautunno riconduci il cerno, E la state dappoi la primavera. Belo sulVBufrate sei tu detto, Ammone nella Libia, e sul Nilo Tu Api sei, e nell* Arabia Crono, Si come nell 1 Assiria sei tu Giove . 225) Creuzer, Symb . Ili, p. 309 sg. 227) V. Liv. Vili, 20. 226) Von Maltzan, Op. cit . Digitized by ^jOoq le — 197 — Ed o che il dio Serapide tu sei, Il Giove senza nubi dell 1 Egitto, O il Tempo, o Fetonte in varii nomi, O Mitra ancor, di Babilonia il Sole, O V Apolline Delfico d&Greci, O sii Peone ancor, che il dolor calma, O VElere smaltato, che Astrochito Si noma, perchè il cielo nella notte Dal tuo stellato ammanto è rischiarato. Benevolo mi ascolta , e del mio priego La voce or tu accogli ed esaudisci . L’inno, non diverso da quello di Orfeo, è di Nonno di Panopoli nell'Egitto 928 ), il quale come conoscitore e del nume e del mito, ben sapeva quello che dirsi non altrimenti che l'autore dell' inno orfico , il quale dopo aver celebrato Eracle qual valoroso e pos- sente Titano, qual padre del tempo, infinito, supremo e vigoroso rigeneratore, e come quello che riconduce l’aurora, conchiude col dire , che dall’oriente all'occidente compie dodici imprese, che sono le note fatiche (a^Xa) dell’Èrcole greco. Eccederei i limiti prefissi a questa breve memoria, se io volessi avventurarmi a venir considerando, anche con alcune spiegazioni già date, tutti i nomi de’molti figli di Ercole, non meno che quelli de’congiunti della supposta madre del supposto Eroe, come de’dilei nove fratelli, de’ quali si desiderano le spiegazioni delle allusioni, o allegorie; ma non credo dovermi dispensare di riferire quanto nar- ravasi del sepolcro della stessa sua madre Alcmena , perchè dà ragione di altri monumenti , o sepolcri simili , a cominciare da quello di Osiride m ) t che sembra d’essere stato d’imitazione a tutti 229) Dionys. XL, 1038 e sgg. in diversi Nomi, o regioni dell’ Egitto, 230) Il sepolcro di Osiride mostravasi da per tutto dove nella fine dell’anno in- 26 » Digitized by t^oogie 198 — gli altri. « Fu trovato, dice Plutarco , con le reliquie del corpo di Alcmena con manille di rame non grandi , e due anfore di terra cotta, le quali erano piene di terra, dalla lunghezza del tempo in- durita, e divenuta marmo. Da un canto del sepolcro si trovò una tavola di rame con molte lettere maravigliose , cioè antichissime; dalle quali, benché dopo nettato il rame si vedessero chiaramen- te, non si potè cavare costrutto alcuno; perciocché la loro figura, e la forma de’caratteri era a un certo modo separata dall'altre, e barbara (cioè non greca), e simigliantissime a quelle degli Egi- zii » 28 >). Il sepolcro trovavasi ad Aliarto 232 ), e Plutarco prosegue a dire, che Agesilao re di Sparta, dopo aver fatto levar le reliquie, e portarle a Sparta, mandò copia di quelle lettere al re dell’Egit- to, pregandolo mostrarla ai sacerdoti, se per avventura potessero intenderla. Sopravvenute intanto una grande carestia, ed una inon- dazione del lago di Aliarto, no-n si credettero avvenute a caso, ma per castigo divino degli Aliarti , che soffersero di lasciar scavare il sepolcro. E Simmia di Rodi, il quale trovavasi in Egitto ad im- parar filosofia con Platone ed Ellopione di Pepareto, attestava che giunto in Memfl lo Spartano mandato da Agesilao, il re dell’Egitto ordinò a Conufl, se poteva intender cosa alcuna di queste lettere, che le dichiarasse, e le rimandasse quanto prima. Conuft per tre giorni raccogliendo in disparte .ogni sorta di carattere de’libri an- tichi, riscrisse al re, e riferì a Simmia, che quelle lettere appar- tenevano alla grammatica antica usata al tempo di Proteo, e che contenevano un ordine di celebrar certi giuochi in onor delle Muse. Ercole, tìglio di Amfltrione, aver lasciata quella memoria, e per- 231) Plutarco, Dei Genio di Socrate ne- gli Opuscoli volgarizzati da Maròello Adriani. Milano 1827, t. IV, p. 40 e segg. 232) Plut. in oit. Lysandr. cominciavasi a celebrare le feste miste- riose del tempo già scorso. 11 .culto di Osiride si diffuse in Memfl, Abido, Bu- si ride, ed anche nella Fenicia, nella Gre- cia e neiritalia, e s'incontra soprattutto a Biblo, Corinto, a Titorea nella Focide, ed in Roma (Apul. Mei . 11), nell’ ultima di queste città nondimeno nel tempo im- periale si cambiò con quello di Serapi- de, dio della morte. Digitized by ^jOoq le — 190 — suadere con quella scrittura e comandare a’ Greci, di starsene in riposo e in pace, e col mezzo della filosofìa ordinassero letterarii certami in onor delle Muse. « L'indovino, o sacerdote egizio, sa- pendo bene di che si trattava, uscì del suo incarico con quel sa- vio consiglio, applicabile a tutti i tempi; e se non è più il tempo de’letterarii certami della Grecia, cerchiamo almeno di supplirvi con la lettura, con la meditazione e lo studio, che con molte al- tre cose ci fanno conoscere i geroglifici della mitologia, e ci pro- cacciano la virtù e le qualità dell’ uomo onesto , come diceva Archita. Digitized by l^OOQLe Digitized by t^oogie I FRAMMENTI DEL CATALOGO FIGURATO DEI PRIMI VESCOVI DI NAPOLI SCOPERTI NELLE CATACOMBE DI S. GENNARO MEMORIA IETTA ALL’ ACCADEMIA nelle tornate del 1 e 8 Giugno, 14 Decembre 1886, e 11 Gennaio 1887 DAL SOCIO GENNARO ASPRENO GALANTE Onorandi Colleghi, Gli studii da noi fatti in questi ultimi anni in una delle basili- che cimiteriali delle nostre Catacombe di S. Gennaro hanno dato risultati importantissimi non solo pei sacri fasti della Chiesa Na- politana, ma ancora per tutta la Cristiana Archeologia. Abbiamo avuto la somma ventura di ritrovare le tracce superstiti del Cata- logo figurato degli antichi e primi Vescovi della Chiesa di Na- poli. Non appena riconoscemmo così inaspettato tesoro, tosto ne facemmo menzione nei due Circoli dei Cultori di Archeologia Cristiana, in Roma ed in Napoli 1); e quanti ne ebbero notizia ci han fatto premura che ne trattassimo di proposito. 1) De Rossi , Bullett. ArcheoL Cristia - e La Discussione , an. XII, n. 207, 28 Lu- na, IV Ser. An. II, p. 85. — L'Osservatore glio 1884. Romano. An. XXIV n. 179. 2 Agosto 1884, 27 Digitized by ^ooq le — 202 — Queste superstiti pitture sono nel piano superiore delle Cata- combe, nella basilica che immediatamente s’incontra dopo il ve- stibolo ed il breve ambulacro. Non è questo il luogo di discutere intorno alla storia di que- sta basilica, la cui topografia va restituita scientificamente quan- do potrà farsi un completo lavoro sulla Napoli sotterranea cri- stiana. Ora notiamo solamente come essa venne da alcuni chiamata la basilica Laureata dal nostro Vescovo S. Lorenzo del secolo Vili sul principio, che ivi dicesi essere stato sepolto ; altri la dissero basilica Agrippini dal celebre S. Agrippino , ed in essa vorreb- bero collocare il suo famoso sepolcro. Or noi non ci occupiamo di ciò, ma solo dell’ importantissima scoperta fatta in questa ba- silica dei frammenti del Catalogo figurato dei nostri primi ed an- tichi Vescovi ; scoperta che è certamente tra le più insigni che finora sieno state fatte nelle Catacombe Napolitane, e tale che non soffre indugio ad esser fatta di pubblica ragione. La basilica si presenta ora in condizione assai deplorevole ed in gran parte distrutta. Ne resta intera l’abside, ostruita in parte da macerie ; le pareti, a riserva di un solo arcosolio, sono in parte distrutte ed in parte malconce ; la volta incavata a botte nel tufo è ormai quasi interamente priva del primitivo intonaco; non sa- premmo dire con certezza se questa volta nei due laterali poggiasse sopra archetti, o colonnine, o sopra un sottile muro che dividesse la basilica da circostanti celle funebri, specialmente dal lato sinistro dell’abside, per modo che un ambulacro dividesse la basilica dalle tombe circostanti. Là dove il cornicione univa le pareti laterali colla volta, ricorre una zona, la quale è divisa in due ordini: nel- 1’ inferiore restano ancora languide tracce di fuggevoli lettere di grande forma ; nella superiore leggesi. chiaramente una serie progressiva di numeri romani , dei quali restano solo gli ulti- mi, XI, XII, XIII, XIIII ; 1) questa zona non resta che solo dalla parte dritta dell’ abside. Dalla detta zona in su verso la 1) Vedi tav. II, n. 2. Riuscendo finora queste tracce, non se ne è potuto se- difficilissimo riconoscere esattamente gnare alcuna linea precisa. Digitized by ^ooq le — 203 — volta era dipinta una serie d’imagini a mezzo busto, corrispon- denti al numero progressivo segnato di sotto ; e queste imagini erano in edicole disegnate ad arco, a semplice pittura, con fondo alternatamente l’uno bianco e l’altro rosso; e tra l’una e l’altra edi- cola sorge una croce gemmata, collocata in modo che l’asta sua ver- ticale con l’estremità inferiore formi rimpianto comune tra l’edicole consecutive. Di queste imagini non restano che due sole , dal lato sinistro dell’ abside (destro dello spettatore) ; la prima è conservata intera ed intatta, della seconda resta una sola metà, con la croce che sor- ge tra l’edicole di ambedue 1). La doppia zona inferiore è interamente perduta da questo lato. Alla parte opposta sulla zona, ove è l’ epigrafe ed i numeri, si vedono ancora superstiti i lembi estremi delle imagini, dell’edicole, e delle croci 2). La parete di fronte all’abside, anche essa originalmente dipinta, poscia fu ricoperta da un posteriore intonaco; e questo, ora quasi interamente screpolato, mostra ricomparse appena languide mac- chie di sottoposte figure , ma nessun residuo d’imagini. In un angolo di questa parete restava solo un frammento del superiore intonaco, che prossimo a screpolarsi si è distaccato , e di- ligentemente serbasi. In esso fortunatamente vedesi parte di un’ima- gine dipinta, d’epoca posteriore, di dimensione assai minore delle altre, col nome segnato presso il capo AGR IPP NVS (AGRIPPINVS) 3). Della medesima seconda epoca sonole imagini, 1) V. tav. I. 3) V. tav. Ili; il disegno è simile in 2) V. tav. II, n. 2. grandezza all’originale. Digitized by Google — 204 — che adornano le pareti dell’abside, alcune note e pubblicate, altre non pubblicate ancora. Questa basilica fu sempre nota ed accessibile: il Celano 1) ed il de Iorio 2) vi riconobbero quelle cifre e quelle lettere, e parte delle pitture della seconda epoca, ed il S. Agrippino; ma nessuno pose mente alle imagini della prima epoca, che messe in relazione colle cifre sottoposte sono di somma importanza. Dopo ciò, come chiara induzione, che rilevasi dalla semplice de- scrizione fatta, è facile inferire, come la volta di questa basilica avesse alle due pareti laterali tante imagini, ciascuna dipinta con l'edicoletta arcuata, quanti sono i sottoposti numeri progressivi; i quali terminano a sinistra dello spettatore colla cifra XIIII. Erano dunque in tutto quattordici imagini; ed infatti scompartendo lo spa- zio delle due pareti laterali, si ha perfettamente il numero di sette imagini per parete. Esse erano tutte nel medesimo atteggiamento, come può osser- varsi da quello della seconda simile alla prima, e dai superstiti fram- menti delle altre, quasi interamente perdute. Il volto della prima 1) Carlo Celano, Notizie del bello , del- l'aulico e del curioso della città di Napo- li, con aggiunzioni del Chiarini, voi. V, pag. 309. Descrivendo le Catacombe di S. Gennaro , dopo accennata la basilica del santo Martire e quella di S. Agrip- pino (che giustamente distinge da quella di cui trattiamo) soggiunge: Più su ve n*è un'altra , che mostra similmente essere sta- ta dipinta con alcune lettere intorno, che finora legger si ponno , ed in questa vi è tradizione che vi fossero stati sepolti S. Giovanni , e S. Attanasio con altri Santi. La crede dunque il Celano la basilica Laurentii, perchè è certo che i nostri ve- scovi S. Giovanni lo Scriba, e S. Attana- sio il Grande furono sepolti nella basilica di S. Lorenzo. V. la memoria del eh. sac. Gennaro Rocco, / SS. Giuliano e Lorenzo Vescovi di Napoli. Napoli, tip. Festa, 1885. 2) Andrea de Jorio, Guida per le Cata- combe di S. Gennaro dei Poveri , Napoli, 1839, pag. 77, n. 2: La volta di questo luo- go a botte (parla appunto della nostra ba- silica ) nel monte incavata poggiando in falso ci fa supporre essere stala avanti so- stenuta da peristilio : all * estremità della stessa vi è un * iscrizione di due linee , che ben poteva leggersi a tempo del Celano ; ma ora è tanto consumata che appena nella prima linea si scorgono questi numeri XI XII. XIII. XIIII. distanti molto Vuno dal - l altro. Digitized by VjOoq le — 205 — ha un tipo tradizionale; veste, come pure la seconda, queir abito che chiamasi filosofico e con linguaggio ecclesiastico, apostolico, cioè tunica e pallio; atteggia la destra a benedizione, con la sini- stra sostiene un libro 1). Ora sorge la prima domanda: quali personaggi rappresentano queste imagini? I numeri progressivi, dei quali restano solo XI, XII, XIII, XIIII, indicano senza alcun dubbio una serie; se fossero dodici, po- trebbe sorgere il sospetto che rappresentassero gli Apostoli , ma non pare che si fosse segnato il numero progressivo alle imagi- ni degli Apostoli, che tutti sanno essere stati dodici; nè 1’ at- teggiamento della prima e seconda è quello degli Apostoli ; e la prima nulla ha del tradizionale tipo di S. Pietro , che era cono r sciutissimo, e senza recarne esempi d’ altronde , le nostre stesse Catacombe ce ne forniscono. Sul principio ci parve potere con grande facilità risolvere la quistione, leggendo le superstiti lettere dell’epigrafe che restano sotto i numeri XI, XII, XIII, XIIII.Abbiamo però durato lunghe ed ostinate fatiche per leggerle , ma invano ; sono rese ormai sfuggevolissime. Il Celano dice che erano leggi- bili a suo tempo, ma non ne diede lettura. Primo ed ovvio pensiero si fu che quelle lettere corrispondendo alle cifre numeriche indicassero i nomi delle sovrapposte imagini. Ma nessun nome Onoraci venne fatto ricomporne. Il numero per- tanto XIIII, escludendo assolutamente il collegio apostolico, fece sorgere subito in mente il pensiero, essere ivi il Catalogo figurato dai nostri primi quattordici Vescovi Napolitani. Credemmo allora potere quelle lettere accennare ai nomi dei nostri Vescovi, o an- che , senza i nomi, agli anni , mesi e giorni dell' episcopato di ciascuno; nè l’omissione dei nomi ci avrebbe fatto meraviglia; vor- rebbe dire che essendo questi notissimi , bastava accennarli col 1) V. tav. I. ] Digitized by Google — 206 — numero progressivo , e sotto dell'imagine notare piuttosto la du- rata dell’episcopato. Chi conosce la Storia Ecclesiastica Napoiitana sa come dal Li- bro nostro Pontificale, appellato da Giovanni Diacono 1), conosciamo l’intera serie dei nostri Pastori; ma saprà pure che gravi quistioni non mancano. Nessuna quistione però sui primi otto vescovi: S. Asprenate 2), S. Epitimito, S. Marone, S. Probo, S. Paolo I, S. A- grippino, S. Eustazio, S. Efebo 3). Poscia il Libro Pontificale segna S. Fortunato I, S. Massimo, S. Severo , S. Orso , S. Giovanni 1, S. Nostriano ecc.; ma tra S. Efebo, che non oltrepassa certamente il secolo terzo , e S. Fortunato , che era nostro Vescovo nel 347 , nessuno può negare che nel nostro Libro Pontificale sia una la- cuna; quindi S. Fortunato non sarà certamente il nono tra i no- stri Vescovi , nè l’ immediato successore di S. Efebo. La lacuna del Libro Pontificale si riempie 4) coi vescovi S. Marciano, S. Co- simo I, 5) (che è per altro segnato del suddetto Libro, benché fuori posto) e Calepodio, a cui successe S. Fortunato I; quindi S. For- tunato sarebbe il XII, S. Massimo il XIII, S. Severo il XIII1. Or poniamo che quelle lettere ci dessero sotto il numero X1I1I il nome SEVERVS, sarebbe assicurato un gran fatto della nostra storia, che cioè tra S. Efebo e S. Fortunato I bisogna collocare tre vescovi, ed i nomi di Marciano, Cosimò e Calepodio avrebbero nuovo documento. Inoltre, con S. Severo comincia ordinatamente il Libro Pontificale a segnare la durata dell’episcopato, dicendo di lui sedit annos XLVI, mens. //, dies XI ; or se almeno potessimo 1) V. Muratori, R. /. S. voi. 1, p. II. Cf. 1’ ultima pubblicazione fattane .dal eh. Bartolommeo Capasso nel I voi. dei Mo- numenta ad Neapolitani ducatus histo - riam pertinentia, dopo la collazione fat- tane col codice vaticano dal nostro eh. collega Prof. Cosimo Stornajolo. 2) Ora dicesi Aspreno. 3) Ora dicesi Eufebio , volgarmente Efrimo, Eframo o Efremo. 4) Intorno alla lacuna del nostro Libro Pontificale attendiamo un prossimo la- voro del nostro eh. collega P. Gioacchi- no Tagliatatela dell’Oratorio. 5) Chiamasi anche Zosimo, e volgarmen- te nella Cronaca di S. Maria del Principio è detto Zonio. Digitized by Google — 207 — leggere sotto alcune di quelle cifre il numero XLVI, sarebbe pa- rimenti assodata la quistione. Ma finora non è dato ricomporre nè parole nè cifre numeriche in quella zona inferiore ; nè le tracce superstiti delle lettere rendono per ora agli occhi nostri il nome di alcun nostro vescovo, e rotondeggiandosi talvolta a forma di C o D, escludano ogni breve numerazione. Potevano quindi indicare o la dedicazione della basilica o il testo di alcun salmo, o il nome di chi avesse formata quella basilica, o altro di simile. Fermiamoci piuttosto al numero progressivo. Che ciascuna di queste cifre indicasse l’imagine superiore è cosa certa ; dappoiché ciascuna corrisponde precisamente nel punto medio sotto imagine superiore. Ora argomentiamo così : perchè determinare quelle imagini con ordine progressivo , se esse non accennassero ad una serie, ad una successione di persone? E que- sta serie o successione quale altra poteva essere se non quella dei Vescovi? Infatti quale era lo scopo di numerare quelle imagini , se non quello di mostrare che di quelle persone, ivi dipinte, l’una si succedesse all’altra, e quindi la legittimità della successione medesima , e la non interruzione della serie dei Vescovi , fino a pervenire a quel primo personaggio, che era siccome il fondamento di quella serie, e quindi di quella Chiesa ; e dal quale per linea diretta discendendo gli altri serbassero intemerato il deposito della fede ortodossa. Splendidissima al nostro proposito è la testimo- nianza di Tertulliano , che accennando alle serie dei Vescovi , spinge i fedeli a percorrerle, affinchè si convincano che la loro fede è ortodossa, poiché essi per mezzo di quella successione si congiungono al primo della serie, il quale quella fede attinse da alcuno dei discepoli degli Apostoli , o dagli Apostoli medesimi, e quindi da Cristo : Habes , egli dice , habes tu quoque Christiane census tuos, e soggiunge: Edant origines Ecclesiarum suarum , evolvant ordinem Episcoporum , ita per successionem ab initio decurrentem, ut primus die Episcopus aliquem ex Apostolis oel Apostolicis oiris, qui (amen curri Apostolis perseverami, habuerit auctorem et antecesso rem. Hoc enim modo Ecclesiae Apostolicae Digitized by Google — 208 — census suos deferant 1). E S. Ambrogio nel famoso sermone de basilicis non tradendis, appella appunto alla serie dei suoi orto- dossi antecessori, S. Dionisio, S. Eustorgio, S. Mirocle, e gli altri che lo precedettero, contro l’intruso ariano Aussenzio e fautori di lui, esclamando: Absitut ego tradam Christi haereditatem... ab- sit ut tradam haereditatem Patrum, hoc est haereditatem Dio- nysii qui in exilio , in causa fide i, defunctus est ; haereditatem Eustorgii , confessoris ; haereditatem Miroclis , atque omnium retro fldelium Episcoporum 2). Aveano dunque somma cura i fe- deli neirenumerare esattamente la successione dei loro Vescovi, per modo che nella serie non si annoverasse alcuno illegittimo, o sci- smatico, o eretico. E qui omettiamo di dimostrare, come per ciò appunto si avesse tanta cura dei sacri dittici e dei libri pontefìcali, e quanta fosse la vi- gilanza di ciascuna Chiesa, o di cacciar via dalla serie episcopale uno intruso, o di restituirvi un legittimo. Di qui la integrità del canone di ciascuna Chiesa; di qui la cura straordinaria dei fedeli, e la gelosa premura di conservare i sepolcri dei proprii Vescovi, e per quanto fosse possibile l'uno accanto dell’altro, per attestarne la legittima successione. Così, per scegliere esempi a preferenza dai fasti della Chiesa nostra, sappiamo che S. Epitimito eS. Marone, i primi suc- cessori di S. Aspreno, furono sepolti vicino alui; S. Massimo vicino al suo antecessore S. Fortunato; S. Lorenzo vicino aS. Giuliano; S. At- tanasio vicino a S. Giovanni lo Scriba. Ed è però che come si conser- vavano con somma venerazione le cattedre dei primi Vescovi, sic- come fondamento della fede, (e se ne conservano ancora nelle nostre Catacombe), così le loro spoglie mortali erano serbate come preziosi depositi a testimone della santa e non interrotta eredità ricevuta; e quindi è che ogni Chiesa reclamava con dritto la restituzione dei cor- pi dei proprii Vescovi , morti lungi dalla sede. Così S. Ponziano 1) Tertullianus , De praescripiione , 82. (ed. Roraae 1585). 2) S. Ambrosius , Op. voi. V, pag. 21 , Digitized by Anoog Le — 209 — dalla Sardegna, S. Cornelio da Civitavecchia, S. Eusebio da Sicilia furono trasportati in Roma; così S. Ignazio da Roma fu portato in Antiochia, S. Felice di Tibursio da Venosa fu trasferito nell’Afri- ca, S. Paolino di Treviri dalla Frigia nella sua sede, S. Massimo no- stro dal luogo dell’esilio in questa sua Napoli. Insomma tutto quello ' che apparteneva al legittimo Vescovo, il nome, l’imagine, il sepol- cro, le reliquie, ogni sede si contendeva, e serbava con gelosia, a testimonianza della dottrina e della tradizione 1). Dopo ciò che cosa indicheranno dunque le cifre numeriche sotto quelle imagini della nostra Catacomba, se non la testimonianza della legittima succes- sione dei nostri Vescovi; e quindi quelle imagini non altro rap- presentano se non i primi quattordici Pastori della Chiesa Napo- litana. Ma ricordiamoci che siamo in una basilica, ed è questo un nuovo argomento per riconoscere in quelle superstiti imagini la serie dei nostri Vescovi. Antichissimo è 1’ uso di dipingere nelle basiliche le imagini dei propri Vescovi, uso che resta tuttora, lodevolissimo, anzi necessario. Un antichissimo esempio di conservare la memoria dei Vescovi in ciascuna chiesa , dipingendone i ritratti , si ha , a quanto sappiamo, da S. Mirocle Vescovo di Milano, che fece dipin- gere S. Anatolone primo vescovo residente in quella città , e vi appose un epigramma, (trascrittaci dal Biraghi)2) che così con- chiudesi : Hic titulum et pioto venerandos pariete vultus Miroclis reddit Praestitis alma fldes. Gli undici epigrammi che abbiamo di S. Ennodio di Pavia, (che si leggono nel libro II dei suoi carmi) sembrano appunto scritti per 1) Eusebius, Hist. Eccl. lib. V, c. 21. Felice; Milano 1867, p. 30, 31. 2) Biragbi , Sarcofago dei SS . Nabore e 28 Digitized by ^.oogie 210 — ornare le imagini dei primi undici Vescovi di quella sede. L'usanza di ritrarre in busto i Vescovi seguitò ad aver vigore in Oriente ed Occidente, come rilevasi dal Libro Pontificale dei Papi, appellato da Anastasio Bibliotecario, nella vita di S. Agatone, ove narrasi che dopo il Concillio Trullano, condannato Macario di Costantino- poli intruso patriarca, furono cancellate le imagini dei passati pa- triarchi monoteliti: Abstulerunt de dypticis ecclesiarum nomina Patriarcharum ; vel de picturis ecclesiae figuras eorum, aat info- ribus , ubi esse poterant, auferentes , idcst, Cyri , Sergii, Pauli, Pyrrhi, Petri , per quos error ortodoxae fidei usque nunc pullu- lava 1). Ma nessuna testimonianza a questo proposito è più chiara ne’più bella di quella che ci dava il nostro S. Giovanni lo Scriba, del quale narra il nostro Libro Pontificale, che nell’antica Cattedrale Stefania avesse fatto dipingere i ritratti de'Vescovi Napolitani (come diremo): Aptavit unicuique arcuatum tumulum , ac desuper eo- rum effigies depinxit 2). Importantissima poi sopra ogni altra, e preziosissima è la serie o Catalogo figurato dei Romani Pontefici, dipinti in imagini clipeate nella basilica di S. Paolo , in via Ostien- se, ed una volta anche nella Vaticana; importantissimo monumento, parte del quale è però perduta; dappoiché quello del Vaticano andò distrutto nell' edificarsi la nuova basilica sotto Paolo V , e parte dell’ Ostiense fu preda delle fiamme sotto Pio VII ; di questo se- condo però restano ancora quarantadue imagini, da S. Pietro a S. In- nocenzo I, come tutti sanno, e sono disposte in uno dei vasti ambu- lacri del cenobio ostiense dei Benedettini. IlCiampini 3), e dopo di lui il Bianchina ), ne trattarono; le pubblicarono il Panvini 5), il de Cavalleriis 6), poscia il Marangoni?), ed ora con maggior accuratezza 1) Liber Pontiflcalis. Eccl.Rom. (appel- lato da Anastasio Bibliotecario) in Aga- thone. 2) Liber Pontiflcalis S. Eccl. Neap. o Chronicon Joannis Diaconi , in Joanne Scriba. 3) Ciampini, De 8acri3 aechflciis, c. 1, p. 39 e seg. 4) Bianchini , Prolegg. ad Anastas. voi II, pag. LXXII. 5) Panvini, Epitkome Pontiff. Rotti- ti) De Cavalleriis, Effigies Romanorum Pontiflcum. 7) Marangoni, Prolegom. ad Chronol- basii, ositene. Digitized by ^ooq le — 211 — ed ampio comentoleha ripubblicate ed illustrate il ch.P.Garrucci 1), e ne ha discorso dottamente il eh. de Rossi 2). Vestono quelle imagini il pallio filosofico od apostolico, hanno le aureole rotonde in capo, non apparisce atteggiamento di braccia, è segnato fuori del clipeo il nome di ciascuna, preceduta, a cominciare da S. Callisto in poi, da una piccola croce rossa, e seguita dagli anni, mesi e giorni di sede. Notiamo come esse non sieno posteriori al ponteficato di S. Leo- ne I, cioè non più tardi del secolo V; notiamo pure co’ dotti, che le illustrarono, come la serie Paoliana era doppia, ma quella che vedeasi dipinta allo stilobate boreale era confusa, in modo che non veniva serbato affatto l'ordine di successione; ed il Bianchini ne dà la ragione, che cioè alcuno imperito artefice in epoca posteriore per riempire lo spazio vi avea dipinto senza alcun criterio -altre imagini di Pontefici, copiandole a caso dallo stilobate australe. Providenzialmente nell’incendio della basilica la serie boreale, cioè l’antica, restò illesa. Ora si domanda: cosiffatte imagini che si dipingeano dei Vescovi erano veri ritratti ? o le flsonomie furono ideate a talento del pit- tore ? Non possiamo dare tale una risposta che risolva interamente il quesito. Il P. Garrucci 3) risponde che la quistione potrebbe risol- versi, quando avessimo altri ritratti da mettere a confronto; però, soggiunge , non essere improbabile che varii di essi lo sieno , e deve ciò intendersi dei tratti caratteristici ed individuali. E che molti sieno veri ritratti si fa chiaro dall’ osservare come di molti Santi dell’antichità, nei primi secoli, si fossero ritratte le sembianze; nè questa era cosa rara: abbiamo già accennato come S. Mirocle facesse dipingere il ritratto di S. Anatolone; sappiamo che del cele- bre S. Nicolò di Mira si conservava tuttora il ritratto nel secolo Vili, dappoiché nel Concilio Niceno II il ritratto del santo Vescovo 1) Garrucci , Arte Cristiana , voi. Ili, an. I, p. 122 segg. pag. 21. 3) Garrucci. Art. Crist. 1. c. 2) Do Rossi , Ball. Arch. Crist. Sor. II , Digitized by Google — 212 — fu citato da Teodoro Vescovo di Nicea, dicendo essere stato S. Ni- colò rosso di volto coi capelli bianchi, ipv&pòg 'tea 'ifpotT&top, xxì yrjp&Xéog rr,v xófX,73V. 1 ) Del celebre S. Melezio gli Antiocheni mol- tiplicarono siffattamente i ritratti, che vedevasi scolpito e dipinto e sulle pale degli anelli, e sulle tazze e sopra i bicchieri, e sulle pa- reti delle stanze e da per tutto 2). Del nostro S. Paolino sappiamo che il suo amicissimoSulpizio Severo nel 402 domandavagli il ritratto di luiedi sua moglie Terasia 3), e Paolino se ne scusava con moltaumil- tà; ma l’anno seguente 403 scrivendo a Severo si rammarica perchè nel battistero, che quegli avea di recente costruito, di rincontro al ritratto di S. Martino, avesse fatto ritrarre appunto Paolino. Se non fossi da scusare, dice Paolino, perchè hai voluto mostrare a coloro che escono dal sacro fonte due esempi, l’uno di un santo da imitare, l’altro di un peccatore da evitare , e gli propone alcuni bei versi da segnar sotto quei ritratti e tra gli altri i seguenti: Adstat perfedae Martinus regula vitae, Paulinus veniam quo mereare docet ; Hunc peccatores, illuni spedate beati , Esemplar sanctis ille sit, iste reis. Digna sacramentis gemina sub imagine pinxit , Disceret ut vilae fonte renatus homo ; Madinum veneranda viri testatur imago, Altera Paulinum forma refert humilem 4). 1) Syn. VII, act. IV. 2) Vedi, S. Joannis Clirysostomi, Opp. tìom. in S. Meletium> V. pure gli Atti del- ia settima Sinodo Generale, Act. VI. 3) Quid tibi.de i Ila petit ione respon - deam,qua imagines nostra* pingitibi f mit- tique jussisti t S. Paulini Epistola XXX (al. Vili) ad Seoerum , § 2, col. 322, (ed. 4) S. Paulinus, Epistola XXXII, (al. 12) ad Seoerum § 3 col. 331. Digitized by ^jOoq le — 213 — Lo stesso dicasi degli Apostoli , e senza alcuna esitazione di Cristo e della Vergine, dei quali non mancarono ritratti ; chi poi non sa che il tipo dei ritratti di S. Pietro e di S. Paolo 1) è precisamente quello che ci forniscono i vetri e le pitture cimite- riali?2) Certamente i discepoli di Cristo (come osserva il Vettori) 3), non dovevano aver trascurato ciò che gli eretici ed i pagani ama- vano di conservare con rispetto, come attesta Eusebio 4). S. Ago- stino dice che i Carpocraziani, a tempo di Adriano, aveano l’imagine di Cristo e di S. Paolo unite a quelle di Omero, di Aristotele, di Pi- tagora, di Platone, di altri filosofi 5). S. Epifanio 6) ed Elio Lampridio 7) ci fanno sapere che Alessandro Severo avea nel suo larario do- mestico l’ imagine di Cristo con quelle di Abramo , di Apollonio Tieneo, di Orfeo; dovette dunque in Roma aversi alcuna imagine o ritratto di Cristo, quando a tempo di Tiberio si trattava fare del Signor Nostro una pagana apoteosi. Eusebio poi attesta di aver veduto o sentito dire delle imagini di Cristo, di S. Pietro, di S. Paolo, che risalivano ai tempi primitivi 8). E qui mandiamo chi ha vaghezza di ampiamente conoscere questa materia a quanto ha dottamente discorso il eh. P. Garrucci intorno all’imagine di Cristo mandato ad Abgaro Edesseno, ed alla statua eretta al Salvatore medesimo dall’Emorroissa o Berenice di Edessa, ed a quella della Beata Ver- gine 9). Riguardo poi alle imagini d’illustri eroi della fede, ed a pre- ferenza dei proprii Vescovi , i fedeli non aveano minor cura nel serbarne i ritratti, di quello che avessero i pubblici magistrati nel ritrarre i volti degl’ imperatori e dei principi. E che quelle ima- gini fossero ritratti si fa manifesto dall'espressione come ne par- 1) Ricordiamo quelli della Catacomba di S. Gennaro. 2) V. Garrucci , Vetri ornati di figure in oro , (seconda ediz.) p. 77 seg. 3) Vettori, Num. aureus, c. VI. 4) Eusebius, Hist . eccles. VII, 18. 5) S. Augustinus , De Haeresib. c. VII. 6) S. Epiphanius, De Haeresib. c. XX VII. 7) Lampridius, in Alex . c. 29 e 43. * 8) V. la nota 2 del Valesio al c. 2 del lib. II della Storia Eccles. di Eusebio. 9) V. Garrucci, Vetri ; I. c., e V Arte Crisi. voi. I, part. Il, pag. 403 segg. Digitized by ^jOoq le — 214 — lano i Libri Ponteficali; citiamo tre frai più celebri, di Roma, di Ra- venna e di Napoli. Di papa Giovanni VII leggesi che fecit et imagines per dioersas ecclesias, quas quicumque nosse desiderat, in eis vultum depictum reperiet 1); il vultum depictum indica appunto il ritratto. Riguardo ai Vescovi di Ravenna, TEpiscopografo Ravennate Agnello (chiamato pure Andrea) spesso ci paria di imagini, comedi ritratti, e più volte appella alle pitture per farci il ritratto dei Vescovi di quella sede. Ascoltisi come parla nella vita del Vescovo Bono: Iste.... macilenta et rubea effigie , plano capillis capite , canitie ornatus, et omni gratia plenus ; et si fortasse quis secum cogitane dicat, aut alios interroget, quomodo iste vel unde scire poterat horum Sanctorum effìgies qudles fuerint , si macilenti , si pingues , nulla dubitatio inde adhaerescat, quia pictura insinuat mihi illorum oultus 2). E per Napoli giova ripetere che S. Giovanni lo Scriba fece ritrar- re le imagini dei suoi antecessori eorum effìgies depinxit ; e sog- giungiamo che forse per ciò il nostro Libro Pontificale fa notare di S. Efebo la bellezza 3) ; nel libello di Marcellino e Faustino si dice che S. Massimo era di conplessione gracile e di aspetto delicato 4); il volto di S. Giuliano nell’imagine sua testé trovata nei manoscritti del Tutini è senile, e gli Atti di lui anche recentemente scoperti, lo dicano settuagenario 5). 1) Lib. Pont. Eccl. Rom. in Joanne VII. 2) Agnellus, qui et Andreas; Lib. Pont. Eccles. Ravenn. in Episcopo Bono, presso Muratori R. 1. S. voi. II pag. 142. 3) Lib. Pont. Eccl. Neap. in Ephebo , ove dicesi : Ephebus Episcopus pulcher corpore, pulchior mente. Se pur non vo- gliasi credere che PEpiscopografo abbia voluto tradurre il nome iQnfat, puber, ac- cennando con la gioventù la bellezza; ma del resto non mancano altri esem- pi che notano la bellezza nei Santi; ba- sti per tutti ricordare il nostro S. Gen- naro di cui dicesi negli Atti Vaticani; E- rat beatissimus Januarius et corpore et mente pulcherrimus . 4) Erat inhab ili sto macho et corpore de- licatior, V. il Libellus precum Faustini et Marcellinij diretto agPimperntori Valen- tinlano III, Teodosio ed Arcadio nel 384; pubblicato dal Sirmondi nel 1650, ed inserito nel tomo V della Bibliotheca Po- trum Lugdun . 5) V. la citata memoria del sac. Gen- naro Rocco. Digitized by ^jOoq le — 215 — Nè finalmente dobbiamo omettere di osservare come la pittura, e tutte le arti, nei secoli primitivi delia Chiesa, avesse canoni se- veri, che non potevano trasgredirsi ; nè era permesso agli artisti il quidlibet audendi; e questi canoni si estendeano anche al tipo delle imagini, ed è perciò che troviamo inalterate quelle linee tra- dizionali delle flsonomie , per cui spesso le imagini , come può vedersi nell’iconografìa della Chiesa Greca, decadono per gusto di arte, ma non si allontanano dai tipi tradizionali e prescritti nel ca- none artistico. Conchiudiamo dunque che nelle serie figurate dei Papi e dei Vescovi, che si soleano dipingere nelle basiliche , lenivano con- servati, per quanto era possibile, il loro tipo tradizionale. Ora facciamoci più dappresso alla nostra basilica cimiteriale della Catacomba di S. Gennaro. Questa basilichetta, come abbiamo accennato, è nel piano superiore. Ripetiamo che non intendiamo parlare della sua origine e delle sue fasi, che non ne è ancora il tem- po; solamente osserviamo che dessa non è, come vorrebbesi da al- cuni, la basilica Agrippini, perchè questa era sottoposta alla basi- i lica Januarii che è nel piano inferiore, nè vogliamo ancora asse- rire «e debba in essa riconoscersi la celebre basilica Laureata , ove furono sepolti i nostri Vescovi S. Lorenzo , S. Giuliano , S. Giovanni lo Scriba e S. Attanasio. Quando ulteriori investiga- zioni saranno ultimate, potremo darne più precise notizie. Ricor- diamo solo come a tempo del de Jorio, in questa basilica, di cui ora trattiamo, si sieno trovati molti frammenti marmorei e tronchi di colonne di marmo giallo, avanzo forse di peristilio che potrebbe supporsi 1); e parimenti vogliamo osservare che l'epoca primitiva di 1) V. de Jorio Guida per le Catacombe diS. Gennaro , p. 77: Quivi, cioè nella ba- silica di cui parliamo , avendo fatto sgom- brare parte del suolo dal terriccio che lo copriva , trovammo molti frammenti di marmo incavati , i quali forse dovevano tenere i cancelli che circondavano Volta- re di questa basilica , e tronchi di colonne di marmo giallo . Digitized by v^.oogie — 216 — questa basilica cimiteriale deve essere antichissima , dappoiché essa è contigua al vestibolo ornato di quelle pitture, che per la purezza dello stile, per la qualità dell’ornato, e per l’intonazione del ciclo bacchico di tigri, tirsi, capri, teste di baccanti, (che erronea- mente una volta la facean supporre una cripta gentilesca) non pos- sono oltrepassare il terzo secolo. Fermiamoci per ora ai fram- menti dell’ intonaco della volta. Due epoche riconosciamo nelle superstiti pitture di questa no- stra basilica cimiteriale; l’antica è quella delle imagini de’Vescovi colle rispettive cifre numeriche e la epigrafe sottoposta, che ab- biamo già osservate , cioè le pitture delle due pareti laterali ; le altre due pareti, cioè quella dell’abside e l’altra di rincontro hanno dipinti di epoca posteriore, e questa ultima parete mostra ambe- due le epoche nel suo doppio intonaco. Di quale tempo sono le prime, cioè i frammenti delle imagini dei quattordici Vescovi? Il pallio apostolico o filosofico, l’eguale atteggiamento delle due prime che fa argomentare lo stesso delle altre dodici , la tipica fisonomia della prima , la croce gemmata che distingue un’ ima- gine dall’ altra, ed in generale il confronto di stile che può age- volmente farsi tra queste e le altre pitture cimiteriali, ci fanno assegnare questi preziosi frammenti ad epoca non più tarda del secolo V , precisamente all’ epoca medesima delle pitture dei Papi nella basilica Ostiense. Quello però che esclude ogni dub- bio sull’epoca di queste pitture , si è la progressiva loro nume- razione da I a XIIII, numerazione che, come abbiamo accennato, non ad altra serie può riferirsi che a quella dei nostri primi quat- tordici Vescovi. E si noti che vi era spazio per dipingervene altri ancora, o facendo le imagini di minor dimensione, o collocandone almeno altre sei nella terza parete, quella cioè di fronte all’abside. Vuol dire dunque che quando furono dipinte, quattordici Vescovi erano fino allora seduti sulla cattedra napolitana; siamo cioè nella prima metà del quinto secolo. Inoltre la forma delle croci che separa un’imagine dall’altra è quale si conviene al quinto secolo, dappoiché la croce dopo l’ epoca di Costantino cominciossi ad adornare di gemme e di fiori, come in trionfo, e nella nostra serie opportuna- Digitized by t^oogie — 217 — mente distingue e caratterizza le imagini vescovili. Nè osta il nimbo circolare che adorna il capo delle nostre imagini, il quale nei secoli anteriori al settimo si usò parcamente pei Santi , ma venne dato a Cristo ed agli Angioli; dappoiché nel primitivo pen- siero cristiano fu un significato determinativo dell’ autorità , e perciò posto sul capo di personaggi viventi, rivestiti della suprema autorità ecclesiastica, massime neiresercizio di qualche ufficio mi- nisteriale; e poscia restando il nimbo circolare per gli eroi defunti, venne usato il nimbo quadrato per gli illustri viventi 1). Resta finalmente a fare un’ altra importantissima considerazio- ne. Riconosciamo in questi superstiti frammenti di pitture la se- rie dei nostri primi quattordici Vescovi; or bene sono essi appunto quelli che vengono registrati nella prima parte del nostro Libro Pon- tificale. Questo libro una volta credevasi tutto composto da Giovan- ni Diacono di S. Gennaro; ma dopo accurati studii, e l’esame del codice membranaceo vaticano, accuratissimamente fatto dal nostro collega Prof. D. Cosimo Stornajolo, possiamo conchiudere che quel nostro Chronicon costi di tre partf , la prima cioè da S. Aspreno a S. Cosimo I ( sec. I-IV ) ; la seconda da S. Severo a S. Calvo (sec. IV-VIII); la terza da S. Paolo II ad Attanasio II (sec. Vili e IX). I Vescovi della prima epoca sono segnati senza data nè du- rata di episcopato ; sono undici , compreso S. Cosimo I collocato per equivoco dopo S. Massimo (confondendosi con Cosimo o Zo- simo intruso ariano); ammessa però la lacuna (come abbiamo det- to) tra S. Efebo e S. Fortunato I, e riempita coi nomi di S. Mar- ciano, del detto S. Cosimo I, e di Calepodio, ne abbiamo tredici. Or poniamo che il decimoquarto, ancor vivente vi sia stato dipinto, questi sarebbe appunto S. Severo, per attestare esser lui il legittimo successore del martire S. Massimo morto in esilio, e non l’intruso e scacciato ariano Zosimo. Queste pitture quindi della nostra ba- silica ci dimostrano la prima parte del Liber Pontiftcalis Eccle- siae Neapolitanae , e danno un nuovo argomento a distinguere 1) De Rossi, Bull.Arch.Cri8t.SerA, an. I, pag. 76, 86, 9*; li, 68, 64, 77; III, 17-84, 83-40. 89 Digitized by ^jOoq Le — 218 — il Liber in tre parti; e fanno intenderci che quella serie venne dipinta per attestare la legittima successione , specialmente in quei tempi in cui gli Ariani cercavano intrudersi nelle sedi orto- dosse. . Possiamo dunque conchiudere che le quattordici imagini di que- sta basilica rappresentassero i primi quattordici Vescovi della sede Napolitana; nè era necessario determinarle coi nomi , dappoiché la serie era conosciuta dai dittici, e bastò determinare le imagini col solo numero progressivo. Finalmente notiamo che terminando la parete col numero XIIII, la prima imagine, che è l’unica superstite interamente, rappre- senti senza alcun dubbio il nostro Protovescovo S. Asprenate o Aspreno. Ma che vuol dire queirimagine di S. Agrippino, che vedeasi nel- l'angolo della parete di fronte all’abside? 1) Essa, come ognun vede, è di tutt’altro stile, e di epoca tarda; ha la flsonomia giovanile ed imberbe, presso il capo leggesi il nome AGRIPPINVS, ed è dipinta sul secondo intonaco; e se mancasse il nome , nessuno potrebbe affatto congetturarvi S. Agrippino, atteso i lineamenti di un volto giovanissimo. Essa è senza dubbio fuori di posto e di serie, nè la serie in quella parete continuava, dappoiché essa è scompartita nelle due pareti laterali , sette imagini per parte , e S. Agrippino , essendo il sesto Vescovo, avrebbe luogo verso la fine della parete sinistra. Ritrovandosi dunque fuori l' ordine della serie , in una parete in cui primamente non furono dipinte le imagini dei Vescovi, ed es- sendo di epoca posterióre, bisognerà ammettere che del Catalogo fi- gurato della nostra basilica cimiteriale avvenisse quello stesso che accadde della serie ostiense dei Papi, che cioè in epoca posteriore una seconda mano avesse ripetuti alcuni della serie, e di questa ri- petizione non ne resti ora che il solo S. Agrippino. Che se non una ripetizione di serie , ma uno speciale motivo per S. Agrip- l) Serbasi ora , come abbiamo detto , staccata dalla parete. Digitized by t^oogie - 219 — pino vogliamo rintracciare, anche questo vediamo chiarissimo. È troppo noto il culto di S. Agrippino nelle nostre Catacombe, an- teriore a quello del medesimo S. Gennaro, anzi le Catacombe Na- politano, per quanto finora i monumenti e la storia ci attestano, cominciano appunto dal sepolcro di S. Agrippino. Vogliamo che qui si rifletta ad un’espressione della sua Agiografìa, nella pri- ma parte di essa , la quale senza alcun dubbio è anteriore al se- colo VII. Ivi dicesi sulla fine che pei molti miracoli che il santo Vescovo operava dalla sua tomba, locus ipse per industriarti cuius- dam servi Dei in notitiam perductus est, atque, ut fuit, in melius exornatus 1). L’imagine non è anteriore al secolo Vili e forse anche al IX, e trova riscontro per lo stile in altre che si veggono nell’abside della medesima basilica. È dunque a ritenere che cresciuto il culto di S. Agrippino nelle Catacombe , pei continui prodigi che acca- devano al suo sepolcro , si moltiplicassero le sue imagini per quelle cripte, specialmente per le basiliche del Cemetero, a prefe- renza di quelle degli altri Vescovi; ed una appunto di quelle ima- gini sarebbe questa tuttora superstite. Ma è qui da esporre una importante testimonianza del dotto Francesco Bianchini nei Prolegomeni ad Anastasio Bibliotecario, o libro Pontefìcale dei Papi, ove il Bianchini pubblicando il Cata- logo dei Vescovi Napoletani, ritrovato nella Biblioteca di S. Marco a Firenze, dice che nella Catacomba • napolitana di S. Gaudioso (oggi detta della Sanità) era dipinta la serie dei Vescovi Napolitani in altrettante imagini clipeate. Ecco le parole del Bianchini: Vici- nia utriusque Ecclesiae Neapolitanae ac Nolanae, et Coemeteria Romanis similia, quae Neapoli conspiciuntur, et abundant oetu- stis inscriptionibus genuinis, (mihi spectatis beneficio Eminentis- 1) V. Acta S . Agrippina presso il Maz- Napoli, voi. I, e Capasso, Monumenta ad zocchi, De cultu SS. Episcop. Eccl. Neap.\ Neap. ducatus hietoriam pertinentia , Parascandolo , Memorie della Chiesa di voi. I. Digitized by Google — 220 — simi Cardinali s Cantelmi tum Archiepiscopi , aeque sanctissimis moribus ac sana doctrina illustris, vigilantia, constantia, pru- dentia , omnique pastorali virtute memoriae aeternae com- mendati) demonstrant, epochas illias prooinciae Antistitum fuis- se non minus diligenter literis mandatas. Ejus rei documen- tum aliud superest in coemeterio Sancti Gaudiosi , (quello cioè della Sanità) uti Cardinalis doctissimus demonstrabat : ubi su- persunt adhuc oetustissimae orbiculares imagines Episcoporum a S. Asprenate primo Neapolitanorum Episcopo seriem succes- sorum ordientes, et singulorum nominibus insignita \e; quae pictu- rae in ingressu Coemeterii, perinde ac in suburbanis Romae et cryptis atque cubie ulis Martyrum, olim coloratae, superinducto post aliquot saecula primo ac secundo calcis integumento, conspi - cua sunt, ubi fragmenta posteriori integumenti exciderunt. Or- biculi cero has imagines Episcoporum includentes imitantur spe- ciem illorum, qui seriem Pontiflcum retinent in basilica S. Pauli via Ostiensi, et in Zophoro veteris basilicae Vaticanae obseroa- bantur, antequam dirueretur sub Paulo V, quorum si exempia requiras, Romae ab octavo. et nono saeculo satis erit in titulo S. Praxedis observare oratorium sioe cappellam S. Zenonis , a S. Paschali I similiter in fronte exornatam , et in hypogaeo utriusque diaconiae S. Mariae in via lata, et S. Nicolai in car- cere Tulliano, prophetarum imagines orbiculis eiusmodi- inclusas et coloribus efformatas, additis nominibus singulorum 1). Questa testimonianza ha richiamato sempre la nostra attenzio- ne e le nostre investigazioni. Secondo il Bianchini adunque nel- T ingresso della Catacomba di S. Gaudioso era dipinta la serie dei Vescovi nostri , a cominciare dal Protovescovo S. Aspreno ; ed egli attesta di averla osservata, ed avergliela mostrata il Car- dinale Giacomo Cantelmo, che fu Arcivescovo di Napoli dal 1691 al 1703. Noi abbiamo esplorata questa Catacomba tante e tante 1) Bianchini, Prolegomena ad Anastas. voi. II, pag. LX § 13. Digitized by ^jOoq Le — 221 — volte con scrupolosissime investigazioni, ci siamo internati nei più reconditi suoi ambulacri, ma oltre l’imagine clipeata a musaico di S. Gaudioso , ed altre che non fanno qui al nostro proposito , nessuna traccia abbiamo finora ritrovata o riconosciuta della serie dei nostri Vescovi, secondo attesta il Bianchini. Questi però dice che la detta serie, a lui mostrata dal Cardinale Cantelmo, vedessi in ingressu Coemeterii S. Gaudiosi. Che non debbasi per avventu- ra ritenere che la detta serie fosse stata dipinta nella basilica ci- miteriale, che precedeva questa Catacomba, cioè nello speco o grot- ta, che nell’anno 1569 e seguente fu sgombrata e disotterata, e, per la imagine della Vergine ivi rinvenuta alla parete, fu restituita al culto? In questa grotta o basilica cimiteriale di S. Gaudioso fu ri- trovata pure la cattedra episcopale, che ora vedesi trasportata nella cappella di S. Tommaso nella chiesa superiore, e varie iscrizion i, alcune delle quali ancora si conservano, ed altre memorie, siccome asserisce il Celano, che per altro nulla dice delle pitture della serie attestata dal Bianchini 1). Non volendo negar fede al Bianchini, nè sospettare che si fosse ingannato , credemmo nel considerare le sue parole, che quando la vetusta basilica cimiteriale di S. Gau- dioso venne rifatta, quel prezioso monumento della serie episco- pale, con poco anzi nessun buono avvedimento venisse distrutto. Ma si oppone a questo giudizio la cronologia dell’ odierno tempio della Sanità. Nel 1577 quella basilica cimiteriale fu data ai Padri Domenicani, che vi eressero di sopra il nuovo tempio della Sanità, la cui fabbri- ca si compì nel 1610, e nel 1614 si alzò la cupola; fino a questo anno la sottoposta cripta o basilica cimiteriale di S. Gaudioso era tut- tora intatta. Dopo il 1614 i Domenicani rinnovarono anche la detta cripta, che restava come ipogeo della nuova chiesa, per collocarvi 1) Celano , coi commenti del Chiarini , maestro Giovanni Scherillo Dell' antichi- voi. V, pag. 347 segg. Ved. pure la nostra tà e culto della effigie di S .• Maria della Guida Sacra della città di Napoli , pag. Sanità in Napoli 1873. 442 e la dotta Memoria del Ch. nostro Digitized by Google — 222 — varii corpi di Santi Martiri che Fra Timoteo Caselli dello stesso Ordine e Vescovo di Marsiconuovo avea trasportati da* Roma. In q uesta rinnovazione poca cura si ebbe dei preziosi monumenti del- l’antichità, la cripta fu ingrandita più della metà; e quindi tagliato lateralmente il monte, vi furono erette intorno intorno dieci cap- pelle, siccome ora si vedono, con rispettivi altari, sotto dei quali si collocarono i sacri corpi dei Martiri venuti da Roma , e sugli altari alle pareti il Balducci dipinse a fresco le geste dei Martiri ivi sepolti. Ciò posto credemmo sul principio che in quel restau- ro andasse distrutta la serie del Bianchini. Ma tutto questo restau- ro fu compito nel 1616, circa ottanta anni prima che il Bianchini insiem col Cardinale Cantelmo avesse osservata la serie di cui egli parla, e che vide tra il 1691 e 1702. Non pare dunque che la serie bianchiniana debba sospettarsi dipinta una volta nell’odierno ipogeo della Sanità. Sorge pure un sospetto che non vogliamo tacere. Che non avesse il Bianchini per avventura equivocata la Catacomba di S. Gennaro con quella di S. Gaudioso, ed accennato alla serie da noi osserva- ta ? In tal caso il Bianchini avrebbe letto in quelle sfuggevoli tracce di lettere i nomi dei Vescovi. Ma è strano il supporre un equivoco di simil fatta in uomo così dotto come il Bianchini; con l’appel- lazione di Catacombe di S. Gennaro si sogliono volgarmente chia- mare tutte le speciali catacombe che sono sotto .il colle di Capo- dimonte, ma nessuno mai chiamerebbe le speciali cripte di S. Gen- naro col nome di S. Gaudioso, di S. Severo, di S. Efebo. Nè poi sono orbicolari le imagini da noi scoperte , come dice di averle vedute il Bianchini; nè sono in ingressa Coemeterii, dappoiché 1 a basilichetta, ove sono le nostre pitture, è preceduta da un vesti- bolo e da un ambulacro. E perchè non osiamo nè possiamo tacciare di poca avvedutezza il Bianchini, valga un’altra congettura. Forse le parole del Bian- chini in ingressu Coemeterii S. Gaudiosi debbono intendersi non per l'odierno ipogeo, ma per le prime cripte della Catacomba, come ora vedesi, ed a cui si entra dall’ipogeo medesimo. Questa Catacomba Digitized by t^oogie — 223 — è stata vandalicamente devastata , e ridotta in gran parte a ci- mitero moderno. Noi la esploriamo continuamente e la esplorere- mo sempre; penetriamo carponi in luoghi inaccessibili e pericolosi; quel giorno che ritroveremo anche una traccia della serie accen- nata dal Bianchini, ci chiameremo per tanta scoperta non meno fortunati di quel che ci credemmo quando scoprimmo la serie dei primi nostri Vescovi nella cimiteriale basilica a S. Gennaro. A questa pertanto torniamo col nostro commento. Da quanto abbiamo finora esposto deve riconoscersi da’ritrovati frammenti di pittura come nelle nostre Catacombe Napolitane nel secolo quinto fosse dipinto il Catalogo figurato dei nostri primi quattordici Vescovi; ed ognun vede qual nuovo ed importante ar- gomento sia questo per l’ autorità del nostro libro Pontificale ; e come i primi nostri Episcopografì non solo leggessero nei dittici e sulle tombe i nomi dei nostri Pastori, ma ne vedessero dipinta la serie nelle basiliche cimiteriali. Ma sorge qui una difficoltà: se cioè i nostri Episcopografì ve- dean nelle Catacombe le imagini dei primi nostri Vescovi, quan- do poi il primo autore del libro Pontificale Napolitano , quegli cioè che ne scrisse la prima parte, segnava S. Giovanni I in de- cimoquarto luogo, par che verrebbe ad escludere i tre Vescovi, S. Marciano, S. Cosimo I e Calepodio , da noi sostenuti e collo- cati tra S. Efebo e S. Fortunato I; ammessi i quali, S. Giovanni I non sarebbe più il decimoquarto, ma il decimosesto 1). Noi rispondiamo che questa objezione avrebbe il suo valore se 1) Diciamo S. Giovanni I, decimoquarto e non decimoquinto nostro Vescovo , computando la serie senza ammettere la lacuna; e diciamo decimosesto e non decimosettimo, ammettendo la lacuna dei tre Vescovi Marciano, Zosimo I e Calepo- dio, perchè (come abbiamo accennato) il Zosimus è nelLibroPontiflcale, benché fuo- ri posto, e prima di Giovanni I; risalendo quindi da Giovanni I in su, incontrasi Zosimo , quindi mancherebbero soli Mar- ciano e Calepodio; risalendo invece da S. Massimo ne mancano tre, perchè il Zo- simo è segnato dopo. Digitized by Google sotto quelle imagini si leggessero i nomi, ed il nome di S. Giovanni I corrispondesse al numero XIIII; ma le languide tracce dell'epigrafe superstite a tutto altro par che accenni, meno che ai nomi, come abbiamo già detto. Anzi soggiungiamo che mancano le date nel libro Pontificale Napolitano ai primi nostri Vescovi, appunto perchè chi lo scrivea, non le vedea segnate sotto le loro imagini, nè le trovava nei monumenti. Che se nell’altro Catalogo dei nostri Vescovi, scoperto e pubblicato dal Bianchini, sono segnate le date a ciascun nostro Vesco- vo fin daS.Àspreno,è ormai abbastanza risaputo chequelle date so- no studio speciale di un epitomatore del Libro Pontificale, anzicchè un documento tolto da antiche memorie; basti solo notar come in quel mal riuscito computo cronologico l’inesperto abbreviatore riman- dasse S. Massimo dall’epoca di Costanzo l’Ariano all’impero di Carino e di Diocleziano , assegnandogli anni 22 di episcopato , mentre da altri documenti sappiamo che S. Massimo per breve tempo avesse retta la Chiesa Napolitana. Ci resta ora a collazionare i superstiti frammenti del Catalogo figurato con un brano importantissimo del nostro Libro Pontifi- cale nella vita di S. Giovanni lo Scriba, là dove dicesi che questo santo Vescovo: Corpora suorum praedecessorum de sepulchris in quibus jacuerant leoavit, et in ecclesia Stephania singillatim collo- cans, aptavit unicuique arcuatum tumulum, ac desuper eorumeffi- gies depinxit 1). È questa la solenne e celebre traslazione che S. Gio- vanni IV fece dei corpi di molti suoi antecessori dalle cripte e ba- siliche estramurane alla Stefania. Come questa traslazione fosse stata una vera canonizzazione, o elevazione (come diceasi a quei tempi); quale fosse la foggia delle tombe arcuate, che si vede an- cora a Cimitile nei sepolcri di S. Felice II e di S. Paolino II; quali precisamente fossero quei Santi che il nostro Scriba trasportava l) Lib. Pont. Eccl. Neap., in Joanne IV. del Libro, ed è certamente di Giovanni Questo brano appartiene alla terza parte Diacono. Digitized by t^OOQLe — m — alla Stefania; in qua) modo ivi fossero disposti; son cose tutte che richiedono altrettanti commenti, nè questo ne è il tempo; ma impor- tantissima rivelazione è quella certamente che oggi ci fanno i pre- ziosi frammenti cimiteriali a testimonianza del suddetto brano , ove dicesi che S. Giovanni sopra a quei sepolcri arcuati nella Stefania, dipingesse i ritratti dei suoi antecessori, desuper eorum ( ffi9i ea depirurit. Il desuper accenna appunto all’arcosolio, non al- trimenti che si vedono tuttora i sepolcri di personaggi insigni nelle Catacombe ; come quelli de’ Vescovi S. Giovanni I , S. Paolo III , S. Gaudioso, in queste di Napoli. Ma donde S. Giovanni avrebbe ricavati quei ritratti, effigies, nel secolo IX; come avrebbe potuto rappresentarne le tipiche tradizionali sembianze, specialmente degli antichissimi suoi predecessori, se non ne fosse esistito un Cata- logo figurato? Ne vedeva dunque S. Giovanni i ritratti nelle Cata- combe, e probabilmente questi, di cui oggi restano appena fram- menti, e forse altri che sono certamente periti. Dunque il Catalogo figurato dei nostri Vescovi nelle Catacombe venne poi ripetuto da S. Giovanni nella Stefania ; e di quelle imagini dipìnte nel secolo IX, sono prototipi quelle dipinte nelle Catacombe; sicché con tutta asseveranza possiamo credere che queir unica effigie , che nei frammenti testé ritrovati è la sola restata intatta, attraverso quat- tordici secoli, ci serbi un tipo tradizionale del nostro primo vescovo S. Aspreno. E che S. Giovanni lo Scriba nella traslazione che fece dei corpi dei suoi antecessori abbia fedelmente serbato e lo stile delle tombe arcuate cimiteriali , e le memorie segnate sulle tombe , ci viene manifestato, tra gli altri documenti, da una lastra marmorea che chiudeva una volta la tomba del nostro Vescovo S. Massimo. Fu scoperto questo importantissimo monumento nel Luglio del 1882 nel Duomo di Napoli , e noi ne fummo spettatori e testimoni. Nella cappella di S. Attanasio , detta del SS. Sagramento , fu ri- mosso il paliotto marmoreo dal dinanzi dell’ altare , e sgombra- ta una fabbrica di pietre , apparve un elegantissimo antico al- tare , racchiuso nell’altare moderno in epoca posteriore, quando prevalse il gusto del barocco. Queirantico interno altare è com- 30 Digitized by ^OOQ Le — 226 — posto di una semplice mensa marmorea che poggia sopra due grifi, che la sostengono con le ali spiegate 1). La parte dinanzi era- chiusa da una massiccia tavola di marmo così bene incastonata, che l’orlo superiore combaciava in un solco tracciato sotto la men- sa, per modo che non potesse svellersi; nel basso della detta ta- vola era il foro o feneslrella col craticcio. Con grande fatica si giunge a rimuoverla, ed apparve la fornice , o cameretta sotter- ranea, in fondo della quale è il sarcofago col corpo di S. Attana- sio. Questo altare interno mostrò chiaramente una doppia epoca; antichissima è quella della mensa, come ora diremo; poscia quella mensa fu collocata sui grifi per costruire 1’ altare , e adattatavi innanzi la tavola con la fenestrella, si formò la fornice in cui venne collocato il sarcofago di S. Attanasio, nella fondazione del nuovo Duomo sotto i reali Angioini. Sul labbro anteriore della mensa è- questa epigrafe 2). MAXIMVS EPISCOPVS QVI ET CONFESSOR :£ È questa precisamente la lastra marmorea originale che copri il se- polcro di S. Massimo, la quale nello sperpero di tanti monumenti del- la Stefania, che vandalicamente furono distrutti, dispersi o adattati a nuove costruzioni, servì di mensa per l’altare di S. Attanasio, e fortunatamente non ne venne raschiata l’importantissima epigrafe; a quel modo medesimo come l’epigrafe sepolcrale dell’arcidiacono Teofllatto, del secolo VII, ritrovata sotto l’altare maggiore della ba- silica di S. Restituta, il 1862, servì d’imbasamento alla tomba di S. Restituta e di S. Giovanni lo Scriba 3). Or questa epigrafe sepolcrale di S. Massimo è il più antico mo- 1) V. la Tav. II, n. 1. sepolcrale dell Arcidiacono Teofllatto del 2) V. la Tav. II, n. 1. secolo VII , ove ne pubblicammo il fac- 3) V. la nostra Memoria sull’ Epigrafe simile. Digitized by ^jOoq le — 227 — numento che resti nel Duomo di Napoli , ed uno dei pochissimi superstiti della celebre Cattedrale Stefania. Sarebbe degna di lungo commento; noi qui, a conchiusione e riconferma di quanto abbiamo finora esposto, ne accenniamo appena quanto basti al nostro ar- gomento. Il nostro Vescovo S. Massimo, nella persecuzione, che contro gli ortodossi movea l’ ariano imperatore Costanzo , moriva in esilio; il suo corpo fu, sotto Giuliano l’Apostata, immediata- mente trasportato in Napoli, e sepolto nella basilica di S. For- tunato suo antecessore, fuori le mura, nella valle della Sanità 1), ed ivi stette fino al secolo IX, cioè fino a che fu da S. Giovanni IV trasportato nella Stefania. Esaminando la detta epigrafe, ne rileviamo che la paleografia dei caratteri , la mancanza della si- gla SCS (SANCTVS) il titolo EPISCOPVS , il nobilissimo appel- lativo di CONFESSOR, la forma del monogramma; ci menano indu- bitatamente alla conchiusione che quell’epigrafe è del secolo IV, ed è precisamente quella che chiuse la prima volta il sarcofago di S. Massimo, nelle Catacombe. Chi avesse vaghezza di conoscere l’importanza di questo titolo sepolcrale del nostro S. Massimo, legga la dottissima illustrazione ehe il eh. de Rossi fa dell’epigrafe di S. Siro primo vescovo di Pavia, ove ampiamente tratta dei Titoli sepolcrali dei Vescovi e loro formole nei primi secoli 2). Dopo ciò sorge assai spontanea la domanda: Se l’epigrafe del Maximus Episcopus è del secolo IV, avrebbe dovuta rinvenirsi piut- tosto alle basiliche estramurane , in una delle quali fu sepolto S. Massimo al secolo IV , e non nel Duomo , ove fu trasportato nel secolo IX. Rispondiamo che il corpo di S. Massimo dovette essere trasportato dalla basilica di S. Fortunato nella Stefania al 1> V. la nostra Memoria sull* Origine della Catacomba di S. Severo in Napoli , letta neirAccademia di Archeol. Lettere e Belle Arti, e pubblicata nel volume Xll degli Atti. 2) De Rossi, Ball. Arch. Crist ., Ser. IH,, anno 1876, pag. 8Ssegg. Digitized by Google — 228 — secolo IX con tutto il sarcofago che lo racchiudeva: nè di cosif- fatte traslazioni mancano esempi; sappiamo che il corpo di S. Ci- rillo Apostolo degli Slavi deposto dapprima da Adriano II nel Va- ticano fu poi con l'arca marmorea cum locello marmoreo trasfe- rito a S. Clemente ed ivi collocato dentro un monumento a que- st'uopo preparato, in monumento ad id praeparato 1); le reliquie dei SS.Eutichete ed Acuzio vennero trasportate da Pozzuoli in Napoli nel secolo Vili dal nostro Vescovo- Duca Stefano II, e collocate nella Stefania con tutto il biphido sarcophago, che vedesi ancora nel no- stro Duomo 2); di S. Attanasio nostro Vescovo sappiamo che nel 877 venne il suo corpo tolto da Montecassino e restituito a Napoli, e fu collocato pel viaggio in una cassa di legno, e trasportato alle Catacombe fu ivi sepolto cum ipso locello cum quo adductus est 3); nè questo locello ligneo fu disperso nella distruzione dei tanti monumenti della Stefania nel secolo XIII, e quei frammenti di legno abbiamo noi medesimi osservati nella ricognizione fatta- ne il 1862. Nè vale il dire che nel secolo IX S. Giovanni lo Scri- ba nel trasportare i corpi di molti suoi antecessori dalle basiliche cimiteriali estramurane, corpora suorum praedecessorum de se- pulcris, in quibus Jacuerant, levavit; poiché oltre ad indicarsi col levaoit la canonizzazione e non la semplice rimozione, il fatto di S. Massimo è speciale, trattandosi di una lastra marmorea, e non di un loculo tufaceo cavato nella parete ; e però il nostro santo Scriba non avrà potuto trasportare i sarcofagi cavati cogli arco- solii nel tufo, ma bensì le epigrafi , e le marmoree lastre che ne chiudevano i sepolcri. Ma del sepolcro di S. Massimo speriamo occuparci di proposito ; per ora il trasporto della sua epigrafe e lastra sepolcrale fatta dalle Catacombe alla Stefania insieme col suo corpo è per noi un argomento che sempre più ci attesta come 1) De Rossi, Bull. Arch. Crist., Ser. I, anno I, pag. 12. 2) V. Stornajolo, Ricerche stfmonumenti dei SS. Eutichete ed Acuzio , ove pubbli- ca il fac-simile di questo piccolo sarco- fago. 3) V. Acia translationi8 S. Athunasii, Bolland. 15 Jul. Digitized by ^jOoq le — 229 — i nostri antichi Episcopografl nel comporre il libro Pontificale te- nessero dinanzi agli occhi oltre i sacri dittici, anche le imagini , i sepolcri, i nomi e le epigrafi dei nostri Vescovi; e poiché di quelle epigrafi le più antiche accennavano i soli nomi, indi anche la du- rata degli anni , e poscia pure l’indicazione del consolato, ed il dì della deposizione, per ciò appunto gli Episcopografl segnano dei primitivi Vescovi appena il nome, e man mano degli altri danno più ampie notizie. E l’epigrafe primitiva di S. Massimo, splendido monumento della storia ecclesiastica napolitana, segnando appena il nome, la dignità ed il titulus confessioni , senza altro, dà una nuova smentita alla cronologia, che dei nostri Vescovi dei primi secoli fu ideata dall'epitomatore del Catalogo detto Bianchiniano, in cui si assegnano a S. Massimo anni 22 di episcopato, aggiun- gendovi i più strani anacronismi. Conchiudiamo adunque come l’ importante scoperta dei super- stiti frammenti del Catalogo figurato , ritrovati nelle Catacombe di S. Gennaro, sia un insigne documento dell’autenticità del no- stro Libro Pontificale , i cui compilatori lo trascissero dietro la norma dei dittici, delle imagini, delle epigrafi e dei sepolcri. Così le pazienti investigazioni , che da oltre a cinque lustri facciamo nelle nostre Catacombe, apparecchiano, quando che sia, una com- pleta istoria dell’antica Chiesa Napoletana. Quello poi che ci torna di somma consolazione si è che con queste scoperte possiamo pre- sentare la più antica imagine del nostro Protovescovo S. Aspreno. si Digitized by t^OOQLe Digitized by {jOOQie Digitized by ^jOoq Le tu de M*t« Digitized by ^jOoq Le Digitized by t^oogie Lunghezza del dipinto Digitized by M A R S I A. MEMORIA LETTA ALL’ ACCADEMIA nella tornata del 19 Agosto 1888 DAL SOCIO M. KERBAKER La favola di Marsia scorticato da Apollo ci offre un esempio as- sai curioso di quell’elemento irrazionale, tuttavia inerente ai miti greci, che tanto offende il senso morale e dà più filo a torcere al- l’ermeneutica simbolica. Il famoso Sileno non è reo di altra colpa che di essersi fatto emulo del Dio citaredo, mercè l’invenzione del flauto e il perfezionamento della musica auletica. E 1’ arcipotente Dio olimpico,’ dopo di aver provocato alla gara musicale il semi- dio ed esserne stato proclamato vittorioso, per un giudizio cavil- iosamente estorto , (poiché riconosciuta 1’ eccellenza artistica del Satiro , non per altro fu data la palma al Dio se non per aver egli aggiunto il canto al suono della lira), sanziona cosifatta vit- toria con tale vendetta, che non si può immaginare la più atro- ce ! Il supplizio raccappricciante dello scorticamento viene ese- guito proprio da lui, dal precettore delle Muse, dal poeta divi- no, in cui si vede impersonata l'idea dell’armonia e della bellezza cosmica. Nè serve il dire che esso, il Aglio di Latona e di Giove, possegga tra i suoi attributi, oltre la cetra d’oro, l’arco altresì e la faretra gravida di dardi micidiali: simbolo dei fieri castighi, onde il Genio dell’arte e dell’intelligenza ordinatrice doma la protervia Digitized by {jOoq Le — 232 — delle forze sconsigliate ed anarchiche. Nel caso del Satiro flauti- sta manca veramente ógni motivo ed oggetto adeguato alla ter- ribile collera del Lungisaettante. Non vi ha lotta, ma soverchieria; non impeto d'ira, ma astio ed invidia; non punizione, ma ven- detta e carniflcina. La singolarità di questa favola diede per tem- po nelTocchio ai Mitologi, i quali si sono tormentati in vario modo a spiegarla , così col sistema del simbolismo storico come con quello del simbolismo morale. Nel mito di Marsia si volle vedere da taluni un tratto di storia dell'arte musicale, H contrasto, cioè, e l’antagonismo tra la musica frigiolidica e la grecodorica, tra due arti o scuole diverse e riva- li, l’auletica e la citaredica; l'una forestiera, l’altra nazionale. Niu- no ignora che l’uso della musica a ballo e della coreutica sacra, istrumentata col flauto, venne importata tra i Greci dalla Frigia in una col culto di Cibele e con quello affine di Dioniso, famosi pei loro riti, orgiastici; e che invece l’arte di accordare il suono della cetra col canto fu in Grecia magistero antichissimo e assai popo- lare , specialmente tra i Dori , siccome quello che era particolar- mente consacrato al culto di Apollo. Ciò ammesso, si argomenta dai detti simbolisti che la musica auletica, venuta in concorrenza colla citaredica e rimasta soccombente, abbia dato origine al mito in questione, trasformandosi la gara delle due Arti in quella dei due Genii posti a rappresentarle. Gli antichi, adunque, dicendo che Apollo aveva levato la pelle a Marsia avrebbero scientemente al- legorizzato, per far intendere che la cetra aveva alfine disgradato il flauto, la musica dorica soppiantato la frigia. Non è qui il luogo di fare la critica di codesto sistema di erme neutica mitologica. Vuoisi tuttavia notare, nel nostro caso partico- lare, come ripugni ad ogni retto criterio storico il riguardare come inventato a bello studio e in tempi relativamente avanzati e di pro- gredita cultura un .mito popolare antichissimo, che si sa essere stato celebre da tempo immemorabile, anche presso i popoli bar- bari (i Frigi), dai quali i Greci l’hanno appreso. Però contro l’accusa di anacronismo e di anatopismo che la scuola simbolica così detta classica o tradizionale si tira addosso, colle sue ricostruzioni stori- Digitized by v^oogie f — 233 — che, si schermiscono i suoi seguaci, spiccandosi alto da terra, cer- cando cioè la significazione del mito nei concetti astratti enei docu- menti della morale , anziché nei fatti della storia. Dove pertanto e in qual tempo la nostra favola sia stata inventata più non si chiede, ma si cerca d’inferire dal suo costrutto, essersi voluto a- dombrare colla vittoria del Dio sul Demone la superiorità della musica ideale, fida compagna della voce e sincera interprete del pensiero, sulla musica sensuale , che suona e non parla, servile imitatrice dei moti ciechi e violenti della passione. Il personag- gio di Marsia altro non sarebbe che l’arte meccanica, strepitosa, ed ammaliatrice del senso che rimane vinta e sfatata dall’arte più squisita ed intellettuale. Questo considerare il mito come un pro- dotto della riflessione e del pensiero astratto costituisce 1’ errore fondamentale della vecchia teoria che scrutava dentro i miti « una sapienza riposta » trovata da pochi savi ed espressa con allegorie molto sottili ed enimmatiche, studiate a bella posta perchè a po- chissimi riuscissero intelligibili. Quanto vi sia di fallacia q.el metodo di codesti simbolisti si può scorgere subito da ciò, che appena essi hanno ghermito per aria un rapporto analogico tra un incidente mitico ed un qualche fatto storico o morale pigliano subito il largo , cansando l’ obbligo di spiegare quello appunto che nel mito ha più bisogno di spiega- zione, vale a dire la visione mostruosa e teratologica, che ne co- stituisce il nucleo e il cardine fondamentale. Chi non vede nel caso nostro come le particolarità più caratteristiche del mito non si pre- stino per alcun verso all’accennata interpretazione allegorica? 1). 1) L' interpretazione allegorica qui accennata dovette probabilmente affacciarsi alla mente dell’Alighieri, quando nel primo canto del Paradiso invocòApollo ispi- * ratore alle nuove melodie celestiali con quei versi: Entra nel petto mio e spira tue , Siccome quando Marsia traesti Della vagina delle membra sue . SoLo parlandosi di un Marsia simbolico può non parere sconveniente tale allusio- Digitized by Google — 234 — O non vi era altra invenzione più adatta a rappresentare la su- periorità della cetra sul flauto, della musica ideale sulla sensua- le , fuorché quella scena da macello? Ed era necessario raffigu- rarvi in atto di effer ato manigoldo il Dio Apollo, quel tipo di ar- tista divino , improntato di una maestà graziosa e sublime? E come poteva essere presente e consenziente al supplizio la Dea Cibele , se Marsia era il rappresentante della musica e del culto a lei consacrato? E le altre concomitanze del mito: il nome, l’o- rigine , il carattere di Marsia, i Sileni testimoni al giudizio, la pelle appesa alla grotta, il fiume omonimo indi scaturito, come ci entrano , come si combinano colla enunziata allegoria? L’as- sunto di spiegare i miti per via d’ inferenze immediate ed ipote- tiche , senza averne prima discorsa la storia , cioè , senza averli prima studiati nelle loro varie e successive tradizioni, non è meno temerario che quello di voler fare della etimologia , senza aver prima seguito la serie delle trasformazioni organiche, per le qua- li i vocaboli sono passati, prima di acquistare una determinata forma 1). Soltanto pel tramite degli elementi tradizionali, sparsi no, che al Tommaseo parve crudele e spietata, si da poterne arguire «che l’ani- mo del poeta si venisse esasperando cogli anni! » 1) L’interpretazione evcmeristica del mito di Marsia è stata adottata dal Duncker (Geschichte des Alterthums, 1), il quale dopo aver accennato al primo uso che si fece del flauto frigio, presso i Greci, come accompagnamento al canto delle elegie di Callino e di Archiloco (8.° sec. av. C.) ricorda il detto mito, come simboleggiante la grande ripugnanza dei Greci delle colonie asiatiche ad accogliere nelle loro città la strepitosa musica del flauto, troppo, a loro giudizio, inferiore a quella tranquilla e maestosa della cetra. L’ articolo Marstjas del Dictionary of Greek and Roman bio- graphy and mythology , edito da W. Smith , dà per indubitabile , la derivazio- ne del mito dall’antagonismo delle due scuole musicali. Secondo il Vico (Scien- za nuova, lib. 11) «la contesa di canto tra Marsia ed Apollo è una contesa Eroi- ca d’ intorno agli auspici , dovendosi intendere il cantare nel senso di predire . Marsia vinto è carattere de' Plebei c il suo scorticamento è simbolo della fierez- za delle pene Eroiche. Apollo Dio della Divinità ossia della Scienza della Divinazio- ne ci figura come Dio della Nobiltà , alla quale solo apparteneva la Scienza degli Auspici n— Tutta Termencutica mitologica del Vico , elaborata fantasiosamente sul postulato che «le Mitologie sono Istorie Civili de’Primi popoli (Scienza nuova, lib. I, Del Metodo) procede su questo andare. La diffusa sposizione che Pietro Giordani Digitized by VjOoq le — 235 — nelle varie leggende dei popoli arii, è possibile risalire alla tradi- zione primitiva di un dato mito, la quale sotto il velo ancor dia- fano del simbolo, ci consenta di scorgerne il senso naturale. Che il mito di Marsia sia originario dalla Frigia risulta non pure dalla espressa informazione di Erodoto e di Senofonte, ma dalla sua attinenza col culto asiatico della Dea Cibele, nonché da alcune cir- costanze del racconto e dal nome stesso del demone eroe. La leg- genda tragicomica dovette passare in Grecia per mezzo delle co- lonie dell’Asia minore, molto tempo prima delle guerre persiane, ma certo, dopo l’età di Omero e di Esiodo, che della medesima non ci danno il menomo cenno. Il satiro Marsia, detto anche per antonomasia il Sileno, od il principe dei Sileni, ebbe in Grecia e specialmente tra le genti joniche un culto assai popolare, che lo celebrava come un Genio industrioso, arguto, loquace , beffardo anche e petulante, ma in fondo dabbene e benevolo. La sua sta- tua eretta nei tribunali era simbolo di quella libertà e franchezza di parola («appjj ola) a cui si deve ispirare 1’ eloquenza forense. Di questo Marsia simbolico, passato di Grecia in Italia, vedeasi il si- mulacro innalzato in quello spiazzo del foro romano , dove con- venivano gli avvocati e i causidici. L’atteggiamento in cui era effi- giato, colla destra alzata e l’indice teso, doveva significare la vis oratoria , non già, come avvisano alcuni , la severità dei giudizi e la triste sorte riservata ai litiganti spacciati 1 Sul carattere del demone Marsia abbiamo un’ aurea testimonianza nel Convito di Platone, là dove Alcibiadp si assume di dimostrare la perfetta somi- glianza esso tra Marsia e Socrate. Riconosciuto calzante il confronto per ciò che riguarda le fattezze del volto famosamente grottesco , fa della favola di Marsia, nel suo Discorso sulle pitture d* Innocenzo Francucci, ci offre un esempio amenissimo delie aberrazioni cui può trascorrere l' allegorismo simbolico. L'eloquente letterato piacentino che trovava nella Mitologia « un anti- chissimo raccolto di civile sapienza » vide nel mito di Marsia dimostrato in figura: qualmente i signori prepotenti; avidi di quella fama che viene dalla dottrina, perse- guitino e riescano ad opprimere i veri dotti che sono di loro meno potenti e trop- po più ingegnosi 1 Digitized by Google — 236 — dimostra Alcibiade come ben si riscontrino l’un coll’altro, il mae- stro e il demone, anche rispetto alle qualità morali. Trovasi in- fatti che Socrate nella sua scnietta bonarietà ha pur molto del bur- lone e del petulante. E tutto sembra arieggiare di Marsia quel non so che di magico che risuona nella parola di lui , quel fa- scino della voce somigliante al suono del flauto, che ha la virtù di far balzare il cuore, conturbare l'anima e spremere dagli oc- chi lagrime di tenerezza e di compunzione. Tal quale il Sileno , sotto un aspetto zotico ed apatico, Socrate cela un’anima tutta ar- dore e gentilezza; è invasato di amore e nello stesso tempo sag- giamente temperato e forte. L’ arguto e faceto paragone , fatta la debita tara allo spirito comico dell’autore, accenna insieme al ca- rattere ideale ed alla celebrità che dovette avere in Grecia il per- sonaggio mitico di Marsia. Il quale, in grazia appunto della sua popolarità, diventò uno dei soggetti più favoriti delle arti figura- tive. Scolpito da Prassitele, dipinto da Poiignoto , figurò special- mente in un quadro famoso di Zeusi, quello del « Marsia lega- to ». È però notevole che gli artisti nel rappresentarne il supplizio non lasciassero ben discernere se ciò facessero per glorificare il Dio, o per commiserare il Demone, se rammentassero un solenne castigo od un indegno martirio. Ci rimangono de'cammei e bassi- rilievi, rappresentanti il così detto Apollo tortor, che da una mano tiene il coltello, dall’altra regge penzoloni l’intiera cotenna strap- pata alla sua vittima. In certe pitture seriori, come ne rende testi- monianza un affresco pompejano, il coltello si vede levato di mano al Nume e dato ad uno Scita che fa le funzioni di carnefice. Ma per codesto palliativo, suggerito da non so quale scrupolo di lesa reli- gione, non viene rimossa l’odiosità del Dio ordinante siffatto sup- plizio, nè riesce meno ambiguo il senso della favola rappresenta- ta. Pare che coll'andar del tempo gli artisti, nel trattare il soggetto di Marsia, più che a rispecchiare il racconto genuino della leg- genda, mirassero a vincere un punto arduo di perizia tecnica, mercè la rappresentazione anatomica del corpo umano. 11 Marsia legato al pino e scotennato , del quale Otofredo Mailer ci addita due bassorilievi antichi, rivela chiaramente l'intendimento tecnico, Digitized by ^jOoq Le — 237 — che in tale lavoro guidò la mano dell’artista, studioso sopra ogni altra cosa del vero naturale. Il magistero descrittivo fini per obli- terare del tutto, anche nella tradizione letteraria, il primitivo ca- rattere ideale e leggendario di questo personaggio mitico 1). Però la leggenda del Semidio scorticato dovette rimaner viva nella tradi- zione popolare, sì da potersi trasformare, nei primi secoli dell’era cristiana, in quella del supplizio di S. Bartolomeo, originaria del - l’Asia minore; alla qual regione sempre accennano gli Annali ec- clesiastici , nel fermare in questa o quella città il luogo dove il Santo fu martirizzato. I rapporti dell’antichissima iconografìa cri- stiana coll’arte classica sono stati in questi ultimi tempi messi in tal luce , che il riscontro storico del tipo di S. Bartolomeo con quello di Marsia non può dirsi fondato sopra una vana ipotesi. U S. Bartolomeo tradizionale, di cui Michelangelo seppe disegnare nella Capella Sistina r esemplare più maraviglioso , sarebbe , al pari di altre sacre immagini, la restaurazione di una figura tipica dell’antica, mitologia. L’ origine etnica o, diremo, la nazionalità del mito di Marsia ci scorge alla ricerca del ciclo religioso e mitologico a cui genetica- mente appartiene. La mitologia dei Frigi rivela, così nei nomi di parecchie divinità come .nella tessitura di alcune favole, una non dubbia parentela colla mitologia indoiranica. I nomi di BoYaios, o Ma&is che nel lessico di Esichio figurano come sopran- nomi del Opvqios ci riflettono il Bhaga vedico e zendico (il Dio largitore o dovizioso) e l’Ahura-Mazda, il Dio supremo dello Zen - davesta. Il Dio Saputo? che i Greci identificarono col loro Dioniso è un riflesso evidente dell’iranico Haóma e dell’indiano Soma, cui l) Ispirata dalla vista di un quadro di tal genere sembra la descrizione si viva e pittoresca che del Marsia scorticato ne diede Ovidio (Metani, lib. VI, v. 882). Nec quidquam nisi vulnus erat, cruor undlque manat Detectique patent nervi trepidaeque sine utla Pelle micant venae, salientia viscera poesie Et perlucentes numerare in pectore fibras. « Digitized by Google — 238 — sembra accennare col suo stesso notnel). Il suo luogo natale fjiNSoa presso il fiume Tpftwv (che rammenta la deità vedica dell’ oceano aereo, Trita, non che il Traethona Zendo ed il Tptiwv e l’ ’AjiqiKptoi ellenici) ; che fu certo una città mitica, prima di essere nomina- ta come una delle tante città omonime deli' Asia minore. Origi- nario della Frigia è il nome del monte Olimpo , come di pret- to stampo asiatico è il nome del Tartaro 2). La lotta tra Giove e i Titani , prima di essere localizzata in Tessaglia , raccontassi avvenuta in quelle regioni dove le tribù , onde crebbe la gente ellenica , stavano unite colle frigie in un solo aggregato etnico. La gran madre Berecinzia , la Dea Cibele , quale era rappre- sentata nella più antica religione dei Frigi , rende un’ immagine somigliantissima della Dea iranica Ardvi Qùra Anàhita : l’ abita- trice dell'Hara berezaiti, il monte eccelso, ricettacolo e fonte delle correnti celesti, limpide e salutari, che corroborano e purificano lo spirito ed il corpo. Ardvi Qùra è coeterna figlia di Ahura Mazda e sua compagna ed adjutrice nell’opera della creazione, epperò sovrasta a tutti gli altri Genii divini combattenti contro Anhro Mainyus, per la conservazione del cosmo. 1) Poiché era il nome così de* luoghi consacrati a Sabazio , come dei sa- cerdoti a lui addetti , 1* etimo di tal voce, tuttora molto incerto, si può legittima- mente derivare dal tema ario asiatico sava (sanse, sava, savanam , liquore, liba- zione del Soma), riconoscendo nel fi un continuatore frigio del v originario, ^ita- lico sabu-sibu che vale «pieno d* umore, sugoso» accusa anch’ esso un antico sdoppiamento dialettale della cosi detta radice su, in sooa e saba (tod. Saft). Anche il Alierò* che Esichio chiosa semplicemente «AioWoc» stato giustamente raffrontato col Liber latino, è da credersi frigio-macedone, se si tien conto deir altra glossa: AtifinQpov, roVor eV Maxtor /a. 2) Quanto al nome di nD®’», la città mitica, ove Dioniso fu allevato, esso è formato sullo stampo di altri nomi frigi, e pare che stia per Xnr rj* che si deriva da una ra- dice verbale significante « ondeggiare, irrigare, nutrire irrigando, (gr. wni-ui lat snu-tri-re)— Tapr«f>of è nome aryo asiatico, derivato dalla rad-far, riflessa nel greco rip (rtjp-/u*) , analogo al tema verb. vedico tartara ed allo zendo tttara, che porta il senso di « andar oltre, traversare »; onde il talatala, nome dell* inferno indiano, sa- rebbe, secondo la congettura del Benfey (Abhand. der K. Gesellschaft der Wissen- schaften zu Góttingen, B. XXII.) il continuatore dell'Aryo taratara . Digitized by ^jOoq Le - 239 — Le innegabili analogie mitiche che questa Dea, secondo la de- scrizione che se ne fa nel 5° Yasht , ha colla Ushas od Aurora vedica fanno credere che funa e l’altra sieno un riflesso di quella più antica Deità femminile, nella quale i popoli Arii personifica- rono la sostanza luminosa , distinta dai grandi luminari e par- vente nel fenomeno dell’ Aurora. Vero è che questa Dea venne confusa, non altrimenti che la frigia Cibele, colla Dea Semitica Astarte od Aschera o Baalti, mediante quel sincretismo religioso che cominciò nell’Asia occidentale negli ultimi tempi dell'impero degli Achemenidi e si compiè durante il regno dei Seleucidi 1). Ma troppo grande è il divario tra l’una e l’altra ! Presso gli Arii il principio femminile , adorato in persona della Dea madre, era inteso principalmente nel suo significato cosmogonico e metafi- sico, laddove presso i Semiti , come è dimostrato dal culto della gran Dea Siriaca e Babilonese , era riguardato nel suo aspetto fisiologico ed umano. Ardvi £ùra splendida di gioventù e di bel- lezza è pur sempre una Dea austera, operosa e guerriera, come un’ Atena- Alalcomenia , la vigile soccorritrice dei Geni divini e 1) In proposito del V Yasht consacrato ad Ardvi £ùra il Justi nel suo più recente lavoro « Geschichte der Orientalischer Vólker in Alterthum. Berlin , 1884, pag. 339, osserva che questo Yasht , la cui redazione appartiene agli ultimi tempi di Sassa- nidi , contiene resti di una tradizione antichissima , i quali si possono ricono- scere dal fatto che essi alludono ad una società patriarcale di costumi sempli- cissimi, al tutto aliena dalle gentilezze e raffinatezze dell'età cosi dette storiche. Dimostra che questa Dea si chiamava da principio soltanto Ardvi Cùrae che il so- prannome di Anàhita sei prese dopo, verso i tempi di Artaserse Mnemone, quan- do essa fu identificata colla Dea Semitica, e onorata con templi e statue, cosa inso- lita ai Persiani, come Dea della generazione. Il De Harlez (Avesta, trad. du text zend, pag. CVI) pur mostrandosi incerto, se alcuni attributi di Ardvi Qùra, descritti nel detto Yasht, sieno propriamente mitici, oppure allusivi alle immagini sacre con cui era figurata, dice: Ardvi £ùra est une création óranienne, une conception physi- co mythique d'une eau còleste. Le caractère mixte de ce culte (Ardvi fùra ed Astar- te) est probablement la cause des maledictions que le Yesht V profére contre ceux qui honorent Ardvi Qùra autrement que la lois mazdóenne le prescrit » Ardvi (torà vale « irrigatrix potens » (diottra xvfia). Quanto ad Anàhita è assai probabile la sua derivazione Semitica (babil. A nakhitu) sebbene retimo ne sia tuttora molto incerto. Digitized by Google — 240 — degli Eroi che combattono contro i Daevi. La gran Dea dei Frigi era pur essa abitatrice deU’alte montagne, detta perciò lofajp ìSala, èpe (a , interpretandosi probabilmente il suo soprannome di Agdisti che vuoisi significasse « stante sulle vette ». A tale at- tributo mitico allude pure il nome di Ku^Xij od altrimenti Ktifty'Pi], o Ku/?jjx)j , se crediamo alla glossa di Esichio ( K$/3eXa , xat fiv®pa xai SaXapoi ) che del resto s’ accorda colla derivazione etimologi- ca di tal nome dalla radice Kubh « piegarsi in volta , far dos- so ». E come i monti erano a lei sacri, così i fiumi e le fonti .che ne scaturivano. A quel modo che Ardvì Qùra custodisce nel suo soggiorno Haoma , cosi Cibele fa da nutrice a Sabazio, il Dio di Nisa (A/ovùo/o;). Anche la rappresentazione simbolica di Cibele colla corona di torri, coi leoni, da cui è tratta o su cui sta assisa, col- 1' albero di pino , ben corrisponde alla descrizione che il citato Yasht ci dà di Ardvì Qùra. La quale si vede pur ritratta, non gran fatto diversa da una Cibele, in una medaglia del tempo dei Sas- sanidi, in forma di giovane donna vestita di tunica militare, ritta in piè sopra un leone , armata d’ arco , di strali e di turcasso , con un alta tiara, e con certe stelle sui lembi della veste e sul capo. Nella descrizione del Yasht un barepma gigantesco (la pian- ta associata alla ceremonia sacrificale , originariamente identica al barhis vedico) tiene il luogo del pino. Una Dea partecipe degli attributi comuni alla Dea iranica ed alla frigia era quella vene- rata in Cappadocia con quel nome di Mà o Madre, che pur si dava a Cibele, e che dagli scrittori greci fu identificata con ’Evwó e dai romani con Bellona, sebbene il culto vi apparisse già con- taminato dai riti fanatici e licenziosi delle religioni siriache 1). 1) La confusione dello due Divinità, Cibele ed Astarte, influì pure nella leggenda di Marsia, circa i rapporti che questo Demone doveva avere colla gran Dea Frigia, somiglianti a quelli dei Daevi iranici con Ardvì (ur&. Secondo la versione eveme- ristica di Diodoro siculo, Marsia, valente artista, diventa amante di Cibele, figliuola di Meone e Dindima, rè di Frigia. Si accompagna qualche tempo alla bella errabon- da, per cui era già capitato male il giovanetto Atti, ma è da essa dispregiato e po- sposto ad Apollo, che fatto suo rivale in amore e in arte, lo sfida, lo vince e ne fa. Digitized by v^oogie — 241 — Nella mitologia frigia è facile riconoscere uno sprazzo del duali- smo iranico, se si riguarda alle varie sue leggende di Semidei e Demoni , (Tantalo, Niobe, Mida..) ribelli e sfldatori della potenza divina. Quei carattere di crudezza e ferocia tragica che già gli antichi Mitologi vi han ravvisato, attribuendolo all’ingenita ruvi- dezza della nazione , od alla vicinanza de’ popoli barbari , fu in- vece effetto della concezione dualistica ond’era informata la reli- gione dei Frigi. Nelle leggende greche che si connettono colle tra- dizioni frigie si può scorgere quasi la coptinuazione di quella gran- de lotta o ribellione titanica. Non è malagevole ad esempio rico- noscere tale carattere nei miti in cui si narra l’empietà dei figli di Eolo (Salmoneo, Sisifo, Atamante) provocatori audacissimi ed ol- traggiatori degli Dei; miti localizzati nella Tessaglia, che fu stan- za delle più antiche tribù venute per la Tracia dall’Asia e riten- ne in più nomi di città e mòntagnei nomi stessi importativi dal- la Frigia. Dalle cose dette appare che il duello tra Apollo e Marsia do- vette avere originariamente un carattere titanico e cosmogonico, chè non si rivela punto nella leggenda greca. Il nome stesso di Marsia (MapoOa?) non è greco. Nello Zendavesta è mentovato più di un mal Genio col nome di Marshaono, che risponde etimolo- gicamente a Mapoùa; e vale « mortale o mortifero » aggiuntovi per lo più 1’ epiteto ithyeyành che vale « di questo mondo , cadu- co , corruttibile ». Codesto nome di Marshaono si applica a pa- recchi Daeva, quali Zaurva, il Genio della vecchiezza, e Buiti il Ge- nio della magia, e non accenna veramente ad un particolar per- sonaggio mitico , ma può bene da nome qualificativo e generico essere diventato nome proprio e individuale, per designare qual- istigante l’amasia, quel terribile scempio! Qui è palese l’innesto della religione se- mitica sulla frigio iranica, poiché la Dea allettatrice ed omicida de’suoi molti aman- ti, altra non può essere che l’Astarte-Aschera dei Sirofenici , che ha una parte co- spicua nei fasti assirobabilonesi in persona della favolosa Istar, e della leggenda- ria Semiramide. 11 Demone combattente , e vinto dal Dio emulo col concorso della Dea diventò cosi un amante sacrificato. Digitized by Google — 242 — che demone della tradizione popolare. Nello Zendavesta , come è noto , la lotta tra Ahuramazda ed Anromainyu, tra i Genii della creazione e quelli della distruzione, viene rappresentata per mezzo di un vasto e ben architettato schematismo , con cui si abbrac- ciano tutte le forze operanti del mondo fisico e morale , raffron- tandosi continuamente ciascuna di esse colla sua contraria. E nin- ni agi n are che si fece codeste forze combattenti come altrettanti Geni intelligenti ed operosi diede origine ad un gran numero di leg- gende, il cui argomento, variato infinitamente nei particolari, era sempre il Dio o 1’ eroe divino duellante col suo speciale antago- nista ; come bene si può ancora rilevare dalla grande epopea di Firdusi , che appunto raccolse gran parte di quelle leggende di- vine già trasformate in leggende eroiche. Il fatto del trovarsi nella mitologia iranica il tipo generico e quasi il nucleo ideale del mito di Marsia, ci mette in grado di rapportare la leggenda greco fri- gia alle prime origini della mitologia indoarya , dove 1’ epopea divina appare lucidamente specchiata nella fenomenologia na- turale. Quale è dunque l’origine e la ragione della particolare forma leggendaria che assunse la favola di Marsia? quale il significato degli incidenti miracolosi ond'è contessuta? Nella mitologia com- parata tale questione vien posta nei termini seguenti: a qual feno- meno naturale o piuttosto a quale apprensione fantastica della natura si vuol riferire il linguaggio simbolico della leggenda? Co- minciando dunque dall’ incidente più notevole , quello del con- trasto musicale, vuoisi ricercare la materia primitiva, il soggetto fisico e volgarmente apprensibile , dei miti che riguardano 1’ in- venzione del suono e degli strumenti a flato. Già sappiamo che l’ inventore n’ è stato un demone , un essere soprannaturale , at- tore importante nel gran dramma cosmico. Soccorre a siffatta ri- cerca un libro di valore inestimabile, la raccolta degli Inni del Rigveda , il documento più antico e genuino , nel quale i miti ci si presentino nel loro stato embrionale , accennante manifesta- mente, nel più dei casi, alla visione naturalistica onde sono germo- gliati. E l’allusione al soggetto reale del mito riesce ivi tanto più Digitized by ^OOQ Le — 243 — sorprendente , in quanto che, accanto alla medesima se ne trova pur già bella e tracciata la figurazione simbolica, molto viva e immaginosa , nella quale ricorrono evidenti le analogie con que- sta o quella particolare figura della mitologia indoeuropea. Trovan- si pertanto nel Rigveda certi Demoni d’indole assai torbida e ma ligna, che fan professione di sonatori anzi di flautisti, e sulla cui vera natura non si può avere il menomo dubbio. I Maruti, ossia i venti che rompono il cielo nuvoloso e fanno scoppiare la tem- pesta, non pure sono celebrati come prodi cavalieri e combatten- ti, alleati temuti del Dio Indra nelle sue battaglie celesti, ma al- tresì come valentissimi nel sonare il flauto ( soaritàras , oanìnas), al qual uopo van provveduti di appositi strumenti detti oanàs (cioè: canne) in cui soffiando di tutta lena si fanno sentire dalla lon- tana. L’invenzione del vana o flauto indiano, venne quindi attribuita ai Maruti ed a Rudra , loro padre e capo; dovendo parere molto verosimile che tale arte fosse stata trovata da coloro che ne trae- vano gli effetti più maravigliosi 1 La musica artificiale ed umana dovette perciò sembrare una imitazione di quella naturale e divi- na. In questa illusione non eravi mera fantasmagoria , ma senti- mento schietto della natura. Il soffio dei venti , che trascorrono impetuosi frammezzo alle selve o per le forre dei monti, diventa onda sonora ed acquistatali e sì varie modulazioni, acute o gravi, stridenti o fluide, concitate o lente, vibranti e minacciose, oppure sommesse e gemebonde, da rendere veramente l’immagine di un suono prodotto ad arte. I Genii musicanti dovevano pur essere gl'inventori della musica. Effetto naturale del sentimento religioso è codesto trasferire che fa l’uomo nel suo idolo divino i suoi pro- prii sentimenti, le sue attitudini, i trovati dell’arte sua. La musica dei Maruti ha veramente effetti magici ; scuote e fa crollare la rocca di Vritra, il demone rapitore e nasconditore dei tesori celesti, spiana i sentieri ed aggiunge lena e coraggio all’e- roe divino (Rv. I, 62 , 4 — III , 30 , 10). È anche notevole la pos- sanza di tal musica a dissipare le tenebre notturne, allorquan- do « esso il Forte riconduce al cospetto dei due parenti (Cielo e Digitized by ^jOoq Le Terra) il Toro , (il Sole) » (Rv. VII, 31 , 7, 8) ; onde i devoti sa- lutano il Dio guerriero coll’ augurosa apostrofe « Ti sia compa- gna la musica dei Maruti, che s' avanza colla luce del giorno ». Codesta musica pertanto è suono di battaglia insieme e di trion- fo: « Egli (Indra) ha sgombrato i sentieri (dell’aria); ha tratto fuori gli armenti, mentre i flauti soffiando esaltavano il glorioso ! » (Rv. Ili, 30, 10). I Maruti , quantunque posti ai servigi d' Indra , Dio provvidente e* benefico, non si debbono tuttavia riguardare come Deità cosmiche e tutelari. Non pochi indizi si scoprono nel Rigveda della loro originaria natura demoniaca, la quale a volta volta si tradisce e balena in una cotal baldanza e irritabilità selvaggia e tracotante, che li rende, agli occhi stessi del supplicante, più te- muti che venerati (VII, 56, 8). In un Inno (I, 165) è rappresentata una scena assai curiosa, in cui Indra e lo stuolo dei Maruti, ri- scontratisi, dopo non so qual separazione, si bisticciano, facendo alto sonare ciascuno la propria valentia e in fine si riaccordano come da pari a pari. Talvolta è lasciato intendere che essi hanno ceduto riluttanti ad Indra, tal altra, è detto che l’hanno abbando- nato (Vili, 12, 29) nel momento più periglioso (Vili, 7, 31). Molto più spiccata è la natura del cacodemone nel Dio Rudra, principe dei Maruti, in cui è personificato il temporale, nel suo più terribile aspetto, Genio quasi indipendente e i cui rapporti cogli Dei bene- fici e filantropi appajono molto ambigui e a volte ostili. Rudra col- pisce egualmente colle sue freccie nemici ed amici , persegue ed uccide, per puro istinto micidiale, uomini ed animali; epperògli si danno i soprannomi di « omicida, distruttore, cignale del cielo » (Rv. IV, 3, 6 — II, 33, 11) nel tempo stesso che, colle supplici pre- ghiere, si cerca di rabbonirlo e propiziarlo. Sappiamo dunque che cosa significasse nel mito naturale primitivo il Demone inventore e suonatore del flauto e come si sia prodotta l'associazione fan- tastica di tale invenzione coll'opera di un Genio malefico e di- struttore. La mitologia greca ci ha conservato una leggenda singolare sull’ origine della musica auletica , che pare direttamente deriva- Digitized by v^oogie — 245 — ta , con qualche variazione , dal detto mito naturale. La favola greca consertata colla tradizione frigia racconta che Marsia si ap- propriò il flauto che Atena gittò via, pel dispetto avuto di ve- dersi rispecchiata nell’acqua la sconcezza delle gote gonfiate nel- 1’ atto del sonare. Ma d'onde mai la Dea aveva appreso l’arte di quello stromento? Il fatto è narrato distesamente da Pindaro in un passo della duodecima Pitica, che giova riferire per intie- ro, tanta è la fedeltà con cui ò riprodotto il carattere genuino del- l’antica leggenda. Lodasi dunque, nel detto inno, Mida di Agri- gento « per essere uscito vittorioso nell’ arte che già fu ritrovata da Pallade, ritessente il funereo lamento delle temerarie Gorgoni. Al quale essa intentamente porgeva ascolto, mentre si riversava dalle non accostevoli leste serpentine delle vergini, insieme col la- grimoso travaglio !... Allorquando il figlio di Danae, cui dicono in- generato dall’oro fluente, spense la prole immane di Forco, ripor- tandone come spoglia il capo tremendo di Medusa dalla belle guan- cie. Poiché dunque la Dea liberò dai travagli l'eroe a lei diletto com- pose il nomo poli/’ono, imitando cogli strumenti il gemito sonoro che erompeva dalle celeri mascelle di Euriala. Ma come là Dea ebbe inventato cosifatto modo musicale, lo apprese ai mortali enomollo ritmo policefalo, rammentatore delle pugne salvatrici dei popoli. Il quale ora noi qui sentiam sonare, vibrato pel sottile metallo dentro le canne cresciute nel bosco del Cefiso, appo la città delle Grazie....» Nel suono della tibia (duló;) è dunque riprodotto il grido ango- scioso delle Gorgoni ed il fischio dei loro serpenti, quale fu udito da Atena, mentre Perseo stava per tagliare la testa di Medusa. Che il personaggio di Medusa sia stato originariamente simbolo della volta del cielo buja e tempestosa si raccoglie dalla più an- tica tradizione, conservataci da Omero (Odys. II, 634. II v. 741 — Vili, 349) che rammenta una sola Gorgone e propriamente la te- sta di Medusa, posta # sopra I’ Egida, il grande scudo di pelle ca- prina , che Giove scuote nell'atto che saetta, le folgori. I capelli serpentini e lo sguardo pietrificante ben si accordano colla per- sonificazione femminile dell'uragano, al quale allude pure il nome di Gorgone ( 70 ^?, violento, impetuoso, terrifico, dal tema inten- 33 Digitized by ^OOQ Le — 246' — sivo gar-g, scr. gcirg\ usato per esprimere il moto vertiginoso e strepitoso, lat gurges ?) 1). E l’Eroe Perseo concepito dalla donzella prigioniera, fecondata dalla pioggia d’oro, che bambino passa il mare chiuso in una cassa, e di poi attraversa gli spazi celesti coi talari di Hermes, il vincitore della Gorgone, che altro può essere se non un sole risorgente, un eroe solare? Il suono lamentevole udito ed imitato da Atena non fu quindi in origine altra cosa che il suono intonato da Rudra e dai Maruti. Il divario sta solo in ciò che al demone maschio si è sostituito il demone femmina; la quale sostituzione risale già al periodo protoaryo , poiché nel Rigveda già ricorre la Danu o la Druh che sostiene furiosamente le parti di Vritra suo figlio contro Indra (Rv. I, 32 — IV, 25, 7) e nello Zendavesta pure s’ incontra la Druh, Genio femminile avversario di Qraosha e di Ahuramazda. U incidente di Marsia che racco- glie il flauto gettato via dalla Dea dovette essere un’ aggiunta seriore, un tentativo di collegare ed accordare i due miti relativi all’invenzione della musica auletica. Per ciò che riguarda la ver- sione frigia è da notare che nella mitologia dualistica del Mazdei- smo, attraverso cui è passata, l’arte del Demone doveva essere po- sta come contraria e rivale ad un’arte analoga trovata da un Dio. Probabilmente l’antagonista di Marsia fu chiamato Apollo dagli scrittori Greci, non perchè tal nome gli fosse dato nella leggenda frigia , ma per alcuna particolar somiglianza che esso aveva con quel loro Iddio. Egli doveva essere ad ogni modo un Dio solare. É notevole che l’invenzione degli strumenti a corde sia stata attribuita 1) La triplicità delle Gorgoni appare dapprima in Esiodo, che le dice figlie di For- co o Forcino (il Grigio), e risponde alla tricotomia dei mitografi sistematici. A Me- dusa (la Regnante) furono date per sorelle Stheno ed Euriale, personificazioni tra- sparenti di due soprannomi di quella, significanti, la salda o la massiccia e la estesa o spaziosa. Ma Medusa è la vera persona mitica, come risulta dai miti che ad essa fanno capo, quale la produzione del cavallo volante Pegaso e del mostro Chrysaor o Lama d’oro (simboli del fulmine). L’effetto prodotto dalla testa di Medusa accenna a quello smarrimento dei sensi che è cagionato dallo scoppio del fulmine. Colla stes- sa metafora rinvertita, ogni repentina alienazione del sentimento, venne riguardata come effetto del fulmine caduto (attonitus, Digitized by ^jOoq le — 247 — alle Divinità solari, come appunto la cetra ad Apollo e la vina o lino indiano a Narada, rè dei Gandharvi , Genii dell'aria , in cui sin dai tempi vedici furono personificati i raggi del Sole. Osser- vando che la stessa parola ( rapini , àxtl$, radius) fu adoperata per significare raggio di sole e filo teso, striscia, redina, corda, verga, si può arguire che il fenomeno dei raggi luminosi tesi , diritti , vibranti a distinti e brevissimi intervalli , si associasse, nella vi- sione mitica, coll’ effetto acustico delle corde sonore. Cosi veniva trovato Tistrumento musico più adatto al Dio, che d’altra parte era già stato riconosciuto come il misuratore e regolatore dei moti celesti 1). Ora ci si para innanzi 1’ episodio più scabroso della leggenda , quello del supplizio. Per quanto si voglia dar credito alla terribi- lità di una vendetta divina, non può non sembrare stravagante la finzione che il Dio vincitore abbia strappata intiera intiera la pelle al vinto , ne abbia fatto un otre e’ che da quest’ otre appiccato al sommo di una grotta sia scaturito un fiume 1 Cosi fatte circostan- ze non pure stonano , ma ripugnano addirittura con qualunque intendimento finale di un supposto inventore della pia leggenda. Certo farebbe molto comodo ascrivere le assurdità leggendarie al capriccio della fantasia individuale , come usano i mitologi della vecchia scuola, e metterle fuori di conto; ma in tal caso più non si vede come la mitologia tutta possa essere soggetto di critica storica. 1) Il mito di Pan inventore della zampogna o zufolo pastorale, ed emulo anch’es- so di Apollo nella musica, presuppone similmente V antico mito naturale della in- venzione dello strumento a flato per opera di un Cacodemone. Il nome di x» che etimologicamente vale «la sonante o susurrante* (dalla rad. svar che ci da il sanse. soara « sonus » ed il lat. susurrué ) fu pai Greci persontflcato e drammatizzato nella Ninfa amata da Pan e da lui trasmutata in una canna palustre , d’onde si foggiò la zampogna. Cosi il nome comune fu poi derivato dal nome proprio , là dove si era verificato appunto il caso opposto. Ha forse qualche lontana attinenza col mito fri- gio di MarBia il fatto ricordato da Plutarco (Quest, elleniche, 26) che in Tenedo era proibito agli auleti di entrare nel tempio di Apollo, per cagione di un Auleta mitico, per nome Mopso, stato nemico del Dio. Digitized by Google — 248 — I sopradetti incidenti mitici , adunque , per quanto ci riescano strani, voglionsi riguardare come elementi essenziali della tradi- zione , onde si venne a comporre la leggenda di Marsia. Ognuno di essi , vale a dire: la pelle tirata di netto , la pelle otre , P otre fontana , deve avere la sua storia particolare. Per nostra fortuna di codeste pelli mitologiche, insigni per tanti miracoli, ve ne han- no parecchie, che insieme ragguagliateci possono fornire utili in- dizii intorno al soggetto reale in esse raffigurato. Ma come mai la pelle potè diventar mito, indicare, cioè, altra cosa che Pepider- mide di un essere animato? È da sapere che i nomi adoperati per designare la pelle sono per lo più, nelle favelle arje, derivati da radici verbali che significano ravvolgere, coprire, o simile. È poi ovvia l’osservazione che le pelli degli animali, prima che fosse perfezionata e generalmente praticata l’arte del tessere, servissero in molti bisogni della vita domestica ai quali poscia sopperirono i tessuti ed i panni di varia materia e foggia lavorati. Perciò il nome di pelle otteneva un significato molto più esteso e generico, che non ebbe di poi, potendo adoperarsi ad indicare più sorta di involucri, indumenti, coperture. Di qui si può comprendere come alla immagine della pelle corresse spontanea la mente di quegli uomini, per designare la copertura del cielo, fosse questa la tene- bra notturna o la distesa delle nuvole 1). II linguaggio vedico ridonda di cotali frasi immaginose dove la pelle ricorre come traslato o figura. Cosi l’apparire della luce mat- tinale è rappresentato come l’opera del Dio Sùrya (il Sole illumi- 1) Dalla rad .sku « coprire, si hanno: sanse. skuta-s coperto » gr. vxv-ros e *i >ro«« pel- le, cuojo » lat. cu-tis per scu-tis , ted. hù-ten, Hau-t Hu-t. Da oar « avvolgere »: san- scr. vaori-s « involucro » car-na « pelle , colore » ùr-na « lana » gr. *£*>-«>* « lana » lat. « villus, vellus » ted. Wolle.— Da toac ’, tue? « coprire »: sanse, toac? « pelle, coper- ta, nuvola » gr. rtvx-ot « vaso, involucro » — Da pai « involgere *: sanse. pata 9 palala « paglia » gr. irsxx» « pelle » — lat. pcllis pilu— ted. Fell, Fils. V immagine del Cielo, riguardato come una copertura ha il suo riflesso classico in oty*ro-« (Ravvolgente, sanse, oaruna), in caclum (per ska-vilum, gr. *o-ixo) già sdoppiato il senso di copri- re in quello di serrare, tenere in grembo , comprendere , dilatarsi , essere gonfio , convesso ( sku e gd) e nell’antico sassone skio, ingl. sky. Digitized by ^jOoq le — 249 — «ante) « che ravvolge la tenebra come una pelle » (VII, 63, 1). In un inno a Savitàr (il Sole fecondante e produttore) è detto « Tu, 0 Savitàr, ti appressi coi velocissimi destrieri a disciogliere la tela tessuta, mentre ti disleghi il nero mantello. I lucidi raggi di Sùrya ricacciano intanto la tenebra, girandola come una pelle nel profondo delPacque » (IV, 13, 4). E non v’ha dubbio che si debba cercare in mezzo al cielo tempestoso « la pelle nera odiata da In- dra, la quale i vapori del soma col loro potente soffio dileguano dal cielo e dalla terra (IX, 73, 5) ; perchè, sebbene alcuni inter- preti prendano codesta pelle in senso metonimico, come designa- zione collettiva dei demoni o dei barbari nemici degli Arii, si rende troppo manifesta dal contesto dell’inno l'allusione alla crisi atmo- sferica. Anche di Agni (il fuoco sacrificale, acceso al primo spun- tar del giorno) si dice che , « oprando le sue meraviglie distinse 1 due mondi (Cielo e Terra) spiegando le due plaghe , come due coperte state innanzi ravvolte » (VI, 8, 3). Alla nuvola si accenna distintamente dove si narra che Indra « facitor di miracoli riempì la pelle piovosa » (I, 129 , 3) , oppure che « quando Agni ha ri- condotto a noi le nuvole pei dirittissimi sentieri del Rita (allusio- ne all’efficacia del sacrificio) allora Aryamàn , Varuna e Mitra riempiono la pelle, là nella plaga del mondo supremo » (I, 79, 3). Ma il senso .metaforico della pelle è talvolta così velato dal senso letterale , che il soggetto reale da quella significato sfugge intie- ramente alla nostra vista e la leggenda mitica ci si disegna in- nanzi già quasi plasmata, come crisalide presta a rompere il boz- zolo e schiudere le ali. Ciò si verifica ad es. nel passo di un inno (III ,5,6), dove si racconta una bella valentia di Agni, il quale « da bravo Artefice seppe procacciarsi grande onore; quando, co- noscitore quale egli è di tutte le arti , fabbricò la pelle pel dor- mente ; e d' ogni tempo custodisce il luogo dove ha riposo 1’ au- gello (il volatore celeste) » Chi abbia osservato nella teogonia fi- sica del Rigveda come la figura del Fuoco sacrificale e terrestre si sia sdoppiata in quella del Fuoco meteorico o fulgurale, com- prenderà di leggieri come il dormente ed il volatore , sieno una stessa persona mitica , immagine della folgore latente dentro la Digitized by Google — 250 — nuvola, che vi è rappresentata in figura di una pelle 1). Era poi naturale che il Fuoco il quale saliva negli spazi dell’aria cinto di quel suo ammanto di vapori « opra di grande e mirabile artifì- cio » come cantano gl'inni, venisse riguardato come il formatore delKinvolucro nemboso, dove si annidava il Fuoco aereo od ala- to; ^'immaginasse questo originato dal Sole o dallo stesso Fuoco terrestre. A questa rappresentazione mitico-leggendaria si con- nette quell’altra, dove la peile, posta come figura della volta ne- bulosa, diventa l'inviluppo d’un mostro diabolico, il cosi detto Ahis budhnyas « il Drago che sta nel fondo » una delle tante figure in cui si moltiplica il Demone avversario del Dio Indra e che a lui resi- ste « stando rimpiattato in fondo alla pelle » (IV, 17, 14). Si capisce che per conquiderlo è forza trarlo fuori da quella magica invoglia, la quale nei racconti leggendari, cui già preludono certi episodi del- l’epopea indiana diventa una vera e propria epidermide, che l’Eroe deve levare intiera , per disfarsi del mostro a lui infesto 2). Ma 1) Vuoisi riscontrare con questo mito del Dio che entra nella pelle e ne esce fuo- ri splendido e vigoroso il celebre uso della pelle divinatoria; per cui il consulente o sacerdote passando la notte avviluppato nella pelle degli animali a tal uopo im- molati, ne riceveva visioni divine ed acquistava la prescienza del futuro, V. Virg. E- neide VII, 85, ove descrive Poracolo di Fauno: Huc dona sacerdos Quum tulit, et caesarum ooium sub nocte silenti Pellibus incubuit stratte, somnosque petioit , Multa modis simulacra oidet volitantia miris, Et oarias audit ooces fruiturque deorum Colloquio , atque imis Acheronta affatur Aoernis. 2) In una recensione di fiabe indiane (Sinh&sana dv&trinqika) pubblicata dal We- ber nel voi. XXV degli lndische Studien, si offre interessante pel nostro argomento la novella di un Cinnara o Gandharva (Genii dell’Aria) che trasformato in asino, de- pone, quando gli piacerla sua pelle, per ritrovarsi con una bella giovane, per nome Madanarekhà « sinché la madre di costei arriva a mettere la mano sulla pelle de- posta, la brucia e il Gandharva scompare, per non lasciarsi più vedere. Anche più notevole è la novella del re G’alapura (Empiente d’acqua, o Pieno d’acqua) che spo- sa una Ninfa trovata in riva al mare. Questa si trasforma a volta a volta in una bu- Digitized by ^ooq le — 251 — la pelle mitica , secondo le diverse prospettive onde venne prima riguardato il fenomeno , potè prestarsi a bozzetti leggendari di- versi. Accade infatti che essa non pure sia deposta , ma anche a grado ripresa e che la detrazione si faccia non per istrazio vio- lento, ma abbastanza dolcemente, con artifizio ed intento terapeu- tico. Tale è il caso del vecchio Cyavàna, cui gli Alvini, i due Genii del Crepuscolo, ringiovaniscono, rifacendogli nuova la pelle; sia che in tale leggenda si riverberi un mito meteorico, come avvisa il Kuhn, riguardando Cyavàna (il caduto) come il fuoco fulgurale e la pelle come la nuvola ; sia che si tratti di un mito solare , a giudizio di quei mitologi i quali, tenuto conto degli accidenti che nella versione del Qatapata Brahmana s'accompagnano al ringio- vanimento di Cyavàna, intravedono nel vecchio ringiovanito il Sole e nella pelle detratta la tenebra notturna. Una rara e preziosa pelle è pur quella onde i Ribhù, i Genii delle stagioni, han rifatto la vacca o che hanno tratto alla vacca; la quale allude molto probabilmente alla nuvola irrigatrice e nutrice, sebbene altri vi vegga altro; come fala e viene uccisa all'impensata dal re; al quale poi essa si manifesta, in visione, come lo spirito di un Kokila o uccello cantore, abitante del cielo, e stato costretto, per maledizione di Giva, a rivestirsi di forme terrene; e gli consiglia di farsi un otre della pelle della bufala, il quale avrà la virtù di attirare e contenere in sè le acque dei sette marii Qui abbiamo la novellina popolare ancora legata per manifeste fila col mito naturale. Chi non vede subito nel Gandharva fatto invisibile, appena bru- ciata la sua pelle, PAgni fulgurale che dispare dopo dissipato l’involucro nemboso 1 E come non riconoscere nella pelle della bufala che assorbisce i mari la pelle nu- vola del Rigvedaf Anche qui Pepiteto significativo del soggetto mitico diventò nome proprio , duplicandosi il medesimo soggetto nella pelle miracolosa e nella persona del suo possessore. Il Weber accenna ivi ai diversi riscontri di queste novelle : Grimm D. M. p. 1052— Benfey, Panc’at. p.92, 254, 260-261— Max MOller, Essays, 11,241— Cox, Aryan Mythol. 166. De Gubernatis, Zool. Mythol. 1, 367-11, 377— Era necessario riferire queste citazioni, perchè la riduzione ultima delle novelline popolari al pri- mitivo mito naturale suona ancora presso molti dotti italiani come il più strano dei paradossi. Dalle varianti europee di questo particolar mito della pelle del Dio od Eroe, mutato in mostro, indicate nelle riferite citazioni, non è punto diversa per ad- durre un esempio più alla mano , la Novella del Re Porco , riportata con dotte ed opportune note illustrative nella Novellaja fiorentina, di Vittorio Imbriani. Digitized by Google — 252 — chi suppone nella vacca la terra che a volta a volta si ricopre e si spoglia della sua veste. Già l'incertezza e discrepanza degli stessi antichi chiosatori nel- l’interpretare talune delle sopracitate leggende, dimostra come la fantasmagoria antropomorfica, a poco a poco, raffittisse talmente la sua trama , da ricoprire il senso naturale del mito , dapprima trasparente attraverso il velo della metafora. Ma se questa ten- denza usurpatrice del linguaggio figurato riesce talora nel Rigveda ad oscurare il senso di alcuni particolari abbozzi leggendarii, non giunge mai a cancellare tutte le vestigia che nelle loro molteplici varianti vi ha lasciato il mito primitivo. La serie degli esempi al - legati n' è una prova. La mitologia greca ci sciorina innanzi pa- recchie pelli di fiere selvagge e di mostri, nelle quali, ad affissar- cisi un poco, si può tuttavia rinvergare l’antico senso naturalisti- co. La pelle della vacca , simbolo della coperta celeste, è mento- vata in quel luogo del mito di Hermes (Hom. Hym. Ili) dove l’E- roe, dopo di aver rapito sul vespro le vacche di Apollo, sospende in cima alla caverna la pelle di quella che ha nottetempo immola- ta. E non dovette essere altro che una pelle metaforica , cioè la volta del cielo notturno, quella onde si avvolse Argo Panopte (Tut- tocchi) tolta al Toro devastatore, che esso di sua mano aveva uc- ciso. Nè d’altra fatta puossi immaginare la pelle del Leone Nemeo, generato da Tifone ed Echidna, portata in dosso da Ercole, come sua difesa insieme e spoglia trionfale, spirante tuttavia terrore col ceffo ringhioso e minaccevole. E tra le pelli simboliche mettere- mo pur quella del lupo ucciso da Apollo , se diam fede a talune tradizioni che ce la rappresentano come emblema caratteristico di questo Iddio. Certo non è a dire che in ogni caso la pelle tolta ad una fiera o ad un mostro sia una pelle allegorica! Ma quando aU'acquisto della pelle si accompagnano circostanze miracolose e si attribuiscono alla medesima virtù sovrannaturali è al tutto ra- gionevole riferirne l’origine al simbolismo naturale de’primi tem- pi. Cosi non è arduo il comprendere che la pelle della capra onde s’immaginò formata l’Egida, lo scudo smisurato che Giove squas- sava nell’atto appunto di lanciare le sue folgori, e quella dell’a- Digitized by ^jOoq Le — 253 — riete di Frisso, consacrata a Giove Salvatore, della quale era pur simbolo la pelle dell* ariete rituale , in cui i supplicanti usavano avvolgersi per impetrare la pioggia, sieno state un tempo rappre- sentative, sotto diversi aspetti, del cielo nuvoloso. Posto pertanto il senso naturalistico del conflitto tra il Dio lu- minoso e il Demone suo avversario , come fondamento del mito di Marsia , già si può arguire che cosa fosse in origine la pelle strappata a costui. Essa non fu cosa gran fatto diversa dalle pelli Elleniche ed Indiane poc'anzi passate in rassegna, e rassomiglia più specialmente a quella, in cui vedemmo avvolto e quindi tratto fuori il Drago nemico d’ Indra. Il Genio ostruttore delle correnti benefiche, rappresentato dal Drago, si trova insomma riprodotto nel personaggio di Marsia, come riflesso frigio iranico e rivestito di un particolare carattere etico e leggendario. E bene si accorda con questa origine il fatto che la visione mitica rappresentante il fischio dei venti precursori e compagni dell’uragano, si trova com- binata in un medesimo soggetto con quella ond’era raffigurata la nuvola rattenitrice delle acque celesti. Qui il discorso s’imbatte nell’altro incidente del mito di Marsia, quello del fiume omonimo scaturito dalla grotta dove la sua pel- le fu sospesa. La scaturigine del Marsia si disse prodotta, sia dal sangue sgorgato dalla pelle del Satiro, sia dalle lagrime versate, per la sua morte, dalle Ninfe e dai Sileni suoi compagni. Ma que- sta particolarità ò una racconciatura manifesta, una giunta arti- ficiale dei mitografì, uno di quei ritocchi con cui si cerca di moti- vare in qualche modo ciò che nella favola vi ha di più Strano ed inesplicabile. E l’appczzatura stessa, anziché raggiustare, gua- sta e sconnette; rompendo il naturale e visibile legame tra i due fatti : la sospensione della pelle dentro la grotta e lo scaturire del fiume. Con tale spiegazione infatti si toglie il dovuto miracoloso effetto all’ultima operazione del Dio. La leggenda dell'acque, sgor- gate in seguito alla disfatta di un Demone ostruttore per nome Marsia, fu certamente celebrata assai tempo, prima che da Marsia fosse nominato il torrente che scorreva presso la sacra città dj Celene. Essa traeva la sua origine da un mito più antico , 34 Digitized by Google / — 254 — del quale si vedono tuttavia varie vestigia nelle leggende elleni- che. Una fonte rampolla sul luogo dove Apollo riuscì vinci- tore del serpente Pitone , suscitatogli contro dalla maga Dei- fusa , quella dall’ ampio grembo ( il quale nel Rv. è immagine della nuvola) che gli aveva conteso l’accesso alle sue sorgenti. Il possesso di una fonte è talora il premio della vittoria riportata da un Dio o da un Eroe sul Demone o Mostro che gliene fa con- trasto; com'è il caso di Ercole che ammazza l’Idra di Lerna, scre- ziata a vari colori e vomitante fiamme, posta a custodia della fonte Amimone. Tutti questi miti sono altrettante variazioni o propag- gini del mito primitivo che metteva in iscena i Genii luminosi combattenti contro i Genii delle tenebre, pel racquisto delle acque celesti, da costoro furate e trattenute: mito famosissimo nel Rig- veda e fondamentale nella mitologia indo-iranica. La sostituzio- ne delle acque terrestri alle celesti è già adombrata nel Rigveda, dove le sette fiumane che scendono dai monti ad irrigare il Sap- tasindu sono celebrate come figlie del Cielo, inviate e guidate da Indra , che loro ha dischiuso il cammino. La rappresentazione mitica della nuvola in forma di una montagna rendeva assai fa- cile tale conversione del mito meteorico in mito terrestre od oro- grafico. Ma l’indiamento delle acque terrestri e montane ha ricevuto la sua piena consecrazjone nella mitologia iranica, specialmente per mezzo del culto di Ardvi-Qùra, in cui sembrano unirsi e fonder- si in una sembianza le due figure Vediche di Ushas e di Sara- svati. Come si sia compiuta nella persona di Ardvl-Qùra la fu- sione degli attributi pertinenti alla Dea della luce mattinale con quelli della Dea largitrice delle acque, si può comprendere me- diante l'associazione ideale e fantastica dell’operosità propria dei Genii luminosi coll’ effetto della loro vittoria. E poiché nel mito iranico la luce e l'onda pura hanno una medesima origine, così accade che in una medesima Divinità si trovi personificata l’ener- gia produttrice dell’uno e dell’altro elemento. Può darsi che a que- sto sincretismo mitologico contribuisse anche la postura geogra- fica della Battriana, per cui la fonte maggiore delle acque scatu- Digitized by ^jOoq Le — 255 — riva veramente dalle dimore luminose dell’ Aurora 1). Comunque sia di ciò, questo è certo che intorno ad ogni fonte famosa di ac- qua perenne usava il popolo iranico localizzare la leggenda che ne derivava l’origine dalla vittoria di un Jazala, cioè di un Genio luminoso e benefico, contro un Daeva. Lo Zendavesta già prelude a tali leggende con alcuni miti, tra i quali basti qui ricordare quello della battaglia sostenuta da Ardvì-£ùra contro il demone bevitore Kavanda o Kunda (Vend. XI, 87, XIX, 138, Jasht 24, 26). È da notare che il nome Kavanda o Kabanda neiridioma vedico signi- fica botte e particolarmente quella botte che il Dio Varuna capo- volge per riversare sulla terra le acque celesti. Da ciò si com- prende come il racconto mitico della pelle otre, connesso coll’ori- gine dei torrenti nembosi, sia stato trasferito e adattato all’origine dei torrenti montani. La pelle in cui sta avvolto il demone co- stringitore delle acque diventa alla sua volta la pelle che contiene le acque , cioè, un otre , che nel linguaggio Vedico, per testimo- nianza de’ più antichi commentatori , è pur sinonimo di nuvola. L'otre, è detto dritte con parola derivata dalla rad. dar (Gr. 8èpw, 12) L* affinità mitologica di Ardvl-Qùra coll'Aurora Vedica è messa in chiaro da al- cuni luoghi del citato V Jasht. Uno degli Eroi che ottengono la protezione della Dea, avendo intrapreso un lungo viaggio per presentarsi a lei « passata la terza notte, si trovò di fronte l’aurora, i primi albori della luminosa, e appunto in quel momento invocò Ardvl-Cùra. E Ardvi-^ura subito accorse a lui sotto la figura di una giovine bella, aitante, maestosa, dal largo cinto , dalla taglia svelta , dal volto sfavillante , ornata di un diadema di oro, con calzari di oro... (v. 61 e seg.). Altrove si dice che la brillante Ardvl-£ùra viene sopra un carro di cui essa tiene le redini tirato da quat- tro cavalli bianchi e ben librati nel corso... (v. Il, 13). Anche si descrive il suo gran vestimento di pelle di castoro, fatto di trecento castori, tutti belli come il più bello dei castori che vivano sott’acqua, vestimento scintillante di molto oro ed argento » (v. 129). Questi tratti pittoreschi che ricordano il linguaggio poeticamente figurato degli inni Vedici all’Aurora, escludono affatto l’ipotesi di una imitazione iconogra- fica. Infine è da notare l’identificazione del luogo d'onde sorge la luce mattinale colla dimora di Ardvi-^ùra, poiché « il corso delle acque pure, vivificanti, nutrici e fecon- datrici, dal monte Hukairya, stanza della Dea (la suprema vetta dell’Hara berezaiti, su cui il Sole si mostra al primo spuntare del giorno) va a metter foce nel mare Vourukasha (sanse, urukaksha « dall* ampioseno »). « Sono qui indicati i due punti estro mi, orientale ed occidentale, dell’Iran avestico ». Digitized by Google — 256 — Sèpiwt) che significa « trarre a forza , spaccare » e vale propria- mente « pelle levata ». Anche il Dio Parg’anya, Genio del tempo- rale è supplicato (V, 83 , 7) perchè voglia sciogliere e rovesciare a benefìzio degli uomini 1’ otre delle acque. Ed è da credere che sia veramente una pelle meteorica 1’ otre in cui gli Alvini « por- tano salute e bevanda ristoratrice alla famiglia ed alla prole , ed insieme alla vacca ed al toro dei devoti », tanto più che subito dopo viene soggiunto. « A quel modo che si schiude una porta schiudete o Alvini, il varco alla bevanda ristoratrice ed alle correnti del cie- lo » (Vili, 5, 19, 20, 21). Quest’otre rimase retaggio delle leggen- de , anche dopoché la grotta rocciosa venne sostituita alla grotta celeste. Pertanto 1' ultimo incidente poco o punto considerato dai mitologi, quello dell'utile partito che il Dio seppe trarre dalla pelle del Demone ben collima cogli altri e s’accorda a tutto ciò che si è detto precedentemente sull'origine e sulla formazione del mito di Marsia. Col carattere mitico di Marsia consuona quello dei Sileni alla cui specie egli trovasi aggregato. Quésta genia di Demoni che \ Greci desunsero dalla mitologia frigiolidica (Preller, Griech. My- thol. I, 603), è dello stesso lignaggio de'Maruti vedici ed ha molta affinità con quei Coribanti o Cureti, danzatori, schiamazzatori, tro- vatori e sonatori del timpano , abitatori di antri , Demoni di na- tura ambigua , non apertamente ribelli , ma neppure soggetti ed ossequenti agli Dei. I Sileni prima di essere abitanti delle selve furono scorridori ed occupatori delle regioni aeree. A tale loro ori- gine accenna il culto di cui erano onorati come padroni delle sor- give, il suono fragoroso dei loro balli ed anche il loro nome che bene interpretato varrebbe « i fluttuanti o gli ondeggianti ». La loro partecipazione al corteggio tumultuoso (0óaoo?) di Dioniso vuoisi riconnettere col mito naturalistico che fa nascere il Dio del liquore vitale in mezzo allo scoppio della crisi atmosferica, e scen- dere in terra in una colle acque celesti , dalle quali lo riceve la pianta che lo produce. L’azione mitica dei Sileni non può in nes- sun modo essere circoscritta al mito dionisiaco, chi la consideri nella sua varietà ed interezza. E si può dubitare se le otri che Digitized by Google — 257 — essi tengono abbracciate o su cui cavalcano , accennassero , nel primitivo simbolismo, al contenuto immaginatovi dalla mitologia seriore o non piuttosto a quello delle altre otri mitologiche, di cui si è innanzi parlato! La compagnia dei Sileni adunque rappre- senta nel mito di Marsia la personificazione collettiva dei Demoni ostruttori, o in qualunque modo soggiogati a forza dalle Deità ce- lesti , ed accenna anch’ essa alla religione del dualismo cosmico nei suoi rapporti col mito meteorico. Rimane a dire qualche cosa sulla moralità del mito di Marsia. La storia delle leggende deve non solo spiegare la natura degli elementi fantastici di cui si compongono, ma scoprire altresì quel particolare sentimento religioso, che rendendole sacre e venerate alla coscienza popolare, potè mantenerne vivace e perenne la tra- dizione. Non comprende bene l’evoluzione storica dei miti chi in essi altro non vede se non un giuoco della fantasia scherzante colle proprie immagini, nell’atto di vagheggiare ed allegorizzare i fenomeni della natura. L’immagine fantastica fu certamente il se- me, il germe , il principio plastico o formativo del mito , come è dimostrato dalla serie genetica o figliazione delle leggende , ma esso sarebbe rimasto sterile se non fosse caduto nella materia feconda degli istinti religiosi e morali. Per bene intendere la pri- ma formazione del mito bisogna rappresentarsi alla mente quello stato psicologico, in forza del quale la visione fantastica aderente alla percezione del fenomeno, associandosi a talune idee e senti- menti , potè convertirsi in una dottrina seria e solenne. Bisogna farsi ragione che la personificazione del fenomeno naturale in tanto prendeva consistenza neH’immaginativa e si perpetuava nella memoria del popolo , in quanto implicava la fede in un demone, che in quello nascosto operasse certi effetti particolari e meravi- gliosi. Una semplice figura poetica non avrebbe mai potuto dare origine ad un mito , se 1’ oggetto inanimato cui si riferiva , non fosse già stalo altrimenti riguardato come animato. Perciò la sto- ria dei miti è inseparabile , checché ne paja a taluni , da quella delle idee religiose degli antichi; presso i quali, infatti, non vi fu mai una vera distinzione tra mitologia e teologia, se non quando Digitized by Google — 258 — i filosofi , applicando alla storia religiosa un criterio del tutto a- stratto e nominale, si foggiarono per proprio uso , ciascuno se- condo il suo gusto , una teologia dotta sequestrata dalla po- polare. Cosi, in fondo al mito asiatico di Marsia, ci venne scoperto un contenuto ideale , senza di cui mal si potrebbe comprendere il fatto della sua popolarità ed importanza : ciò fu il concetto reli- gioso del dualismo cosmico che seco involgeva la credenza nel po- tere e nel sapere dei demoni malvagi; collegandosi quivi il domma della lotta divina con quello della origine provvidenziale dei fiu- mi e delle fonti. Ma questo concetto per sè medesimo non sarebbe bastato a costituire un mito. Esso diventò tale in grazia della ve- ste fantastica in cui si avvolse e per cui il fatto generale venne individuato e descritto con certe particolarissime circostanze e , come si dice, realizzato. L’indagine mitologica nell’atto stesso che svolge e districa il complicato tessuto della favola mitica è natu- ralmente condotta a scoprire il concetto etico e religioso con esso coinvolto e concresciuto. Ma qui è da avvertire un fatto d’impor- tanza capitale ; cioè , che il contenuto ideale o diciamo lo spirito del mito viene grado a grado a mutarsi, sebbene si serbino quasi inalterate le forme fantastiche di cui esso anticamente fu rivesti- to. A ciò non badano certi avversarii della mitologia comparata i quali stranamente frantendono il riferimento dei miti alla feno- menologia naturale , come se ad ogni età si volesse attribuita la consapevolezza del mito naturalistico , da cui una data leggenda si fa derivare. Su questa mala intelligenza poggia tutta quella critica superficiale e faceta, che ha troppo buon giuoco a notare le assurdità palmari che nascono dall' attribuire agli antichi rac- contatori di una leggenda divina od eroica l’intenzione di descri- vere il sorgere o il tramontar del sole , la pioggia od il cattivo tempo I II presupposto che la nuova scienza mitologica discono- sca la particolare idealità trasfusa nei miti da certe condizioni della civiltà e della cultura, ha fatto velo, in queste questioni, al giudizio di uomini peraltro dottissimi. Il De Harlez ad es., orien- talista insigne, potè su tale idea, distendere una confutazione ex Digitized by t^oogie — 259 — absurdis del metodo comparativo, che fu, con sagacissima critica, applicato dal Darmesteter all’interpretazione della parte mitica del- l'A vesta; denominando tal metodo: la theorie orageuse, le systéme or agiste, l' oragisme , o come noi diremmo « il temporalismo ». (V. Darmesteter: Oromazd et Ahriman etc. e De Harlez: Les Ori- gines du Zoroastrisme). La storia mitologica deve pure avere la sua cronologia. Vi è sempre da fare la debita distinzione tra il senso attuale e il sen- so antico e primitivo del mito. Ciò che si perpetua od almeno si conserva per lunghissimo tempo nella tradizione si è la forma estrinseca del mito, non già il suo contenuto, il quale da principio s’informava a quelle intuizioni fisiche e cosmogoniche che costi- tuiscono il naturalismo religioso. Ma venuta meno 1’ antica reli- gione della natura, rimase viva nelle tradizioni la rappresenta- zione figurata dei soggetti divini in cui èssa mirava , mentre al posto di questi a poco a poco altri ne insinuava la mente popo- lare , rappresentanti i novelli Dei , cioè le forze vive e governa- trici del cosmo , non più implicate e confuse coi fenomeni natu- rali. Maravigliosa davvero è la tenacità con cui il genio popolare conservò sempre e custodì gelosamente le figure immaginose e poetiche dell’antico tempo, senza curarsi della maggiore o minore convenienza che avessero coi nuovi soggetti mitici cui venivano adattate. L’elemento irrazionale e teratologico dei miti nacque ap- punto dal sostituire che si fece, nelle rappresentazioni figurate del- l’antico naturalismo, soggetti o personaggi divini troppo diversi da quelli per cui primamente erano state trovate, sebbene talora an- cor designati collo stesso nome. Così il potere di far uscire un fiume da una pelle sospesa è cosa naturalissima , se chi lo ha , è un genio che esercita la sua azione sulle nuvole; diventa invece un vero miracolo, se il Genio operatore non ha nulla da vederci col- l’atmosfera e colle meteore ed invece se ne sta più giù, rimesco- landosi coi fatti terrestri e colla vita umana. La repugnanza tra la veste favolosa o forma del mito ed il si- gnificato religioso, dedotto dalla natura dei personaggi che vi ope- rano, sarà certamente maggiore o minore, secondo che la tradizio- Digitized by ^OOQ Le — -260 — ■ ne mitica si sarà più o meho dilungata dalle sue oragirii. Il mito di Marsia , come era raccontato in Frigia , non presentava per fermo quelle dissonanze ed incoerenze che ci presenta la versione greca. L’indole di cacodemone assai più spiccata nell’antagonista, il motivo della contesa complicato con più gravi cagioni, l’effetto provvidenziale che n' era uscito davano certamente un carattere più titanico alla lotta, e giustificavano in certo modo l’atrocità del supplizio. Nel mito greco, invece, il senso della favola ci si porge, come s’è visto, molto duro ed enimmatico. Di Marsia non si può dire se veramente sia un Genio buono o cattivo. Assurda nel pri- mo caso l'esemplarità della vendetta divina; assurda nel secondo la lode a lui data per l'abilità artistica e l’arditezza dell’animo. La ragione di questa antinomia si trova nel fatto che il mito di Mar- sia da una religione, dove 1’ impero del mondo si diceva conteso tra due potenze avverse , fu trasportato in un’ altra che non am- metteva più nessuna opposizione seria di esseri intelligenti con- tro il volere del Dio supremo. Nella religione dei Greci il duali- smo era stato ormai messo in disparte , mediante la dottrina del fato, potenza materiale, cieca ed irresponsabile. La rivolta dei Titani che aveva messo in pericolo la signoria di Giove e degli altri Olim- pici, era ormai nella teologia leggendaria dei Greci una storia vec- chia, che non poteva più rinnovarsi. Una natura demoniaca lottante gagliardamente, con tutte le forze dello spirito e del corpo, contro gli Dei non era più concepibile, nò conciliabile con quel sistema del- l’armonia cosmica, rappresentato dalla monarchia Gioviale. Il De- mone delle antiche tradizioni si trasforma quindi o in un mostro bel- luino, accoppato dal Dio o dall'Eroe con pochi colpi bene assestati, oppure in un pazzo insolente che viene subito punito come si merita. Il Demone Marsia pertanto non potò essere riguardato dai Greci co- me nemico sfidato degli Dei. Non foss’altro che pel suo ingegno in- ventivo ed arguto e per la sua grande perizia musicale, Marsia do- veva essere ritenuto come un Genio dabbene. Come non ammirare ed onorare tanta sua valentia? Ma la leggenda bisognava pure ac- cettarla tal quale. Quelli erano stati i suoi casi, quella la sua fine * Il racconto era de’più atti a colpire l’immaginazione popolare. La Digitized by v^oogie — 261 — tragedia la si voleva tutta intiera! Del resto il pericolo che il mito recasse offesa al sentimento religioso era assai minore di quello che altri possa credere. Veramente, nella leggenda così alterata, la riabilitazione del Demone portava seco, come logica conseguenza, la calunnia e l’irriverenza verso il Dio esecutore del supplizio ne- fando. Ma per una certa inconseguenza naturale e diremo anche ragionevole, il popolo non cessava di venerare le splendide qua- lità del suo Apollo; comechè gli venisse attribuita un’azione im- morale. Senonchè sulla immoralità di tale azione nemmanco si fermava il pensiero della gente religiosa , lasciando la questione ingiudicata e relegandola tra le cose incomprensibili e misteriose che concernono la natura divina! Si avevano buone ragioni di ve- nerare il Dio e di lodare il Demone. Che altro cercare? Si poteva mai far questione se un Dio, in questo o in quel caso, avesse ope- rato male... ? Ricerche di questo genere non se ne fanno da chi crede nella Divinità. L’inchiesta troppo curiosa « quali gli Dei deb- bano essere » ha sempre tirato dietro sè quell’altra « se essi ve- ramente siano ». Digitized by ^OOQ Le Digitized by ^jOoq Le PARTE SECONDA Digitized by ^OOQ Le Digitized by Google MANCINI - STORIA DI ELVIDIO PRISCO CAPITOLO SETTIMO LETTO ALL’ACCADEMIA NELLA TORNATA DEL 7 FEbJÉmO 1888 Nei due ultimi capitoli precedenti abbiamo proposte e discusse alcune clamorose quistioni di storia romana , e precipuamente quelle relative alle epoche precise in cui Nerone rinserrò il tem- pio di Giano; e le altre riferibili alla nuova forma amministrativa introdotta nel pubblico erario l’anno 809 di Roma. Ora però c’in- cumbe consolidare le nuove dottrine stabilite su quest’ oggetto , liberandole da alcune obbiezioni che potrebbero, non già distrug- gerle, ma intorbidarne alquanto il valore e la chiara intelligenza, presso i meno accorti lettori. Incominceremo quindi dalle contro- versie numismatiche. La seconda chiusura Neroniana del tempio di Giano, fu da me dimostrato essere avvenuta nell’817, mercè la esibizione del pre- zioso sesterzio del Museo di Napoli, che chiaramente reca la tri- bunizia potestà XI di quell’imperatore. Fa d’uopo però che i miei lettori rammentino , come fin da dieci anni indietro , il signor Imhooff-Blumer avea pubblicato in Lipsia una importante memo- ria intitolata: . Ritratti di teste su monete romane 1), nella quale, con bellissima fototipia, trovasi effigiato il ritto d’un sesterzio con- genere, di cui ecco la descrizione 2): Busto di Nerone laureato ed armato di corazza con clamide , rivolto a destra. Intorno: NERO CAESARAVG IMP TR POT XIPPP ( sic omnia) J1 Blumer dopo aver citato per confronto il nummo simigliante effigiato dal Cohen, colla tribunizia potestà XII di Nerone 3), spie- 1) Ihhooft-Blumbr , Portràtkòpfe auj 3) Cohen , Méd. imper. tom. I , p. 196, Romischen Mùruen. Leipzig, 1879. n. 168. 2) Ìbidem, Taf. I, n. 20. 1 Digitized by Ljoogie — 2 — ga le anomalie del suo esemplare nel modo seguente : « Il primo P deve per ora restare senza spiegazione. Per la fina esecuzione del conio , e j&r la perfetta conservazione della moneta , è diffi- cile di prendere quella lettera per uno sbaglio dell * incisore e rettificare la fine dello scritto con TR-POTXIIPP, come nell'al- tra consimile [del Cohen]. Cosicché sembra eh’ essa moneta sia , fino ad oggi , l'unico pezzo che menziona il tribunato XI dell'im- peratore » 1). Con questa definizione adunque verrebbe a sorgere un rivale del sesterzio napolitano , da me asserito unico ; e perciò sento il dovere di accingermi a confutarla. Convien premettere che, in tutta la numismatica di Nerone latina e greca , questo principe vedesi effigiato colla sola testa e l'intero collo, salvo alcune pochissime monete ove comparisce anche parte del busto, ma questo, è rive- stito colla pretesta, o pallio sacerdotale che siasi, ovvero coverto dalla egida di Pallade 2). Ma, come fatto iconografico eccezio- nale , ho io 'potuto osservare che una officina monetaria speciale e diversa dalle altre, dall’ 817 in poi, preferì distinguere il conio dei suoi bronzi, non solo colla data cronologica, comune ad altre officine, ma coll’ effigiare l'intero busto dell' imperatore rivolto a destra , laureato , e rivestito del paludamento militare , cioè della corazza , e della clamide ad essa sovrapposta. Non sono più di cinque gli esemplari che finora conosco di questa officina. Il pri- mo ed il più antico è quello colla Neroniana tr pot xi, che sopra ho memorato. Il secondo, ottimamente conservato, colla trpotxii ed il solito tempio di Giano nel rovescio, esiste nello stesso Mu- seo di Napoli sotto il numero d’ordine 4354. Il terzo , simile in tutto al precedente, è quello del Museo parigino descritto ed effi- 1) Jmhooff-Bl. o. c . pag. 7. 2) Cohen , o. c. pi. XI n. 55 Cf. Morelli, Thcs. f Cap. Neronis , tab. I, n. 1-5; tab. Ili, n. 96: solo in questa tavola, al n. 91, com- parisce per eccezione un nummo Greco col busto di Nerone rivestito di corazza, ma senza clamide. E tutti gli altri non pochi ne'quali il Cohen riferisce « Buste de Néron, avec la ègide » non sono busti veramente ; ma rappresentano la testa semplice, nella quale, alla parte anterio- re della radice del collo, vedesi il segno dell'egida, come ò chiaro nella pi. XII, n. 84. Digitized by ^jOoq le — 3 — giato dal Cohen 1). Il quarto poi colla tr pot xuii di Nerone , e colla immagine di Roma sedente sulle armi, nel rovescio, fu pure descritto dall' istesso .nummografo , secondo un esemplare della collezione Wigan 2). E finalmente il quinto è quello esibito dal Blumer, che dà origine alla presente controvèrsia. Debbo notare anzitutto , come questo Autore , col respingere in modo assoluto l’idea che nel suo nummo esista alcuno sbaglio dell’incisore, viene ad introdurre nella numismatica universa una formola epigrafica singolarissima ed incomprensibile , senza che gli riesca spiegarla per alcun modo. Ma niuno ha dritto di pro- porre nuove dottrine, quando è incapace di liberarle dalle princi- pali difficoltà. Contrariamente dunque alla sentenza di lui, io affermo che, nel sesterzio in disamina, esistono due errori, e non uno soltanto , i quali lo scalptor del conio dovè commettere per distrazione, e che gli fu impossibile rettificare dopo avere eseguito l’incavo. Il primo di questi errori , dissimulato dal Blumer , apparisce chiaramente alla parola caesar, nella quale fu interpolato un punto fra l’A e la R consecutiva : caesa r- . Il secondo poi , molto più grave , sta appunto in quella inesplicabile P che consegue alla cifra XI. Per conoscere intanto quale debba essere la emendazione che fa d’uopo arrecarvi, e la giusta intelligenza cronologica che gli si deve attribuire , convien ricorrere allo studio comparativo delle leggende impresse nei sesterzii provvenienti dalla stessa officina; attesoché questa soleva in ciascun anno variarvi alquanto la epigrafe del ditto. Cdsicchè, nei conii dell'817, vi scrisse : NER9 CLAVD CAES AVG IMP TR POT XI P P; in quelli dell’ 818 invece : NERO CAESAR AVG IMP TR POT XII P P; ✓ 1) Idem, ibid. pi. XI, n. 168. 2) Idem, ibid. tom. VII, p. 33, n. 41. Digitized by ^jOoq Le e da ultimo, in quelli dell’820, non essendo finora comparsi quelli dell’819, ebbe a scrivere : NERO CAESAR AVG TR POT XIIiI P P. % Ora , è giusto dimandare : a quale di queste tre leggende mo- strasi affine il nummo Blumeriano? Evidentemente alla seconda, confermata da due ottimi esemplari. Per conseguenza non può esservi dubbio, che l’antipenultimo P di esso nummo deve giusta- mente correggersi in cifra di unità, e classificarsi quindi fra que"i dell’818, ossia colla tr pot-xii di Nerone. E resta in tal guisa pie- namente dimostrata la unicità del prelodato sesterzio napolitano, il quale però non compie la serie numismatica delle tribunicie potestà Neroniane, standosi a quel che ne dice il Cohen 1); impe- rocché mancherebbe sempre nelle monete la potestà tribunizia XV, che fu conferita a quell’ imperatore nell’ 820. Tn questa circostanza , reputo opportuno soggiungere come lo Eckhel mancò del suo consueto acume nel conoscere gli sbagli dei monetieri, e nel proporne la retta emendazione, allorché de- s' ’isse il seguente dupondio Neroniano del Museo Cesareo 2): IMP NERO CLAVD CAESAR AVG GERM IM TR P XIII PP .Caput radiatum. nf. ROMA S C. Roma sedens, d. hastam, s. clypeum. Egli lo chiama singularis numus , sì perchè era l’ unico cono- sciuto ai suoi tempi , che memorasse le tribunicie potestà di Ne- rone, e sì perchè ripete due volte il titolo mp{erator ) , come ap- punto egli interpreta la nota IM che vi si scorge. Nè il sagace Cavedoni ebbe cosa da osservare in questo luogo, nella recensione delle monete Neroniane, annotando lo Eckhel 3). 1) Idem , ibid. tom. I , p. 178: « Toutes les puissances tribunicies [de Néron] se voient sur ses médailles, sauf la li.™ et Ja 14.» ». Ma poscia, al tomo VII, descrisse quella ancora colla tr. pot. XIIII che sopra ab- biamo già citata. 2) D. N . V., VI, p. 266-67. 3) Cavedoni, Ann . delVInstit . 1851, pag 241-46. Digitized by t^oogie — 5 — Se però venga bene a considerarsi l’assoluta incompatibilità di quell' IM , e un’ altra qualifica di Nerone mancante nella epigra- fe, verrassi in chiaro che l’artefice, dovendo incidere un P, dimen- ticò la curva per sbadataggine, e lasciò incavata la sola asta ver- ticale. Per conseguenza in quel luogo deve rettamente leggersi ed interpretarsi: P(ontifex) M(aximus) , siccome vien confermato da un dupondio consimile, ma senza errori, edito dal Cohen 1). Adesso convien procedere all’esame di un’altra quistione assai più difficile ed importante. Nel ripetuto quinto capitolo della pre- sente istoria ho asserito che tutte le monete di Nerone col tempio di Giano, o con Roma sedente sulle armi, debbono necessariamente attribuirsi agli anni 809 ed 810; e nei conii peregrini prolungarsi sino all’811, e forse all’812. Ma qui preveggo per parte dei numis- matici una forte obbiezione. Secondo le più recenti dottrine espo- ste dal Mommsen, Nerone circa l’anno 813 diminuì fortemente il peso dei denari di oro e di argento 2). Ora esistendo nei diversi Musei varii aurei che raffigurano il detto tempio e mancano della nota cronologica, ed essendo essi di peso molto scadente, sembra certo che dovettero esser coniati non già nella prima chiusura di Giano , ma nella seconda. Il mio giudizio però intorno a questa assertiva è assai differente; imperocché affermo che, fra le tante colpe che pesano sul capo di Nerone, non deve la posterità ag- giungerne un altra non lieve : quella cioè di aver tradito la fede pubblica, diminuendo nella moneta il giusto peso dell'oro e del- l’argento, a danno universale. In primo luogo non offre certezza assoluta di questo crimine, il notissimo passo di Plinio: « Aureus nummus post annos LI percussus ert quam argenteus , ita ut scripulum valeret sestertiis oicenis, quod efficit in librali ratione ** sestertii qui tunc erant, cccc. postea placuit XL signari ex auri libris , paulatimque principes imminuere pondus , et novissime Nero ad XLV » 3). Iahn però avverte che nel codice Riccardiano 1) Cohen, O. c. tom. I, p. 202, n. 221. Ili, pag. 23; 28-29. 2) Mommsen, Hist. de la mona. Rom. t. 3) Plin. H, N. XXXIII, 13. Iahn. Digitized by Google — 6 - \ del secolo XI, nel Toletano del secolo XI-XIII, nei Parigino n. 6801 del secolo XV, ed in tutte le antichissime edizioni di Plinio, invece di Nero leggesi vero 1). La quale emendazione fu dal Le- tronne rinvenuta in sei codici della biblioteca di Parigi , e nella edizione principe di Plinio del 1469, che è copia fedele d’un ma- noscritto antichissimo. Ed anche lo stesso Arduino confessò di averla trovata in tre codici Vaticani, sebbene la riputasse contra- ria alla sua opinione 2). Plinio in verità, con quel suo notiziario vago e senza precisione cronologica, fa conoscere che non volle nominare nessuno dei principi che diminuirono il peso degli au- rei; e ciò per evitare di comprendere nell’accusa l’imperatore Ve- spasiano suo amico, il quale veramente fu quello che, si per l’ava- rizia , come pel bisogno estremo in cui trovò il pubblico erario , dovè adottare tale iniqua misura. Nerone non avea molto bisogno di moneta; ed abbenchè avesse dissipato il suo ricchissimo patri- monio nel fabbricare, ed in altre pazze imprese e liberalità 3), asten- nesi sempre dal por mano al pubblico tesoro , il quale neppure patì detrimento per guerre, attesoché l’impero fu sempre in pace, salvo le brevi scaramucce coi Parti, per le quali erano sufficienti, o quasi, le ricchezze della Siria. Nè per la guerra Giudaica fu ne- cessaria molta spesa, essendo le legioni romane padrone di tutto il territorio, e dei minori villaggi della Palestina, abbastanza opu- lenti per nutrirle. Ed in ogni caso, il maggior dispendio gravita- va sull’erario Militare, non già su quello di Saturno. Egli è vero che, verso la fine del suo regno, lo stesso principe trovossi qual- che volta alle strette; ma allora rammentando il profondo verso di Persio Flacco suo contemporaneo 4): Dicite Pontiflces: in sacro qnid facit aurum ? spogliava senza cerimonie tutti i tempii degli inutili aggetti pre- ziosi, e soddisfaceva ai bisogni. E poteva ben farlo, ma non delin- 1) Iahn, nella prefazione al tomo V , p. V1M , della edizione di Plinio del Teub- ner. Lipsia 1854. 2) Letronnb, Consider . sur l’évalutation des monn. Greques et Romaines,p. 67. Pa ris, 1817. 3) Suetonio, Nero Claud. XXXI. 4) Persio, Sat . II, vs. 69. Digitized by ^jOoq le — 7 — quere, perchè era Pontefice Massimo , e Principe irresponsabile : solutus legibus. Non ebbe inoltre difetto di pretesti, per dare ad- dosso alle immense ricchezze delle Città e dei privati 1) ; nè vale obbiettare ch’egli dovette avere gran bisogno di oro per le dora- ture interne ed esteriori del teatro di Pompeo, fatte in occasione della venuta di Tiridate , e per la splendidissima casa appellata aurea , dalla profusione appunto di quel metallo 2). Imperocché tanta erane in quei tempi 1’ abbondanza , che una sola miniera della Dalmazia, dice Plinio, ne rendeva l’enorme prodotto di cinquanta libre al giorno. « Inoenitur ( aurum ) aliquando in summa tellure protinus rara felicitate , ut nuper in Delmatia , principatu Neronis , singulis diebus etiam quinquagenas libras fundens » 3). L’esistenza di questa preziosa miniera fu confermata da Stazio 4): « Quicquid ab auriferis eiectat Iberia fossis, Delmatico quod monte nitet... » e, da non molto, lo è stata pure dalla epigrafia Dalmatina, essendosi rinvenuto in Salona il titolo : D M||thavmasto||avgconmenI|tariesi avrari||arvm delmatarvm||felicissimvs disIIpesator titvIIlvm - p 5). Il Mommsen crede che tali miniere non erano in Dalmazia , la quale oggi ne manca completamente, ma bensì sul confine di essa, della Macedonia e dell’Epiro, cioè nella Bosnia, ove dimo- ravano i Pirustae 6). Ma i passi classici sopra trascritti , e che non sono stati da lui contemplati, mostrano il contrario; e se cave di oro non esistono attualmente in Dalmazia, è segno che furono tosto esaurite , perchè giacevano presso la superficie del suolo : in summa tellure , come afferma Plinio. Vespasiano all’ incontro trovò l’erarjo estremamente dissanguato % 1) Tacito, Ann. XV, 45, Suetonio, Nero CI. XXXII; Plinio H . N. XVIII , 7: «Sex domini scmisscm Africac possidebant , cum interfecit eos Nero princeps ». 2) Plin., tf.V.XXXIII,16; Dione LXI1I,6. 3) Plin. H. N. XXXIII, 21. 4) Stazio, Sylo . Ili, 3, vs. J89-90. 5) C. /. L. Ili , n. 1997. 6) Ibidem , p. 305; Cf. p. 214. Digitized by ^ooq le — 8 — dalla guerra civile e dalle dilapidazioni di Vitellio; e distrutte an - cora dall’ incendio del tabularium capitolino tutte le tavole degli arretrati, e dei debitori erariali che non doveano esser pochi; co- sicché, sul bel principio dell’822, i prefetti dell’erario ebbero neces- sità di chiedere al Senato i mezzi per provvedere alle giornaliere spese amministrative. « Praetores aerarli... publicam paupert atem questi , modum inpensis postulaverant » 1). E Vespasiano non seppe trovare altro rimedio, che quello volgarissimo di accrescere oltremodo le vecchie imposte ed introdurne delle nuove : « Non enim contentus omissa sub Galba vectigalia revocasse , nova et gravia addidisse ; aulisse tributa pròvinciis, nonnullis et dupli- casse... Sunt cantra qui opinentur ad manubias et rapinas ne- cessitate compulsum summa aerarli Jìscique inopia » 2). E taccio la notissima imposta sulle pubbliche latrine, che fa conoscere fin dove si spinse l’astuta rapacità di questo principe. Tutti gl’indizi i storici dunque concorrono a designarlo come autore della dimi- nuzione di peso nella pubblica moneta, riducendo gli aurei al piede ponderale di XLV a libra, ed in proporzione, abbassando anche quello dell’argento. Ma, per aver maggiore e più immediato gua- dagno, dovè ritirare dai privati tutta la vecchia moneta che gli fu possibile, mettendola fuori corso, e contracambiandola colla nuova di peso inferiore. Che così avesse in effetti operato, non mancano altri gravi indizi. In una mia memoria edita or son quindici anni 3) , ebbi occa- sione di trattare la diffìcile quistione delle contromarche nella moneta di bronzo; e quivi dimostrai ch’esse incominciarono a com- parire non prima dei tempi dell’ imperatore Claudio Nerone , il quale fu il primo a vantarsi di restituire ai nummi logori il giusto peso; e perciò fece inserire nei suoi semissi il tipo d’una bilancia in bilico, colle celebri sigle P N R, saviamente interpretate dallo Eckhel: P (ondus) N(wmi) R (estitutum) ; ma che io ora, con mag- gior verità storica, credo debbano leggersi: P(ondas) N(wmi) R(es£i- 3) Atti dell’ Accademia Pontaniana, vo- lume XI (1873). 1) Tacito, Hist. IV, 9. 2) StiETQNio, Vespa 8 . XVI. Digitized by ^jOoq le — 9 — tuendum ) 1). Dopo di che soggiunsi : « Per rendere alla logora moneta di bronzo in corso il peso stabilito dalla legge del 734 , non poteva Claudio far altro , che ritirarla dalla circolazione , ed indennizzare i possessori con moneta nuova: or bene , le con- tromarche ci mostrano che appunto questo fu fatto; ma affluen- do nelle casse erariali la moneta consunta , e tuttavia contenente il peso legittimo , egli dopo averla verificata , la fece riporre in circolazione , munita però d'un bollo , che attestandone la lega- lità non l'avesse resa soggetta ad ulteriori rifiuti » 2). Quest'uso, o dirò meglio, postulato di legge , che fu continuato dai principi suc- cessori immediati di Claudio, e che dovette essere imposto mercè un senatoconsulto speciale, fu eseguito ancora da Vespasiano; costui pe- rò venne a ritirare non solo la moneta di bronzo, ma quella ancora di argento, come ha dimostrato il Borghesi, tessendo il catalogo dei numerosi denarii colla contromarca: imp ves 3). Ora, se potè ritira- re la moneta di argento, serbando per sè quella di peso maggio- re, vi è sommo grado di probabilità che operasse il simile anche per l'oro, ove il guadagno era grandissimo; rimettendone poscia in corso tutti i pezzi scadenti che raggiungevano il peso di 45 a libra da lui stabilito. Nè vi era d’uopo sfregiare la decente effigie degli aurei con quelle barbare contromarche, che facevano e fanno tuttora così sconcia impressione. Premesse queste considerazioni, ascoltiamo le risse dei moderni numismatici, che hanno voluto verificare il peso delle monete im- periali di oro e di argento, per decidere a cui spetta la massima i riduzione di esse ad un piede inferiore. Il De la Nauze, nel 1764, per risultato degli esattissimi pesi monetarii fornitigli dal celebre abate Barthelemy, conchiuse, che tanto gli aurei, quanto i dena- 1) Eckhel, D. N. V. VI, p. 238. Non po- teva certamente Claudio raccogliere e contraccambiare tutta la moneta di bron- zo , entro il breve spazio dei due anni accennati dai suoi semissi, e perciò non poteva recisamente affermare di aver compiuta tale operazione. 2) Atti dell* Ac. Pont, citati, p. 11. 3) Borghesi, I, p. 211, e nota del Cave- doni, alla quale deve aggiungersi un al- tro denario di Vespasiano coniato in E- feso ad onore di Domiziano : cfr. Cohen, Méd. imp. tom. 1, p. XXVI. 2 > Digitized by t^oogie — 10 - rn di argento , cominciarono ad essere diminuiti di peso sotto T impero di Augusto ; verificandosi che i primi passarono , da 40 per libra, a 41; e i secondi, da 84 ad 86, per ogni libra di argento; ad eccezione però di quelli che portano i nomi dei triumviri mo- netali Aquillio Floro , M. Durmio , Petronio Turpiliano, e parec- chi altri; avendo trovato in essi l’antico peso normale 1). Dice po- scia, come la maggior parte degli aurei di Nerone che ci rimango- no, sono anteriori al tipo di 45 per libra, il quale solo manifestasi in quelli coniati negli ultimi anni del suo regno , fra i quali cita quelli colla effigie del tempio di Giano 2). Vespasiano e Tito offro- no costantemente il tipo di 7 4# ; ma Domiziano rialzollo a 43 per libra; ciò che fu continuato da Nerva, e nel primo biennio dell’im- pero di Traiano , dopo il quale ricadde nuovamente al tipo Ve- spasianeo 3). In genere però, trova vera la espressione di Plinio che gl'imperatori fino a Vespasiano, gradatamente, paulatim , di- minuirono il peso degli aurei. Il Letronne poscia, nel 1817, avendo pesati esattamente tutti gli aurei a fior di conio esistenti nel gabinetto reale di Parigi, e cal- colatone il peso medio , notò pure la diminuzione progressiva di esso, da Augusto in poi; ma la massima non trovolla punto negli aurei di Nerone, sibbene in quelli diO£o«e,alla quale, dice, si appros- simano quelli di Galba, di Vitellio e di Vespasiano 4). Conchiu- de quindi, che non fu Nerone colui che sminuì gli aurei ad 7 4a , e che deve ritenersi giusta la lezione « vero » esistente nella maggior parte dei codici di Plinio invece di « Nero » proposta dall’Arduino senz’autorità sufficiente, al classico luogo Pliniano sopra riferito 5). Dureau de la Malle , nel 1840, ripetè le medesime esperienze , e pervenne, con poca variazione , ai risultati di Letronne; rima- nendo perciò convinto che gli aurei erano ben più leggeri sotto Galba, Vespasiano e Tito, che sotto Nerone 6). 1) De la Nauze, Mera, de VAcademie dea Jnscr. et bell . Lettr. , tom. XXX , p. 387. Paris, 1764. 2) Ibidem , p. 388. 3) Ibidem , p. 391. 4) Letronne, Consider. sur Veoalutation des monnaies grecques et Romaines , p. 81 nota. Paris, 1817. 5) Ibidem , p. 67 nota , e pag. 38-39. 6) Dureau de la Malle, Économie poli - tique des Romains, tom. I, p. 44, ed 88, no- ta. Paris, 1840. Digitized by ^jOoq le — u — Il Mommsen finalmente, giusta il referto di Sabatier 1), manife- stò verso il 1858 la opinione che Augusto avesse coniato gli aurei al peso di 40 per ogni libra; Nerone al peso di 45; Caracalla a quello di 50 etc. Ma il Cohen, dopo aver notato come per risolvere alcune quistioni di numismatica la dottrina non vale, e bisogna fondarsi sul- la esperienza, giustamente osservò, che ammessa tale teorica, Au- gusto avrebbe dovuto dare a ciascun aureo il peso di grammi 8, 16, il quale, nel fatto, è superiore non solo a tutti gli aurei di Augu- sto; ma ancora a tutti quelli consolari da esso Cohen riscontrati 2). Posteriormente però lo stesso Mommsen modificò la sua sentenza; e fondandosi su diversi pesi di monete eseguiti dal Pinder, con- chiuse, che verso l’anno 60 dell’èra volgare (=813 di Roma) videsi il peso degli aurei precipitare , da grammi 7 , 81 , a grani. 7, 57, fino a 7, 30. Ma questa diminuzione, soggiunge, fu il risultato di un abuso , e non può esser considerata come introdotta in forza di una legge; imperocché, dopo Nerone, rinvengonsi ancora alcuni aurei più pesanti, e quelli di questo principe aventi un peso mag- giore continuarono a restare in circolazione 3). Relativamente poi ai denari di argento, tutti, compreso il Bor- ghesi, convengono che sotto Nerone, dal peso di 84 per libra, fu- rono sminuiti a quello di 96 ; ossia da grammi 3, 9 (f, caddero a gram. 3, 41; il qual peso fu conservato fino a tutto il regno di Set- timio Severo. Ed il Mommsen reputa probabile che fosse stato le- galmente stabilito da Nerone nel 60 dell'E. V., dappoiché lo Aker- man notò, come i denarii colla testa giovine di Nerone conservano il peso antico normale 4). È chiaro dunque, che il preteso alleggerimento degli aurei ad- debitato a Nerone, rimane assai controverso, anche dopo le espe- rienze praticate sui nummi. Ma ciò non basta; imperocché io co- stantemente affermo, che queste esplorazioni in generale non pos- sono dare risultati di verità, perchè fondansi sopra monumenti in 1) Articolo inserito nella Réoue nurnia- 3) Mommsen , Histoire de la monn. Ro- matique dell'anno 1858. maine , traduz. Blacas, tom. Ili, p. 23-24. 2) Cohen, O. c. I, p. XV. 4) Ibidem, p. 28-29. Digitized by ^ooq le — 12 — gran parte viziati , e perciò inattendibili. Tutti i numismatici co- noscono che i zecchieri romani non avevano molta cura nel dividere in pezzi uguali i tondini della moneta da coniarsi; bastando loro che ad una libra di metallo si traesse quel numero di esemplari prescritto dalla legge. E qual grave differenza di peso fra i mede- simi soleva aver luogo con tal sistema , niuna cosa meglio il di- mostra, che il fatto accaduto al Borghesi, allorché avendo comprato in Roma un sesterzio di Nerone trovato fra le ceneri di un’urna, e che conservava tale lucentezza da sembrare uscito allora allora dal conio, vi rinvenne il meschino peso di grammi 26, 60, mentre un altro nummo consimile della sua raccolta, meno bello ma pa- tinato, pesava grammi 31,021). A questo esempio fanno compa- gnia quelli riferiti dal Cohen, di due aurei di Settimio Severo con tipi uniformi; ma il primo, a fior di conio, pesava 30 centigrammi meno del secondo , di mediocre conservazione ; e similmente , di due altri aurei del medesimo principe, i quali differivano fra loro di un grammo , e trentotto centigrammi e mezzo 2). Il dimostrare la vera e precipua causa di questo imponente squi- librio, ed il non doversi totalmente attribuire alla indolenza dei mo- netieri , trarrebbe il discorso assai lungi ; perciocché mi sarebbe d J uopo espórre la tecnica precisa della coniazione monetaria presso i romani , la quale è rimasta in gran parte finora scono- sciuta. Ponendo dunque da banda per ora questa ricerca, non posso tralasciar di avvertire, come nella moneta romana, oltre della pre- detta disformità, esiste un’altra gravissima causa di apprezzamenti erronei, non molto avvertita dai numismatici, e con ogni proba- bilità* trascurata nelle loro esperienze ponderane. È vero che egli- no, per questo oggetto, hanno prescelto i così detti fior di conio ; ma niuno ha avuto cura di far conoscere lo essersene diligentemente esplorato anche il contorno , per assicurarsi della loro piena in- tegrità, e del non esser caduti fra le unghie dei tosatori, i quali davan la caccia appunto ai pezzi ruspi , onde ricavare maggior profitto e compenso alla loro scelleraggine. Le romane leggi com- 1) Borghesi, II, p. 419. 2) Cohen, O. c. I, p. XX. Digitized by ^jOoq Le — 13- minarono pene severissime contro questi malfattori ; e ben poco informato se ne mostra lo Eckhel, allorché riferisce solo là parte più blanda e meno precisa delle medesime , trascrivendo il noto passo di Ulpiano: « Lege Cornelia cavetur , ut qui in aurum vitii quid addiderit, qui argenteos nummos adulterinos flaverit, falsi crimine teneri » 1). Egli ribadisce la sua ignoranza colla strana domanda: « Si aurum tum lege ordinaria signatum fuit, cur lece aurum tantum enunciata non vero numos aureos , perinde ac mox argenteos ?... multi sunt in re antiquaria nodi , vindice quidem digni; sed qui eos explicaret, nondum adfuit deus » 2). Ma il certo è, che per disciogliere il nodo da lui proposto, non occorre punto una ispirazione superna; bastando al cultore della scienza lo essere alquanto più versato nel giure romano. Ed in vero, non è permesso su questo argomento ignorare, che nel Digesto esistono testimo- nianze ben più gravi dello scempio che subiva la pubblica moneta, per opera dei falsarii, e del rigore delle leggi contro di essi. Ul- piano stesso , poco prima del passo riportato dallo Eckhel , avea scritto: « Quicumque nummo* «ureo* partim raperini, partim tinxe- rint, vel dnxerint, si quidem liberi sunt, ad bestias dari; si ser- vi, ad summo supplicio affici debent » 3). E più preciso è ancora il luogo di Paolo: « Lege Cornelia testamentaria tenetur... quive nummos aureos, argenteos , adulteraverit , laverit , conflaverit , raserlt, corruperit, vitiaverit, Tultnve Principimi slgoat» moneta, pbaeter adulterina»! reprobaverit. Et honestiores quidem in insulam deportantur, humiliores autem in metallum damnantur, au t in crucem tolluntur. Servi autem, post admissum manumissi, capite puniuntur » 4). Tali tremende sanzioni però non furono, come potreb- be credersi, istituite da Siila colla sua legge del 673; ma erano, pari all’arte dei falsarii, molto più antiche; imperocché Cicerone ci fa co- noscere che: « lex Cornelia testamentaria nummaria, ceterae com- plures in quibus non Ino allqald noTam pepalo eonstltaltur, sed Digesto, XLV1II, 10, 9. Cf. Eckhel, V, p. 40. 2) Eckhel, l. cit. 8) Digesto, XLVIII, 10, 8. 4) Paolo, Recept. Seni. V, 25, § 1. Digitized by ^ oogie — 14 — sancitur , ut quod semper malum facinus fuerit , eiùs quaestio ad populum pertineat , ex certo tempore » 1). Niun giurista però, e niuno storico, o economista moderno, a quel ch’io sappia, ha osser- vato qual gravissima conseguenza possa dedursi dalle espressioni di Paolo, che ho sopra trascritte con carattere distinto; vai quanto dire, che la stessa pena comminata ai falsarii, estendevasi anche a coloro che avessero rifiutata qualunque moneta segnata colla effigie del Principe , eccetto quella adulterina. Ma quale deve giustamente addimandarsi moneta adulterina ? A mio parere, quella soltanto che fu occultamente coniata , o fusa , fuori delle officine gover- native ; sia che la medesima fosse di giusto peso e di buon me- tallo , sia che fosse alterata. Il Gotofredo invece, crede che possa aver questo nome anche la moneta viziata e corrosa per opera di malfattori: « id est, ut equidem existimo, nummaria nota adultera- ta, vitiata, corrosa... denique adulterinam monetata vix quisquam exercet , nisi vitiata , corrosa , adulterina nota , falsa fusione , clandestinis autem sceleribus » 2). Ma egli evidentemente confonde in un fascio ciò che la filologia e le leggi distinguono apertamente. Il vocabolo adulterium offre soltanto la idea di due enti diversi illegalmente uniti fra loro. Laonde, se per formar la moneta l’ente « metallo » non basta, ma occorre altresì l’ente « effigie sovrana » è chiaro che chiunque unisce questi due enti , senza il benepla- cito della legge, viene a creare la- moneta adulterina. « Adulteri- na signa dicuntur alienis anulis facta » 3). Cosicché, se un num- mo legittimo venga alleggerito di peso dai falsarii, esso non potrà giammai ricevere la qualifica di adulterino ; ma bensì quella di viziato, corroso, tosato, e simili, nella stessa guisa che un ven- ditore di vino purissimo, ma dato con scarsa misura, non potrebbe affatto essere colpevole di avere adulterato il suo liquore. Le leggi inoltre distinsero benissimo le due specie di tali crimini relativi alla moneta. Ne abbiamo una di Costantino del 317 (E. v.) colla quale comminasi pena del fuoco al falsario « qui mensuram cir- 1) Cicerone, In Verr. Act. II, 1, 42. IX, 81, 2. 2) Gotofredo, Comment. ad Cod. Theod. 3) Festo, Deoerb. signif., p. 28. Mailer. Digitized by ^jOoq Le — 15 — culi exterioris ( solidi aurei ) adraserit , ut ponderis minuat quan- titatem : oel flguratum solidum, adultera imttatione, in vendendo subiecerit »1). E similmente in altra sua legge del 321, il fabbri- cante dei nummi con fusione falsa , viene chiamato « solidorum adulter » 2). La quale arte fioriva sopratutto in vicinanza delle miniere , ove poteva facilmente acquistarsi il metallo occorrente : narrandosi da Venuleio Saturnino, che erano puniti in modo più severo « ubi metalla sunt , adulterato'res monetae » 3). Altri esem- pli, li reputo superflui. Consolidata dunque la precisa distinzione fra la moneta legale, ma sminuita di peso, e quella adulterina, cioè fusa o coniata clan- destinamente, benché proba di peso e di metallo, la inopinata con- seguenza che sorge dal su riferito luogo di Paolo, è che le antiche romane leggi stabilirono il corso forzoso della moneta ufficiale, non ostante che avesseperduto il giusto peso per causa incrimi- nabile. Il motivo di questa rovinosa disposizione , io lo rinvengo nello essersi dal Legislatore considerato, che dovendosi per neces- sità tollerare la circolazione della moneta uscita dal conio difettosa e scadente, nonché quella consunta dal lungo uso, doveva in simil modo tollerarsi queir altra resa tale dallo scarpello dei falsarii ; dappoiché, nel caso diverso, tutti i pezzi di maggior peso, avreb- bero , secondo una pittoresca frase del Mommsen , preso subita- mente la via del crogiuolo; ed il delitto, sparitane la traccia, poteva in gran parte rimanere impunito. Io non rinvengo nel giure , al- cuno indizio di provvedimenti legislativi intorno al peso della mo- neta di oro e di argento , eccettochè ad impero molto avanzato. Abbiamo difatti una legge attribuita agl’imperatori Valentiniano e Valente, ove dicesi: « Solidos veterum Principum veneratione for- matos, ita tradi ac suscipC ab ementibus, et distrahentibus iube- mus, ut nihil omnino refragationis oriatur, modo ut debiti pon- deri» slot, et speciei probae » etc. 4). Ed a questa fa eco l’altra di Giuliano Apostata, emanata nel 363 (E. v.): « Emptio, vendiditioque / 1) Codice Teodos. IX, 22, 1. 3) Digesto, XLV1II, 19, 16, § 9. 2) Codice, IX, 24, l. 4) Codice, XI, 10, 1. Digitized by ooQie solidorum quos excidunt, aut {ut proprio verbo utar cupiditatis) abradane, tanquam leoes eos, vel debiles nonnullis repadiantibus » etc.; e perciò, onde dirimere le controversie e. i litigi che solevano insorgere, institul in tutte le città deirimpero i Zygostati, cioè una magistratura speciale con tale incarico 1). E taccio le altre , per amore di brevità. Posta la inoppugnabilità di tali fatti, è chiaro, come per giungere a qualche conclusione approssimativamente vera intorno al peso de- gli antichi nummi, occorrono nuove esperienze, nelle quali tengasi conto precipuo della integrità nel contorno di essi. Questa cono- scenza però non è così facile , come potrebbe credersi a primo aspetto. Ed a me riesce impossibile assegnare airuopo regole certe ed infallibili, non essendo che un semplice privato, e non avendo perciò a mia disposizione e comodo qualche raccolta numismatica sufficiente , per eseguirvi uno studio opportuno. Quello che sol- tanto posso avvertire è, che il contorno integro dei nummi di ar- gento non mostrasi affatto levigato; ma è tutto cosparso di tenui aperture, o crepature nel metallo, cagionate dall’azione del conio. Imperocché questo, schiacciando impetuosamente il tondino, per effetto dei colpi di maglio, veniva a dilatarne la circonferenza in modo così rapido, da vincere la duttilità del metallo, e spezzarne minutamente il lembo estremo. E tali fessure non potevano imi- tarsi dai falsarii, nè facilmente distruggevansi coll’uso. Sono visi- bilissime sopratutto nei denarii di forma gruppita; ma se le me- desime veriflcansi ancora negli aurei, come dovrebbe essere per legge di analogia , e molto più per la minore tenacità che esiste nelle molecole dell’ oro, non posso affermarlo, perchè mi manca la esperienza necessaria ; e quei pochissimi che ho potuto finora considerare, gli ho trovati sempre levigati, con maggiori o minori ondulazioni. Io ho motivi assai gravi per credere che simile leviga- tura non sia opera normale dei zecchieri; essendo persuaso che que- sti non rimaneggiavano ulteriormente la moneta uscita dal conio, alla cui azione sottoponevansi soltanto i tondini metallici convene- j) Codice Teodos. XII, 7, 2. Digitized by ^jOoq Le — 17 — volmente netti e preparati. E perciò, ad onta della mia confessata inesperienza, mi sentirei proclive all’audace tentazione di affermare a priori , che tutta, o pressoché tutta la moneta aurea dei Romani fino a noi pervenuta , venne più o meno , sminuita di peso per opera dei falsarii. Nessuno potrà conoscere per quante mani ladre sia essa passata col volger degli anni , o dei secoli , e prima che discendesse entro il benefico sepolcreto della terra. Se le leggi son figlie della colpa, e se questa, in grandissima parte, è figlia della occasione, ognun vede qual grande incentivo a delinquere offriva una moneta di pregio, ma difettosa, e di peso incostante; e sopra- tutto il notevole margine libero che estendevasi oltre i limiti del suo campo. Anche adesso, nello stato in cui la possediamo, le si potrebbe inferire un’ultima tosatina, senza alterarla gran fatto nel- l’ apparenza. A mio giudizio , assai maggior saggezza avrebbero mostrato gli antichi Romani, se invece di comminare inutilmente ai falsarii le pene più gravi, e nel basso impero, con animo bar- baro, perfino l’amputazione delle mani ed il rogo, avessero stabi- lito. grandi premi all'autore di un mezzo pratico per rendere im- mune da ogni alterazione dolosa la pubblica moneta. Non potea forse qualche vivace intelletto inventare il modo di coniarne il con- torno, come oggi si usa? È vero però che neppur questo sarebbe bastato, imperocché la medesima veniva raschiata ancora nelle su- perficie piane ; e perciò i giuristi vi distinsero l’ abrasione dalla circoncisione. Un fatto inoltre più curioso ed incomprensibile tro- vasi nelle espressioni di Paolo superiormente riportate: qui num- mos aureos , argenteos... ìavcrit, che nessuno ha osato spiegare. Ma se i nummi non erano pannilini che potevano lavarsi coll’ac- qua o col bucato, come dunque venivano lavati dai falsarii? Co- noscevano forse costoro la così detta acqua regia, cioè una miscela di acido nitrico ed acido cloroidrico , validissima per discioglier l’oro ? Il Savot lo nega ricisamente 1); e fra varii altri scrittori di 1) « Res est certissima, modum secer- nendi aurum ab argento ope aquae for- tis , veteribus non fuisse cognitum , ut observavit Pancirollus in Tractatucfe no- via inventi#, sed nostris demum tempo- ribus inventa fuit ». Savot , De nummia antiquia (ap. Graev. Thea. antiq. roma- nar., tom. XI, p. 1179). 3 Digitized by lOogie — 18 — minore autorità, anche il Bocciardo 1). Ed io, dopo lungo escogi- tare, non saprei proporre altra interpretazione al preciso vocabolo adoperato dal Giureconsulto, salvo quella favorevole alla ipotesi: che i falsarli abradessero gli aurei , tenendoli sotto acqua , per non perder nulla del prezioso pulviscolo, che necessariamente sol- levavasi, ed andava in dileguo, operando all’aperto. Cosi arden- te, così irrefrenabile era in quei tempi la sete del fatale metallo , che , per possederne qualche briciolo , non rifuggivasi dall’ abra- dere perfino le dorature delle statue nei sacri templi, siccome av- vertì Giovenale 2) : « minor extat sacrile gus qui Radat inaurati femur Herculis, et faciem ipsam Neptuni, qui bracteolam de Castore ducat ». Non senza causa dunque l’ imperatore Nerone , nelle requisizioni operate verso gli ultimi giorni del suo dominio, « exegit , ingenti fastidio et acerbitate, mammoni asperom, argentum pustulatum, aurum ad obrussam » 3); obbligando così gli oppressi cittadini a comprar la moneta ruspa , e prima che fosse caduta fra le unghie dei falsarti. Dovettero quindi rivolgersi o direttamente alla zecca, ovvero presso i nummularii , i collectarii , i collybistae , che ne facevano mercato, e pagar loro un aggio più o meno forte secondo la ricerca che addimandavasi as prato m , ed in lingua Greca XiXXvpo? 4). Non bisogna infine dimenticare, come sotto il rilassato dominio di quel mostro, quando ogni specie di malfattori godeva quasi la impunità , veriflcaronsi numerosissimi i denarii subé- rati 5). mo8 vendere» ricordando fra gli altri do- cumenti il passo di S. Girolamo , ove si definisce il collybo : munus quod prò cam- bio datur. Ct. Comment. ad Cod. Theodos . IX, 22, l. * 5) Cohen, O. c. tom. I, p. 178, nota. 1) Boccardo , Manuale della Storia del commercio , p. 85. 2) Sat. XIII, vs. 150-152. 3) Suetonio, Nero Claudius Caes ., XLIV. 4) De Vit, Lexicon , s. v. Asperatum. 11 Gotofredo illustra dottamente V ufficio dei Collybistae , che era « nummis num- Digitized by ^jOoq le - 19 — Dalle cose finora compendiosamente esposte, ho fiducia di aver dimostrato , come col solo peso degli aurei , o dei denarii di Ne- rone non possa affatto dedursene la cronologia; e molto meno la certezza di essersi da costui sminuita la massa metallica nella pubblica moneta. Laonde , darò conclusione a questo mio ra- gionamento col dichiarare di nuovo, che, fino a pruova contra- ria, tutte le monete del ripetuto principe mostranti, o il tempio di Giano, o la Roma sedente sulle armi, o l’ara della Pace, senza però contenere la nota cronologica, debbono storicamente attribuirsi agli anni 809 ed 810; e qualcuna per anomala eccezione, anche agli anni 811, ed 812. Lo Eckhel, considerando le gravi e perpetue discor- die dei dotti intorno al peso degli antichi nummi, ebbe ad escla- mare: « istad certùm , veratri ponderis in aurei» legem difflculter posse reperiri ; sive eius causam in monetario s coniicias , iam olim in servando pondere minus religioso s, sive in àetatis iniu- rias numis damnosas, sive in magistratus ponderi addentes vel demente s » 1). Il sommo numismatico però, unitamente alla gran comitiva di tutti gli altri a lui anteriori e posteriori, sono eviden- temente rei, in faccia al tribunale della Scienza, dello aver man- cato di studiar praticamente lo stato, le fasi, i gradi diversi, e le conseguenze di quella clandestina abrasione ora da noi segnalata, che fu senza dubbio la vera piaga cancrenosa della moneta romana. 1) Eckhel, tom. V, p. 36. Digitized by i^oogie CAPITOLO OTTAVO LETTO ALL’ACCADEMIA NELLA TORNATA DEL 6 MARZO 1888 Esaurito cosi lo esame delle quistioni nummologiche che Ano ad ora interessano la nostra Istoria, fa d’uopo avviarci alla discus- sione di quelle altre, non meno importanti, che riguardano preci- puamente le nuove dottrine esposte nel sesto capitolo. La estrema inopia delle notizie relative al testo preciso della legge erariale provocata da Elvidio, ha indotto nelle menti di molti insigni scienziati dei nostri tempi alcune opinioni storico-critiche totalmente erronee, sebbene abbiano avuto fondamento in varii passi di antichi scrittori. Ed in vero, sembra che per influsso di avverso fato, quello stesso Tacito, cui unicamentente dobbiamo la conoscenza benché vaga di essa legge, e l’epoca precisa in cui fu emanata, vi abbia posteriormente gittato un grave scoglio d’in- ciampo per traviare , o almeno render dubbiosi i posteri intorno alla durata della medesima. Narrando egli le deliberazioni del Se- nato , nella memoranda seduta che ebbe luogo verso gli ultimi giorni di quel terribile e sanguinoso anno 828 , soggiunge le se- guenti parole: « Secutum aliud certamen. Practores aerarli {narri tum a Praetaribas tractabatar aeràrium ) , publicam pauperta- tem questi , modum inpensis postulaverant » 1). A primo aspetto dunque, ed attenendosi allo stretto senso letterale di questo passo, sembra certo che nell’822 non più funzionavano in Roma i « Prae- fecti aerario Saturni experientia probati » stabiliti nell’809; ma che invece si fosse retroceduto al sistema di Augusto , il quale , come osservammo, affidò l’erario a due pretori effettivi, cioè solo durante l’anno in cui esercitavano la magistratura pretoria giusdi- cente. Giusto Lipsio, gran cercatore di controversie, non sapendo che risolvere, dissimulò la imperiosa difficoltà e tacque. Posterior- 1) Tacito, Hist. IV, 9. Digitized by ^jOoq Le — 21 — mente il Gronovio rivolse F attenzione al seguente passo di Aulo Gellio, « Manùbiae sunt , non praeda , sed pecunia per quaesto- rem populi romani ex praeda vendita contrada. Quod per qwae- itorcm autem dixiy intelligi nunc oportet praefeetom aerarlo si- gnificari . Nam cura aerarii a qnaestoribaa ad praefeeio» trans- lata est » 1). E citando in appoggio il soprascritto luogo di Ta- cito, dichiarò che Nerone prepose all’erario i prefetti; ma Vespa- siano lo restituì nuovamente ai pretori. Seguì poscia il Gotofredo a ribadire questa sentenza, nell’annotare il responso di Pomponio: « Divus Claudius duo praetores adiecit qui de fidei commissis ius dicerent: ex quibus unus divus Titus detraxit, et adiecit di- vus Nerva qui loier Imui et privatos ius diceret » 2). Perocché non dubitò di scrivere: « verisimile est , hunc praefectum fuisse aerarii » 3) ; ed in altro luogo, avvalendosi sempre del riscontro storico suddetto, con maggior precisione soggiunse: « Nero aera- rium ad praefectos transtulit ; Vespasianus ad praetores , ut et Nerva » 4). Queste conclusioni non essendo state poste in dubbio da alcuno, per quanto io conosco, e non avendo il Borghesi introdotta veruna discussione critica sulle medesime, sono rimaste tuttavia in vigore presso i letterati , non esclusi quelli decorati di grande acume e dottrina. Si è potuto quindi di nuovo, e più recentemente afferma- re, come Nerone prepose al governo dell’erario « praetura functos, nec co8 toto suo principatu : nam quaestores aliquando habuit. At sub Vespasiano praetores iterum administrarunt... Postea Domitiani et Traiani aliorumqae succedentium temporibus , de- nuo mutati sunt. Postquam autem quaestorem aerarii nomea abolitum fuit, quicumque aerarii administrationem gessere, prae- fecti aerarii et aerarlo sunt appellati » 5). Considerandosi dunque , che « haud alio fidei proniore lapsu * 1) Gellio, N. A. XIII, 25, 29. Hertz. Grò* novio, ad Geli . 1. cit. 2) Digesto , De origine iuris , 1, 2, 2, § 32. 3) Gotofredo, nota 17.* al Dig. 1. cit. 4) Idem , nota 53* al Digesto XLIX, 15,42. 5) Furlanbtto , Lexicon Forcell. s. v. Aerarium,~§ 13. Anche il nostro preclaro De Vit riprodusse quella nota , ma non mancò di soggiungere: « qui plura desi- derat de praef. aerano Saturni adeatcl. Digitized by ^ooq le - 22 — quam ubi falène rei graois auctor eacsistit » 1) , sorge la stretta necessità di demolire dai fondamenti tutto questo ediflzio di false nozioni. Il primo e più evidente peccato d'inesattezza storica che vi predomina, è l’affermazione di essersi dalF imperatore Vespasiano restituita ai Pretori l’amministrazione dell’erario. Imperocché se que- sti ufficiali, secondo il narrato di Tacito, erano già in carica, al- lorquando il Senato decretò la dignità imperiale a Vespasiano, il quale neppure era in Roma, ma nell’Egitto, egli è chiaro che tale permutazione non può essergli affatto attribuita. Conviene quindi retrocedere ai governi di Viteliio, di Otone, e di Galba; ma è del tutto improbabile che, in quei miseri giorni di anarchia e di guerre civili, si avesse avuto tempo, agio, e necessità di riformare le am- ministrazioni dello Stato. Non resta pertanto che riferirla ad un capriccio di Nerone negli ultimi due anni del suo impero, la cui descrizione è mancante agli Annali di Tacito. A risolvere dunque la controversia, in questo stato di cognizioni, e nella totale defi- cienza di altri indizii storici, non rimane altra strada, che lo ap- pellarsi all’autorità suprema dei monumenti. Per singolarissima e fortunata circostanza , una bella epigrafe Dalmatina provvede nel modo più efficace ai bisogni della Scienza su questo argomento. Io intendo alludere alla base onoraria ele- vata a L. Funisolano Vettoniano 2) , che illustrerò pienamente nelle prossime « note ed emendazioni »; contentandomi per ora di avvertire, come offrendoci essa tre date cronologiche storicamente certe, relative al cursus honorum di Vettoniano, ci abilita a de- durre fra le altre cose, che questo personaggio era prefetto del- l’erario di Saturno precisamente nell’822, e quindi fu uno dei due richiedenti al Senato i mezzi di far fronte alle pubbliche spese , giusta il racconto di Tacito. Conviene dunquè nuovamente accusare questo grande isterico d’improprietà di linguaggio ? Io son di av- viso che debbasi andare molto adagio; imperocché ci mancano i Borghesi, qui docte copiosequc disputat rarius, nota II. de illis in Memoria sopra una iscrù. dei 1) Punio, H . N. V, 1. console L . Burbuleio». ( Lexicon , s. v. Ae- 2) Corpus Inscript. Latinar . Ili, n. 4013 Digitized by ^jOoq le — 23 — dati positivi per conoscere quali alterazioni siano state introdotte dai librarii al testo originale dell’Autore. E potrebbe essere be- nissimo che dall’abbreviazione «praer. » sia nata quella di « proet. » ed in seguito tradotta « praetares »; e che il superfluo inciso con- secutivo: « nam tum a praetoribus tractabatur aerarium », sia stato / una nota marginale caduta poscia nel testo, come in altri casi si- migliane. Atterrato intanto questo puntello principale , cadono precipito- samente in rovina tutti gli altri, colle loro conseguenze. Aulo Gel- lio, fiorito sotto l’impero di Adriano, non dice che i questori era- riali furono aboliti da questo principe, e sostituiti dai prefetti; ma allude a quelli di Claudio, ed alla riforma Neroniana tuttavia in vigore. Ed il praetor fisci , o fiscalis introdotto da Nerva, non ri- guardò l’erario pubblico, ma il fisco privato imperiale. In conclusione , vi è una certezza storica della continua e non interrotta amministrazione dell’ erario col sistema dei Prefetti : l.° negli ultimi anni di Nerone, e nei primi di Vespasiano, mercè la epigrafe della Dalmazia sopra citata; 2.° nei tempi di Tito e di Domi- ziano, per il frammento fastograftco da noi edito a p. 151, Voi. XII; 3.° in quelli di Traiano, per le lettere di Plinio giuniore, e per le epigrafi di esso 1), nonché per un responso di Paolo inserito nel Digesto 2); 4.° in quelli di Adriano, pel Senatoconsulto riferito da Giunio Mauriziano 3); 5.° in quelli di M. Aurelio, per altri passi analoghi dello stesso Digesto 4), e per la testimonianza di Capi- tolino confermata da una lapida 5); 6.° finalmente, per non più prolungarmi, essi prefetti son testificati esistenti perfino all’epo- ca dell’ imperatore Aureliano , come ha ben notato il Borghe- si, citando una epigrafe di Terni da lui osservata 6), alla quale posso aggiungere il passo di Vopisco : « Valerianus Augustus , A elio Xifìdió Praefecto aerarli » 7). Ad essi poscia successero , 1) Plinio , Epiat. V, 15, 5. etc.; C. I. L. V, n. 5262, 5667. 2) Digesto, XLIX, U, 13, $ 1. 3) Ibidem, XLIX, 14, 15, § 3. 4) Ibidem, XXXIV, 9, 12. 5) Capitolino, A f. Antonia . Philos., IX; C. I. L . V, n. 1874. 6) Borghesi, IV, p. 149. 7) Vopisco, Dieus Aurelianus, XII. Digitized by ^jOoq le — 24 — negli ultimi tempi dell’ impero , i Comites aerarii , o utriusque aerarli 1). Ma procediamo innanzi, perchè alzano la cresta altre liti più se- rie ancora e complicate. Rivolgiamo lo studio ed il critico esame ad un sibillino passo di Suetonio relativo ai tempi di Nerone. « Càutum , dice il Biografo, utque rerum actu ab. aerarlo causae ad forum ac recuperatore transfer rentur, et ut omnes appella- tiones a iudicibus ad Senatum flerent » 2). Il Torrenzio spiegò: « hoc est, ut quando iudicia flunt, causae quae ante apud Prae- fectos aerarii tractabantur, in foro deinceps coram Recuperato - ribus agitarentur » 3). E questa sentenza fu accettata e ripetuta da tutti gli altri annotatori di Suetonio, fra i quali il Lemaire af- ferma con maggior precisione : « hoc est , ut causae eorum qui aerano aliquid deberent, non ad Praefectos aerano , sed ut ali ae causae pecuniariae prioatorum , ad Recuperatores deferrentur, in quo maxima erga obaeratos benignitas » 4). Prima del pare- re di questi dotti , avrei per giustizia dovuto citare quello di Giu- sto Lipsio « rei literariae perfectissimum columen » 5) ; ma egli non fa motto del passo Suetoniano che per incidenza; e con una specie di sacro terrore, ne cita soltanto l’ultimo inciso, nel comen- tare le seguenti parole di Tacito: « Auxitque (Nero) patrum ho- norem statuendo, ut qui a prioatis iudicibus ad senatum provo- caoissent, eiusdem pecuniae periculum facerent, cuius ii qui im- peratorem appellacene : natn antea oacuum id solutumque poena fuerat » 6). Dice perciò: « Mihi a latere tragulam iniicit Tran- quilla, qui hanc ipsam rem tangens capite XVII', nihil eorum quae Tacitus; sed hoc tantum dicit : ut «hmi appella- tone* a ludlclbu» ad icnatna llejrent. Haeret id spiculum et non eoello » 7). 5) Cuiacio, Obseroat. XXI, 16. 6) Tacito, Ann. XIV, 28. 7) Lipsio, Excurs. C, ad Ann. Tac. li- ' bro XIV. 1) Codice Teodos. 1, 5, 13. Borohbsi, 1. c. 2) Suetonio, Nero Claud. XVII. 3) Torrent. ad Suet. 1. cit. 4) Lemaire, ad Suet. 1. cit. Cf. Furlanbt- to, Lexicon Forcell. s: v. Aerar ium § 11. Digitized by t^oogie — 25 — i Ora io dichiaro solennemente, che il senso generico di tutte que- ste interpretazioni è falso; e che nelle laconiche parole di Sueto- nio nascondesi una delle principali clausole della legge erariale delV809. E valga il vero, se i prefetti deir erario erano prescelti, come abbiam visto , fra i personaggi più rispettabili, e prossimi ad ascendere al consolato, non eravi alcun motivo che avesse potuto spingere il senato ed il principe ad inferir loro una grave offesa mo- rale, una specie di deminatio capitis, coll’ abbassarli al grado di semplici ufficiali amministrativi, e spogliarli della facoltà giusdi- cente, nelle cause che interessavano il pubblico tesoro, per con- ferirla invece ad un infimo consesso di giurati. Un altro senso dunque deve evidentemente attribuirsi ai detti del Biografo ; ma qui giace l’arduo della quistione. Ed il mio giudizio per risolver.- la, dietro mature riflessioni, è il seguente. I prefetti dell’erario di Saturno non furono affatto privati, sotto Nerone, del potere giuridico che esercitarono per anni e secoli gli antichi questori e pretori erariali; ma, con sapientissima riforma, fu solamente tolta loro la competenza di giudicar quelle liti, nelle quali potevano essere contemporaneamente «indici e parti. Se eglino , per esempio , avessero comminate e riscosse delle multe ingiuste, ovvero preso possesso di beni riputati spettanti all’era- rio, ma passibili di rivendicazione etc. etc., qual presidio efficace rimaneva ai cittadini, se non eravi altro mezzo che appellarsi , e sottostare alle nuove sentenze emanate dagli stessi autori delle ingiu- stizie? Ottimamente dunque fu stabilito, che le cause di recupero al mal tolto , intervenienti fra l’erario e i privati, dovessero discutersi e decidersi dal collegio dei Reciperatores , ove trattavansi i litigi di questa categoria. Il Prefetto quindi se nei casi dubbii, per sal- vaguardare gl'interessi dell’erario, poteva ingiungere al cittadino: • soloe et repete, questo viceversa, dopo aver pagato, avea dritto di rispondere: « in ius veni ; sequere ad tribunal » 1); ed il magistrato era nell’obbligo di comparirvi, e difendersi personalmente; ovvero, 1) Plinio, Paneg . XLII. 4 Digitized by L: >osie - 26 — per salvare la dignità, inviarvi un silo procuratore speciale. Que- sto sistema però era soggetto a due inconvenienti non lievi. Con- sisteva il primo nella possibilità che i giudici recuperatori usas- sero parzialità di sentenze in favore dei privati, benché rei, e dan- neggiassero l’erario, o viceversa; ma a questi casi fu ben prov- veduto colla clausola HeW appellazione al senato , giudice solenne: « et ut omnes appellationes a iudicibus ad senatum fierent ». Giu- sto Lipsio per conseguenza ingannossi fortemente col credere che questo passo fosse in contraddizione coiraltro surriferito di Tacito, ove dicesi che avverso le sentenze dei giudici potevasi appellare al senato , pagando, se il ricorso era ingiusto, la stessa ammenda pecuniaria di chi avesse ingiustamente appellato all’ imperatore. Ed ognuno ora è al caso di comprendere come Tacito parla gene- - ricamente, e fra poco ne vedremo il motivo; mentre l'« omnes ap- pellationes » di Suetonio si riferisce soltanto al caso speciale delle liti fra i privati e l’erario, e non esclude che, per affari di altra specie , avesse potuto provocarsi appello anche presso l’ impe- ratore. La esposta modificazione alle competenze giuridiche dei prefetti dell’erario, per quanto generalmente utile e ragionevole, non po- teva per altro essere di vantaggio che ai litiganti ricchi, ed aventi mezzi come pagare i giudici recuperatori, i quali non prestavano af- fatto gratuitamente l’opera loro, allorché ne venivano richiesti. La classe povera quindi rimaneva sempre nella impossibilità di recla- mare giustizia; ed era questo il secondo inconveniente della legge in discorso. Ma anche ad esso fu posto efficace riparo collo stabili- re, che la mercede dovuta ai giudici dovea esser pagata esclu- sivamente dall' erario , restando a carico delle altre parti il solo compenso agli avvocati, se occorrevano. E cosi l’intera nozione di questo comma di legge deve completarsi, seguendo precisamente Suetonio: « Cautum item, ut litigatores prò patrociniis certam iu - stamque mercedem, prò *ob«einu nullam omnino darent, prae- bente aerarlo gratuita; utque rerum actu ab aerano causae ad forum ac recuperatores transfer rentur; et ut omnes appellatio- Digitized by ^jOoq Le — 27 — nes a iudicibus ad senatum fierent » 1). Però, dopo quattro anni di esperienza , venne a conoscersi come , trattandosi d’ interessi pecuniarii, pressoché tutti solevano appellare al senato, sì a ra- gione che a torto: sorgeva quindi un terzo inconveniente, nel so- verchio numero di affari che gravitavano sui padri coscritti. E perciò Nerone nell’ 813, onde frenare lo abuso, stabilì con sottile accorgimento gravi multe agli appellanti capziosi, ma sotto prete- sto di accrescere onoranza al senatorio consesso. Dal breve comentario adunque che abbiamo avuto l’onore di apporre alle soprascritte parole del Biografo, è chiaro, ripetiamo, come in esse si compendii non altro, che un paragrafo della legge organica dello Stato, riguardante il pubblico erario. Ma siccome que- sta venne in discussione appunto nell'809, secondo abbiamo ripetu- tamente osservato, così la tesi da noi proposta rimane comprovata a sufficienza. E se occorressero altri argomenti per dimostrare che i prefetti dell’erario rimasero sempre magistrati giusdicenti, bastereb- be aprire il Digesto, e leggervi nel responso di Ulpiano all'editto: « Ne quid in loco publico vel itinere fiat » le parole: «... sed, si forte de his sit controversia, praefecti aerarti sunt »2). E similmen- te da un altro passo conoscesi come essi, fra le altre cose, erano competenti a giudicare « de caducis »: « Divus Marcus in eius per- sona iudicavit, cuius nomèa, peracto testamento , testator induxe- rat : causam enim ad praefectos aerarli misit » 3). Giudicavano inoltre sopra alcuni casi di fedecommessi: « Ar[r]ianu,s Severus prae - fectus aerarii , cum eius qui tacite rogatus fuerat non capienti fideicommissum reddere , bona publicata erant : pronuntiavit nihilominus , ius deferendi ex constitutione divi Traiani habere cum cui fideicommissum erat relictum » 4). E fo grazia del rima- - nente. 1)Suktonio, 1. cit. I magistrati inferio- ri, non curali, ognun sa che in tribunale cedevano sopra alcuni scanni detti sub- sellia : Suetonio quindi adopera Ih meta- fora del continente pel contenuto . *) Digesto , XL111 , 8, 2, $ 4. 11 testo dice erroneamente : praefecti eorum ; ma il Bkusson con piena giustizia da tutti ap- provata, corresse : praefecti aerarii. S) Ibidem, XXXIV, 9, 12; Cf. XXV111, 4, 3. 4) Ibidem , XL1X, 14, 42. Digitized by Google Un ultimo quesito finalmente ci rimane a discutere ed a risol- vere. Se domandate a questi celebri dottori moderni di storia ro- mana, in qual luogo della città prendevasi cognizione delle liti col pubblico erario, e giudicavansi, eglino certamente stringeranno le spalle; nè può essere altrimenti, posciachè han rilegato la esistenza delle tabularia in Roma fra le fole del mito, ovvero nelle sotter- ranee favisae del Campidoglio, cioè dentro al regno dei gas me- fitici, e delle muffe 1). Ebbene: io dico che appunto nei tre tabu- larii , dei quali ho dimostrata la esistenza , sorgevano i tribunali dei magistrati che , nei diversi tempi , ebbero F amministrazione giusdicente dell’erario di Saturno. Per giustificare con documenti quest’ assertiva , trasanderò come non molto convincente , seb- bene valga pur qualche cosa , il passo di Suida 2) : ’A pxeìa. ZvOa oi Squóatoi xapTai ’omóxemou, %apxo(J)vXcòtia* rj xà xuv xpaùv. E rivolgerom- mi con maggior vantaggio ai notissimi versi di Virgilio, già nel sesto capitolo citati: « nec ferrea iura insanumque forum , aut po- puli tabularia cidit »; ma per bene intenderne il senso, ed arre- carvi un comentario ragionevole che niuno ha potuto eseguire, fa d’uopo trascrivere l’intero passaggio del gran poeta 3): Felix qui potuit rerum cognoscere causas ; A tque metus omnis et inexorabi/e fatam Subiecit pedibus, strepitumque Acherontis acari. Fortundtus et Me, deos qui nocit agrestes, Panaque, Syloanumque senem, Nymphasque sorores. Illum, non populi fasces, non purpura regum Flexit, et infldos agitane discordia fratres, Aut coniuràto descendens Dacus ab Histro: Non res Romanae, perituraque regna ; neque ille 1) Mommsen , Corpus laser. Latinar. I , p. 171: « Altera ( inscriptio Lutata Gatuli ) pertinuit ad substructionem tabularium - que , id est gradus facisasque... nata et in- cellis istis commode tabularium institui potuit , nec tanta aedes ( Ioois Capitolini ) proprio dtàuit carere » etc. 2) Suida, Lexicon , s. v. s. (Bernhardy). 3) Virgilio , Georg. II, vs. 490-502. Ediz. del Foggini sul cod. Laurenz. Florentiae, 1712. Digitized by ^ooq Le — 29 — A ut doluit miserarti inopem, aut invidit habenti. Quos rami fructus , quos ipsa oolentia rura Sponte talere sua carpsit; »»«« ferrea tara, . Inaanumque fora ai, avi pepali tabularla vidi*. Con questi soavi versi il buon Virgilio, dopo aver descritta ed encomiata la onesta felicità della vita campestre , chiama final- mente beato chi non mai conobbe le ferree convenzioni sociali, nè vide riaaano foro, o i pubblici arehivii della città. I dotti cementa- tori delle Georgiche, alle parole « nec ferrea iura » han rammentato la satira di Orazio , che appellò « catenae » le singraft degl’ inde- bitati 1); ed air« insanumquc forum » riprodussero il verso di Pro- perzio 2): « Et vetat insano nerba tonare foro » , nonché il bel passo di S. Cipriano 3): « forum litibus mugit insanum ». Ma ad illustrare la frase più difficile: « aut popoli tabularla vidit », o si è supposto riguardasse le tabulae dei redemptores , o sonosi semplicemente ripetute le parole di Servio 4): « Populi tabularia significai templum Saturni , in quo aerarium fuerat ». Ma che diamine di male commettevasi nel (empio di Saturno , all’ in- fuori dei sacriflcii , delle supplicazioni , e di altri atti di religio- ne antichissima? Non consta che in esso si fossero ripetuti i fatti altamente drammatici e scandalosi verificatisi nel tempio d’ Iside , e che giustamente spinsero l’imperatore Tiberio ad ab- batter questo dalle fondamenta 5). Servio dunque , con tale in- consulta annotazione , commette uno sbaglio madornale da nes- suno avvertito; imperocché confonde il tempio e l’erario di Satur- no, cogli archivii pubblici che ne erano dipendenza separata, come nel sesto capitolo abbiamo ampiamente dimostrato. Richiamando perciò alla vera eretta intelligenza le parole di Virgilio, noi annun- zieremo che giustamente egli appella beato l’ uomo cui rimasero ignoti il foro, e i pubblici archivii di Roma ; essendoché nell’uno e negli altri agita vasi la funesta face delle liti, e vi rimbombavano 1) Orazio, Sat. II, 3, vs.70. 4) Servio, Ad Geòrgie. 1. cit. 2) Properzio, IV, 1, vs. 134. 5) Flavio Giuseppe, A. /.XVIII, 3, 4. Cipriano, Epist. II. Digitized by Google — 30 — le continue ed incomposte grida degli avvocati, dei litiganti, e della oziosa turba non meno. Per coronare infine la perfetta dimostrazione della mia tesi , piacemi esibire un ultimo documento che farebbe traboccar la bi- lancia, se ve ne fosse d’uopo, dedicandolo specialmente a quella mo- lesta classe dei Letterati di dura cervice. Intendo alludere all’impor- tante passo del libro De Oratoribus, che dagli odierni critici tran- salpini si attribuisce a Tacito , ove pongonsi in bocca all’ oratore Curiazio Materno queste solenni parole: « Quantum humilitatis putamus eloquentiae attutisse paenulas istas , quibus astricti et velut inclusi cum iudicibus fabulamur f Quantum virium detraxis- se orationi, auditoria et tabularla credimus •«» «alba» iau> fere plarlutae cavarne explleantur ? 1). Ecco quanto, inflno ad ora, mi son creduto in debito di racco- gliere, ponderare, interpretare, e sciogliere dai vincoli del dubbio, per offrire una illustrazione conveniente alla legge provocata dal nostro Elvidio nell’809, durante il suo tribunato della plebe. Tutte le altre buone opere da lui eseguite in quel tempo a vantaggio universale son rimaste sepolte nel baratro dell’ ignoto. Per chiu- dere quindi la cronaca del detto anno relativa al medesimo, sog- giungerò come verso il mese di Giugno dovè recarsi sul monte Al- bano, insième con Nerone e con tutti gli altri magistrati, a cele- brarvi le ferie Latine che duravano quattro giorni. Ma egli poche ore potè trattenervisi , perocché la legge vietava ai tribuni della plebe lo star lontani da Roma per uri giorno compiuto. Ai 10 Di- cembre poi , essendo terminato il suo nundino regolare , ebbe a rassegnare l’ufficio nelle mani del successore. \ 1) Anonym. Auct. De Oratoribus, XXXIX. Digitized by ^jOoq le CAPITOLO NONÓ Ardue, e complicate quistioni, ma di altissima, di vitale impor- tanza per la storia di Elvidio, corrono ad accamparsi, e conviene ad ogni modo vagliare, e risolvere nel presente capitolo. Abbiam con- getturato superiormente a p. 90, come il nostro Protagonista, tornato di Siria in Roma nella estate dell’808, e trovandosi sulla trentina, celebrò il suo primo matrimonio con una illustre Donna della gente Plauzia. Tale epoca però non essendosi potuta dichiarar certa in forza di documenti , fu solo conseguenza di una ipotesi fondata unicamente sulla di lui lunghissima assenza da Roma negli anni più verdi. Ora però , colla base di migliori calcoli e considerazioni, ho il dovere di correggere e modificare questa mia prima affermazione, ricordando per tutta discolpa, che « chi im- prende a trattare materie di antichità, è condannato il più delle colte a dover dire ciò che può essere stato , non avendosi noti- zia di quello che fu veramente » 1). Accenneremo dunque antecipatamente, e sarà meglio esposto a suo luogo, come l’unico figliuolo generato da Elvidio con questa sua prima consorte, percorse regolarmente la carriera politica, ed a parer mio, ottenne i fasci circa l’833, durante il mite ed onesto impero di Tito; ma poscia, verso r846, venne barbaramente, e sotto futile pretesto, trucidato dallo scelleratissimo Domiziano; perocché Plinio ricorda che lo fu quando aveva già il grado di vir consala- ris 2). Ognun sa che, nell'epoca imperiale, la età legittima per ascen- dere al consolato era il trigesimo terzo anno incominciato; ma nella pratica esso veniva quasi sempre oltrepassato di tre , quattro , e 1) Borghesi. 2) Plinio, Epist . XI, 13, 2. Digitized by Google — 32 _ più anni ancora, secondo le circostanze. Ora se , nella più favo- revole ipotesi , vorremo concedere trentasei anni al giovine Elvi- dio allorché giunse ad esser console, sarà evidente che dovè ve- nire alla luce circa l’anno 797 di Roma. Il Padre suo per conse- guenza ebbe a prender moglie ben per tempo (e fu filosofo anche in questo), cioè intorno alla età di venti anni, seguendo il costu- me dei giovani contemporanei più sennati, ed onde evitare le insi- diose trame del vizio. L’ epoca dunque dell’808, da noi superior- mente congetturata per questo evento, deve con ogni giustizia es- sere retrospinta per circa dodici anni. Accingiamoci ora al difficile compito di specificare chi mai fu quella Donna fortunata che il nostro Elvidio riputò degna del pri- mo amore, e del conseguente connubio. Fu da noi riprodotta alla p. 91 la di lei epigrafe sepolcrale, secondo la edizione del Fabret- ti, sen,za però conoscere che nel suo primo rigo celavasi un gra- ve sbaglio, dovuto alla scarsa perizia di chi ne trasse l’apografo dal marmo originale. Noi con ragione vi sospettammo qualche men- da all’ultima linea , ed essa invece trovavasi nella prime m È stata gran fortuna perciò che il prezioso monumento non sia rimasto di- strutto, come prima dovea credersi, per l'oblio in cui era caduto presso gli epigrafisti; ed io non appena ebbi notizia che conserva- vasi nel Museo Vaticano , corsi espressamente a Roma , nel No- vembre del 1886. Quivi ebbi il gran contento di considerarlo con grande attenzione, ed estrarne copia fedele. E posteriormente ho potuto procurarmene ancora il calco cartaceo, il quale ha confer- mato del tutto le mie osservazioni. La classica epigrafe venne incisa sul fronte di un bel cippo di candido marmo, il quale in un solo blocco conteneva la base con modanature , ed il dado rettangolare elegantemente scorniciato. La cimasa soprastante però era scolpita in lastra separata, e per- ciò è rimasta perduta. Credo molto probabile che nel plano supe- riore di questa si fosse secondo l’uso incastrato il busto della de- funta, che è perduto egualmente, ovvero giace ignorato in qual- che collezione. In tempi recenti poi venne segato il fronte di esso cippo, per trar profitto del marmo rimanente, e trasferito nel Mu- Digitized by t^oogie seo Vaticano , ove giace murato in una parete della sala epigra- fica , alla divisione VII col titolo : Epitaphia defunctorum nomine vel ab incertis posita. E poco da esso distante vedesi egualmente segato ed inserto al muro l'altro cippo funebre, anche da noi so- pra riferito, di C. Elvidio Prisco giuntare; ed è formato coll'istesso marmo, e presso a poco colla stessa fattura e dimensione: cosic- ché ambedue a prima vista sembrano monumenti gemelli. Per ora qui non posso che riprodurre in ordinarii caratteri ti- pografici la epigrafe di Plauzia, ove secondo il mio apografo, leg- gesi quanto siegue : P L A V T I A E Q. V I NOTILI AE-A-F P • H E L VI D I P R I S C IE T • PHELVIDI-PRISCl Plautiàe Quinctiliae A(ul£) F(iliae ) , P(ublii ) Heloidi Prisci [se. coniugi t], et P(ublii ) Heloidi Prisci [se. matri\. 5 Digitized by v^oogie - 34 — Il luogo ove sorsero, ed ove giacquero sepolte per tanti secoli que- ste due insigni pagine isteriche, fu, come ripetemmo col Fabretti, il miglio XVIII della strada Prenestina, « ad divi Pastoris ». Nella quale contrada , scrisse il Ficoroni , eravi « la villa di S. Pa- store » posseduta un tempo dal Generale dei Padri Domenicani ; ed « a mezzo miglio , soggiunse, si passa sopra la via Prenestina lastricata di gran selci , che per cinque miglia conduce fino al- l’antica Preneste » 1). Era dunque nell’antico perimetro del terri- torio di questa città; nè, attesa la maggior distanza, poteva ap- partenere a quello di Gabii.’ Debbo in primo luogo modestamente felicitarmi dello avere con efficacia difesa la sincerità di quésta classica epigrafe, non ostante i dubbii che potevano eccepirsi per la frase affatto inusitata che contiene nel suo ultimo rigo. Ma non fui nel tempo istesso falso indovino, col sospettare la probabilità di qualche poco ponderato giudizio intorno alla medesima, da parte dei Compilatori del Cor- pus inscriptionum Latinarum. Imperocché esso giudizio compar- ve effettivamente, quasi due anni dopo la pubblicazione dei primi quattro capitoli della presente Istoria, neiropera di Emilio Hubner intolata: « Exempla scripturae epigraphicae Latinae, a Caesaris dictatoris morte, ad aetatem Justiniani », edita in Berlino nel 1885. Non è, nè può essere mio scopo il dare in queste pagine una conveniente analisi critica del laborioso volume in discorso ; ma solo mi permetto osservare, non sembrarmi che l’Autore, prima di accingersi al lavoro, siasi reso un conto chiaro ed esatto delle insuperabili difficoltà che lo circondavano , e che avrebbero po- tuto distoglierlo dal proponimento. E per fermo, la pretensione di poter stabilire canoni certi ed infallibili di paleografia atti a defi- nire la età precisa dei monumenti epigrafici latini, dall’anno 710 fino al 1300 circa di Roma, col semplice riprodurre in disegno le immagini incomplete di 1216 epigrafi , è qualcosa di paradossale che non può, nè ha potuto mai trovar posto nelle menti Italiane di autorità competente. Scrisse in proposito il Maffei: « Ne tamen 1) Ficoroni, Le vestigio, di Roma antica, p. 74 Roma, 1744. Digitized by t^oogie — 35 — praestigiis, vel fascino quodam doctissimos viros detentos pute- mus, ut in re manifesta perpetuo caecutirent, Fabretto ipsi, quo nemo umquam plures oelsaepius veteres lapides inspexerit, quam- ois ut vidimus a communi preiudicio ceteroquin abrepto , veri- tatem tamen aliquando illuxisse ostendam : nam, p. 363 , ad ae- tatem Claudii Caesaris Inscriptionem revocat, quamvia corrupta (Iterarli ni forma saeenlum Interina argnat ; certissimo quideni argumento , cuoi a Claudii liberto monumentum sit positum : subiungit autem : bine Itaqnc patina eolllgemus Ineertum et falla*, eaea probatlonla genna ex eharaeternm eonformatlone tempora distinguere »>. E conchiude poscia : « Haberi prò certo velim , aberrare tote eoelo, qui e literis, num sub Traiano, an sub Coni- modo, num secando , vel tertio, vel alio quopiam saeculo inscripti lapides fuerint, decidi posse opinantur » 1). Nè in senso diverso sentenziò il Zaccaria, scrivendo: « Non credo già io, che i carat- * teri possano dar sicuro argomento per determinare la precisa età di un marmo » 2); e finalmente il sommo Marini dichiarò colla maggiore solennità e competenza: « Abbiasi per indubitato ciò che Fabretti, il primo forse, affermò: ineertum et fallax est pro- bationis genus ex characterum conformatione tempora distingue- re; e tengasi vanità mera essere, e stoltezza il ragionare fonda- tamente intorno a ciò, e il voler rintracciare le origini, o fissar V epoche dei differenti caratteri. Tutto è sempre carattere roma- no antico , maiuscolo o minuscolo che si voglia , di più o meno bella forma, secondo che maggiore o minore si fu la perizia, la diligenza, la fretta, e lo ati pendio di chi la incise, e vi ebbe pur la sua parte la qualità dello strumento, e della pietra ; dal che dee ciascuno poter comprendere, che spesso avverrà che si tro- vino iscrizioni scolpite con lettere meno buone , che quelle non sono di altre, che furono lavorate moltissimi anni dopo , ed al contrario; ond'ebbe a dire il Muratori: Nullo umquam tempore 1) Maffei, Ars critica lapidaria (ap. 2) Zaccaria» Istituzione Antiquario- la - Donati, Suppl. Murat . Thes. tom. I) p. 167, pidaria, p.524 Roma, 1770. e 175. Lucae 1765. Digitized by t^oogie desiderati sant periti atque imperiti artiflces » 1). E per ultimo , dopo aver memorata la eccellenza di ragionamento del Maffei., conchiude : « a me la lunga esperienza , acquistata coll ' essermi andato tanto tra tante pietre ravvolgendo, conduce, e quasi co- stringe a seguire la sentenza di un Uomo, che in quest'arte ha sentito molto più avanti di tutti » 2). L’ Hubner dunque, disprezzando il valore di queste gravi con- siderazioni, che avrebbe dovuto prima di tutto confutare; ovvero dissimulandole per non iscreditar da se stesso il proprio disegno 3), ha voluto seguire le orme del Ritschl con piccoli mezzi, ed in un campo immensamente più vasto e diffìcile. Il filologo di Bonn rac- colse, e riprodusse come meglio potè, tutte le epigrafi arcaiche reperibili al suo tempo , offrendo al lettore il comodo di giudi- carle da se; e fe' dono alla Scienza di novantotto grandi tavole , contenenti oltre ad ottocento monumenti epigrafici anteaugustei , senza computare gli altri non pochi pertinenti alla numismatica. Col qual mezzo, coadiuvato dal potente soccorso della ortografia, che fu varia secondo le età, e colla dottrina acquistata sui Clas- sici, delle diverse antiche forme grammaticali, potè stabilire cau- tamente pochi canoni , per conoscere in modo prossimo al vero le epoche nelle quali essi monumenti poterono venire alla luce. Ma il dotto'e coscenzioso lavoro non fu scevro d’incertezze e di % errori, come in parte venne dimostrato dal Garrucci 4) , cui po- trebbero soggiungersi altre osservazioni. L’ Hùbner invece, colla parziale esibizione di brani epigrafici, i ^uali, rimpetto airenorme numero descrizioni esistenti, stanno come « rari nantes in gurgite 1) Marini, Atti dei Fratelli Arcali , p. XXXVI. Ognuno poi intende che qui non contemplansi le epigrafi arcaiche. 2) Idem, ibid . p. XXXVII. 3) Non voglio omettere però che egli ha dovuto per lo meno tener presente il passo del Maffei; ma lo ha citato, raddol- cendolo, nel seguente modo: « Quarti cero difficile et lubricum sitsecundum littera- rumformas solas tempora titulorum di- stinguere , optime iam Scipio Maffieius ex- posuit... atque inter alia illud obseroaoit rectissime , rudes litterarum formas per se minime habendas esse prò certo aetatis labentis indicio , contra magnam in litte - ris scalpendis artem recenti etiam astate sercatam fuisse ». Prolegomena , p. XIV. 4) Garrucci, Dei can . epigr. di Ritschl . Digitized by ^jOoq le — 37 — casto », fa sospettare a prima giunta, che abbia voluto riprodurre quelli unicamente favorevoli al suo sistema , ed .accreditare per conseguenza delle regole paleografiche che, per le ragioni anzi- detto , possono benissimo rimaner trasformate in eccezioni. Ma basti fin qui, e procediamo ad esaminare P importante caso sto- rico-epigrafico che mi riguarda. Nella classe dei monumenti epigrafici del Lazio e della Etruria PHùbner ha inserito i disegni a semplice contorno delle nostre lapidi di C. Eloidio Prisco giuniore , e di Plauzia Quintina 1). Ma il suo giudizio intorno alla età cui debbono esser collocate, lo manifesta nei Prolegomeni co’ termini seguenti: « Scripturae qui- dem indoles , titulum Praencstinum C. Heloidii Prisci , n. 315 , Domitianae Traianaeoe aetati adscribi non vetat ; reeentior sine dubio est indidem prooeniens, quem cum ilio coniunxi propter parentelam , uxori» p. Brividìi Prisei, n. 316 » 2). E negl' indici (p. 449) specifica meglio il tempo, coll'assegnare alla prima lapide gli anni 81-96= 834-849, ossia l’integro impero di Domiziano; poco dopo però (p. 450), essendosi scordato di questo, stabilisce per am- bedue le epigrafi il ventennio del dominio di Traiano, compreso fra gli anni 98-117 = 851-870 di Roma. Le alte ragioni che hanno indotto l’Autore ad assegnare con sì perfetta sicurezza l’ epoca precisa di-tali monumenti , non sono punto da lui sviluppate come l’obbligo richiederebbe; ma rannic- chiatisi tutte nei due miseri vocaboli « scripturae indoles ». Però, bene studiandosi il suo libro, scorgesi una di tali ragioni, quasi nascosta e di straforo , nel- fuor cC opera , cioè nei Prolegomeni generali. Quivi infatti tenendosi discorso dei diversi segni d’in- terpunzione esistenti nelle lapidi , si legge : « «euie inheate , ex forma triangulari (punctorum), interdum forma linearis àngu- lata > aut v remansit » 3). Il legame pertanto che congiunge que- sta nozione colle lapidi degli Elvidii è, senza dubbio per l’Hub- l) HObner, O. c. p. 106, nn. 315, 316. Ignp- tate due scale diverse, cioè di x [ t e di x ( 5 . ro il perchè nel riprodurre due monu- 2) Idem, ibid . p. 104. menti di egual dimensione siansi adot- 3) Idem, ibid . p. LXXV. Digitized by LjOOQLe ner, quello della simiglianza; imperocché nel suo fac-simile della e- pigrafe di C. Elvidio scorgonsi con sufficiente chiarezza due piccoli v; ed in quella di Plauzia, compariscono al 2° rigo, nel luogo dei punti, altre due delle descritte forme angolate: QVINCTILIAE ® A < F <; ed al 4° rigo inoltre se ne contempla un'altra più bella e grandiosa, presso a poco di questa figura: y. Applicandosi dunque alle espres- se lapidi lo assioma Ritscheliano : « similia similibus inlustran- tur ».l), chi mai potrà contestare che esse veramente non appar- tengano ad età inferiore? Ma dentro questa teorica Huebneriana cova un solo difetto: quello di esser falsa nel genere , e nella specie. Falsa nel genere , per- chè i prelodati segni angolari d’interpunzione accusano piuttosto un'epoca arcaica anziché scadente. Essi difatti compariscono nu- merosi nelle epigrafi delle urne cinerarie dette di S. Cesario , ed in altri arcaici monumenti 2) ; nè mancano ancora ai primi tempi dell’ impero di Augusto , come in queste epigrafi descritte dal De Rossi 3): L v PEIN ARI VS PEINARIA vLvP INARIVS L L SPHAERVS L • L • PHILA L • F RVFVS Per contrario, dei tre esempii esibiti dall’ Hùbner , 1’ Urbano ( C . I. L. VI, 467) non combina, perocché mostra in luogo dei punti alcune linee curve a foggia di V ; e nel Britannico ( C. I. L. VII, 1091) le due linee riunisconsi ad angolo ottuso y e non già acu- to ; ed in qualunque caso, la scarsezza di simili esempi non può costituire un canone certo di paleografia nei tempi inferiori, ma deve attribuirsi a capriccio di qualche particolare lapicida. La teorica inoltre è falsa nella specie, attesoché i ripetuti segni, od uncini che siano , potranno forse trovarsi nella fervida fanta- sia dell’Autore; ma sì nella lapide di C. Elvidio, come in quella di Plauzia nomai trovai»* affatto. Tutti i punti nelle medesime sono 1) feiTSCHL, P. L. M. E., Praqf. p.V. Tab. XV, n. 18, 27; p. 104, ad Tab. 47. 2) Idem , ibid. Tab. XIII , n. 34 , 88 , 39 ; 3) C. I. L. I, n. 1075. o Digitized by t^OOQLe — 39 — sempre triangolari , di maggiore o minor grandezza ed eleganza; nè alla fine del secondo rigo di quest’ultima epigrafe comparisce alcun punto , e molto meno il microscopico uncino che all’ Hub- ner è piaciuto di apporvi. Non ha menomamente compreso questo Scrittore la vera cagio- ne per la quale la calligrafìa dell’epitaflo di Plauzia mostrasi così di- fettosa, in paragone di quella regolarissima dell’altra compagna: ep- pure sonovi segni evidentissimi mostranti che il marmo venne scolpi- to in gran fretta, forse perchè così fu comandato, essendovi somma urgenza ad innalzarlo. Non furono dall’ artefice, secondo il buon uso, disegnate antecipatamente, e mercè il compasso, spazieggiate con simmetria le righe, le lettere, e i segni d’interpunzione; ma avendo lavorato ad occhio, avvenne che dovè formare il secondo rigo più prolungato a destra riguardo al primo; ed essendogli man- cato lo spazio , fu costretto a ristringere oltremodo le tre ultime lettere , e ad impicciolire i due punti triangolari intermedii. Per la stessa cagione il 3.° ed il 4.° rigo non sono affatto simmetrici coi precedenti, ma tendono a sinistra. È poi curioso il vedere come questo lapicida conosce la maniera di porre a perpendicolo le linee rette, ed intanto inclina verso destra il T del primo rigo, e la prima asta della N nel secondo , curvando inoltre maledetta- mente la linea diagonale di quest’ultima lettera. Sa ben descrivere le linee curve, e sbaglia quella superiore della R al 4° rigo. Po- trebbe eseguire una incisione dolce e delicata , ed invece appro- fondisce, ed ingrossa oltremodo le aste delle singole lettere. E ba- sti questa analisi per comprovare la rapidità presieduta alla ese- cuzione del monumento. Confutata^ così l’assertiva avversa dell' Hubner nella parte pa- leografica delle nostre lapidi , poco mi resta a redarguirlo relati- vamente alla parte storica, che egli non ha toccato affatto; essen- dosi limitato soltanto a scrivere sotto la epigrafe di C. Elvidio : « Fabrettius rettulit ad Oratorem clarum ; cf. sententia Helvidii Prisci fortasse praetoris a. 70, aut patris, aut filii eius (CIL, IX, 2827) » 1). Dirò dunque brevemente che la prima di queste pro- 1) HCbnkr, O. c. p. 106. Digitized by Google posizioni è falsa; dappoiché il Fabretti riferì al gran filosofo ed oratore il P. Helvidias della epigrafe di Plauzia, e gli diè per fi- glio questo C. Helvidius, non avendo compreso il significato del- Pet p helvidi prisci che ripetesi nelle ultime linee del marmo. E veggasi per maggior chiarezza l’ albero genealogico degli Elvidii da lui redatto 1). Riguardo poi alla seconda proposizione , presa in prestito dal Mommsen , soggiungerò , che una sentenza così vaga, assurda nelFultimo vocabolo, e che fa oscillare il monumento fra tre generazioni, deve giudicarsi poco degna di uno storico, e di un archeologo consumato. Dovrei finalmente soggiungere qualcosa intorno alla qualità dei disegni inseriti nel volume Huebneriano, ed alla sinistra impres- sione che destano in chiunque studia la epigrafia sui monumenti originali. Ma preferisco il silenzio, perocché mi avveggo di avere speso forse soverchie parole per confutare una boriosa assertiva, che tende a travolgere ed a corrompere il significato storico di due nobilissimi documenti ; mentre nel fatto condannasi da se stessa, per le evidenti offese che infligge alla verità ed alla ragione. Conchiudo perciò le mie osservazioni , sperando che non siano del tutto perduti il tempo , la noia , ed il gran dispiacere che mi costano , se varranno almeno a rammentare a chi mostra averlo dimenticato, come non già la nuda sentenza autoritaria , ma solo la dissertazione ben ragionata , ed esattamente documentata sia valevole a stenebrare, e ad amplificare i confini della Scienza. Diamo opera intanto ad esaminare ponderatamente la bellissima epigrafe di Plauzia Quintina; e pria di ogni altra cosa, la ragio- ne per cui questa Donna fa mostra di due gentilizii, di gran si- gnificato nel mondo Romano. Fu costume antichissimo degli Etru- schi lo apporre nelle iscrizioni funebri, oltre del proprio gentilizio, anche il nome materno, collo affermarsi nati di tale o di tale altra donna; e lo mostrano chiaramente le epigrafi bilingui di quel no- bile popolo. Ma non furono in ciò imitati dai Romani della libera repubblica ; e solo nei tempi dell’ impero veggonsi comparire in 1) Fabretti, Inscript. Domest. p. 178-74. Digitized by ^jOoq Le — 41 — alcune lapidi varii gentilizii, o cognomi tratti evidentemente dalle • madri, ovvero dagli avi materni dei titolari, e consociati coi gen- tilizi! proprii. Il Borghesi su questo proposito ha ricordato come « i nobili, circa i tempi di Vespasiano , usavano generalmente due gentilizii: il proprio cioè , ed il materno » 1). Ed in due maniere, mostrano le epigrafi, essersi additata ai posteri la discendenza da ambedue i genitori: l 0 coH’allungare in anus, cioè trasformare in co- gnome il gentilizio materno;2° colPinserir questo, senza alcuna mu- tazione, immediamente dopo quello della propria famiglia. Reca il Borghesi, come esempi della prima maniera, quello di C. Salcio Vitelliano, figlio dell'oratore C. Salcio Liberale, e di Vitellia Ru- filla ; nonché l’altro di Sergio Cornelio Dolabella Petroniano con- sole nell’839, nato da Cornelio Dolabella, e da una Petronia me- morata da Tacito, tacer volendo di altri moltissimi 2). Ed alle testi- monianze epigrafiche io soggiungo il passo esplicito di A. Gellio: « ex qua natus est ei M. Cato Salonianus: hoc enim illi cogno- mentum fuit a Salonio patre matris datum j> 3). Esempi della seconda maniera poi sono quelli di Arria moglie di Trasea Peto, la quale, come ho dimostrato, appellavasi Fannia Arria-, e l'altro della seconda moglie di Elvidio, la quale chiamavasi regolarmente Clodia Fannia Publii Filia, come pure venne superiormente asso- dato. Nell’istessa guisa i tre figli del console C. Fufldio Attico, e di sua moglie, ch'era della famiglia celeberrima dei Nerazii, appel- lansi: C. Neratius Fufidius Atticus; C. Neratius Fufidius Priscus; e C. Neratius Fufidius A nnianus 4), ponendo il gentilizio materno in primo luogo , perchè di nobiltà maggiore. Di più , Vestricius Cottius che viveva ai tempi di Plinio , era generato da Vestri- cius Spurinna , e dalla sua moglie Cottia 5): M. Nonius Arrius Mucianus console nel 954, ed il suo fratello germano M. Nonius Arrius Paulinus console nel 960, erano figli di M. Nonio Muda- no, e di quell’Arna celebre negli studii filosofici, e tanto benve- 1) Borghesi, VII, p. 326. 4) C. /. L. IX, p. 230; cfr. p. 106. 2) Idem, IV, p. 106; Tacito, Hist. II, 64. 5) Plinio, Epist. II, 7, 3; III, 10. 3) Gellio, N. A., XIII, 19. 6 Digitized by ^jOoq Le — 42 — duta dall'imperatore L. Settimio Severo 1). E per non più dilun- garmi , citerò una epigrafe metrica di Carlsburg , nella quale la defunta Aemilia Plotia , « matris de nomine dixit plotia , patris PRAENOMINE AEMILIA » 2). Abbiamo nel V Capitolo (Tom. XII, p. 100) accenoato come la causa di queste polionimie debba cercarsi nei lasciti testamentarii, subor- dinati alla condizione di doversi dal legatario adottare in tutto o in parte, secondo la entità del legato, i nomi del testatore defunto. E perciò nel celebre testamento di Dasumio si fa condizione ad un legatario : [si se nome ]n mevm latvrvm p [romiserit] 3) , come giustamente vien supplito il frammento. Il Borghesi su questo ar- gomento scrisse che « le antiche regole repubblicane non sono più giuste dopo i tempi di Augusto, in cui si pose a menar gran vanto della propria nobiltà, autenticandola colla mescolanza di nomi d’illustre parentela ; e infatti, qual garbuglio di adozioni converrebbe in questo caso supporre , se solo da esse dovessero dedursi i varii nomi?» e tc. 4). Egli però non ha contemplato i casi speciali dei legati testamentarii, nei quali non trattavasi punto di adozione; e questi a mio parere, non già il capriccio, o la re- miniscenza prossima e lontana, erano la causa della molteplicità dei nomi, dei cognomi, ed anche dei prenomi in alcune famiglie Romane. Chi più ne accumulava, non porgeva altro segno al pub- blico che quello di aver ricevuto un numero corrispondente di ere- dità testamentarie : ed è singolare in questa categoria il console del 922 Sosio Prisco, il quale fa lunga e vanitosa mostra, per si- mile causa , di ben trentotto , fra prenomi , gentilizii e co- gnomi. Applicando dunque questa certissima teorica al caso in esame, dobbiamo colla stessa certezza concludere che la nostra Plauzia Quintilia trasse questi suoi nomi dal Padre il primo, e dalla Ma- dre il secondo , probabilmente perchè costei aveala largamente 1) Borghesi, Vili, p. 462-63. p. 101, n. 814. 2) C. /. L . Ili, n. 1228. 4) Borghesi , V , p. 322-23. Cf. Marini , 3) Wilmanss , Exempla inscr . Latinar . Arv. 149-50. « Digitized by t^oogie — 43 — beneficata nel suo ultimo testamento , sotto la condizione sud- detta. Premesse tali nozioni, è conveniente il considerare come un gio- vine qual’era Elvidio, salito pe’suoi studii e pe’ severi costumi in altissima fama fin dagli anni più teneri; possessore di un censo senatorio; avviato già con onore nella carriera politica, e quindi designato a grande avvenire , dovea essere senza dubbio tenuto d’ occhio da quei buoni padri di famiglia che avean figliuole da collocare in matrimonio; ma questa sua elevata posizione sociale non permettevagli d’imparentarsi con famiglie ignobili, o di con- dizione poco considerata. Occorre perciò escogitare chi mai po- tette essere quell’ Aulo Plauzio che nella lapida si qualifica aper- tamente per suo suocero. Due rami di sommo splendore nella famiglia dei Plauzii fiori- vano in Roma af tempi di Elvidio: il primo, che aveva le princi- pali possessioni in Tibur, solea costantemente usare il prenome M (arcus), unito al cognome silvanvs, e li trasmetteva a tutti i pri- mogeniti ; il secondo per converso , preferiva sempre il prenome A (u/us), e nei rami primogeniti non usava, pari a sè, cognome di sorta. I suoi predii poi erano in Praeneste , ove certamente trasse origine l’intero casato, essendoché in quel territorio sonosi disco- verte le memorie più vetuste dei Plauzii, incominciando dal novios plavtios, autore della celeberrima cista Ficoroniana, cui fa eco la plavtia di un’olla cineraria, che i dotti riferiscono al sesto secolo di Roma 1). Occorre pertanto osservare che la epigrafe di Plauzia Quintilia dà motivo a credere che il costei padre Aulo veramente non fece uso di cognome, imperocché nel caso diverso, essa ancora avrebbe dovuto mostrarne qualcuno, come per esempio, in una bella lapida della Sardegna, sovvienmi che fece cassia svlpiciacfcrassilla 2) , la quale era figlia di un C. Cassius Crassus , e di una Sulpicia. Kitsch l, P. L. M. E. tab. XLV, n. 19. Questa epigrafe è stata omessa nel tomo 1* del Corpus inscr. Latinorum, e proba- bilmente è quella stessa edita dal Gar- rucci: p lavtia H p l ( Sylloge , n. 731). 2) C. 1. L., X, n. 7697. Digitized by Google Ciò posto , 1* unico personaggio che può ragionevolmente sup- porsi essere stato padre della Plauzia in discorso, altro non è che I’aplavttvsaf , ossia il vincitore dei Britanni , dei quali ebbe in Roma, nell’anno secolare 800, splendidissima ovazione, come nel quinto capitolo abbiamo brevemente commemorato. Esso fu con- sole suffetto nel 788, e disimpegnò tutti quei grandi ufficii ammi- nistrativi e militari soliti a conferirsi ai primi personaggi dello Stato; nè dovè mancargli la iterazione dei fasci , sebbene non ce ne sia rimasto alcun documento, perchè avvenuta anch’essa nel- l’ordine dei suffetti. Convien supporre inoltre che egli avesse avuto per moglie una Q uinctilia, sebbene qui si opponga uno scoglio ; dappoiché Tacito ci fa conoscere che la sua consorte chiamavasi invece Pomponia Graecina 1). Ma per superarlo, convien riflettere come dal passo dello storico può anche dedursi che costei fosse stata una seconda moglie presa da Plauzio in età avanzata, e che gli sopravvisse, nè gli diè discendenza, come meglio sarà dimo- strato più oltre. Chi era dunque codesta Qainctilia ignota alla storia ed ai monumenti, ma il cui nome è solenne, benché indi- retto, nella epigrafe della figlia? A questo gravissimo quesito, io, previe lunghe meditazioni, non saprei dare altra soluzione, fuori di quella tutta ipotetica, ch’ella fosse figliuola di quelP. Quintilio Varo giuniore memorato da Tacito, e nipote dell’omonimo che subì la celebre sconfitta nella Germania. Nelle Scienze fisiche e nelle matematiche le ragionevoli ipotesi sono in gran favore, e spesso divengon causa d'insigni scoverte: perchè dunque dovrebbero pro- scriversi dalle Scienze storiche soltanto? Ammettiamo dunque vo- lenterosamente quella che ora ho proposta, dappoiché fondasi sulla mancanza finora conosciuta di altre famiglie senatorie dell’istesso 1) Tacito, Ann . XII J, 32: « Et Pomponia Graecina , insignii femina , A. Plautio , quem oeasse de Britannis rettali , nupta, ac superstitionis extemae rea, mariti ia- dicio permissa ; isque prisco instituto prò - pinquiscoram de capite famaque coniugis cognomi et insontem pronuntiamL Longa huic Pomponiae aetas et continua tristitia fuit: nam post Juliam, Drusi filiam, dolo Messalinae inter fectam , per quadraginta annos non cultu nisi lugubri, non animo nisi maesto egit; idque illi imperitante Claudio inpune, mox ad gloriam vertit ». Anno 810. Digitized by ^jOoq Le — 45 — nome convenevoli a Plauzio ; e vediamo quali difficilissimi nodi storici vengansi con essa a disciogliere. Prima di tutto però conviene por mente al quadro genealogico che ho l’onore di sottoporre alla seguente pagina, e che sarà, nome per nome, partitamente illustrato. 1— m plavtivs silvanvs. Abbiamo poco sopra dichiarato come l’in- tera famiglia dei Plauzii era oriunda di Praeneste , perocché in quel territorio sonosi rinvenute le più antiche memorie di essa. Ed infatti, oltre alle due epigrafi arcaiche già citate, la Scienza ne conta ancora delle altre, come il c plavtio c f; il mplavtio m’ f; il • • /)Lavtio • m • f • l • n, etc. 1). E niun dotto dubita ora, in vista di tali documenti, che non appariscono altrove , essere questa casa di origine esclusivamente Prenestina. Ma oltreché dalle epigrafi sepolcrali , I’ antichità e la potenza dei Plauzii viene splendida- mente testificata dalla Storia, dalla Fastografla consolare, dalla Numismatica, e dalle Arti belle puranco. Tutto confessa che que- sta meravigliosa gente , di sale in zucca ce ne avea d’ avanzo. Chi nella Città eterna non ammira stupefatto il capolavoro dell’an- tichissimo Novio Plauzio, la gran cista di bronzo che il Ficoroni, uomo di antico stampo , generosamente serbò all’ Italia , salvan- dola dal rapace artiglio straniero ? .2) Chi può sconoscere la ec- cellenza artistica di quel Marco Plauzio, il quale dipinse in affre- sco che sfidò i secoli, il tempio di Giunone in Ardea? È solenne il passo di Plinio che ne tiene entusiastica memoria: « Decet non sileni et Ardeatis templi pictorem , praesertim cioitate donatum ibi , et carmine quod est in ipsa pictura his versibus: Dignis digmC loco picturis condecoracit Reginae limoni ’ supremi coniugi' templum Plautiu ’ Marcus , cluet Asia lata esse oriundus, Quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat; I) Garrucci, Sylloge inscript Latinar. 2) Ficoroni , Memorie di Labico (Roma n. 732, 733, 734; Cf. BulL delV Instit. 1866, 1745) , p. 74-75 : « Della patera , del gran p. 63; C. /. L. I, n. 1132. vaso, e delle tre figure sopraesposte, deb - Digitized by i^oogie PLAVTIORVM • QVINOTILIORVM CVM FAM1LIA HELVIDIORVM COGNATIONÉ TABVLA G & 1 M.PLAVTIVS SILVANVS Trib. Plebi, an. u. c. 665. J | 2 A. PLAVTIVS M.F Praet. Urban. a. 703 ; Aedil. Curul. a. 700. M.PLAVTIVS M. F. SILVANVS Vulnerat. in Epiro a. 705. VRGVLANIA Cn. Satrio nupta. 13 M.PLAVTIVS A. F. SILVANVS Jgnotus. A. PLAVTIVS A. F Ignotus. 2f CLAVDIA AP .- PVLCHRA Sobrina Agrippinae Damnata a. 7; SATRIA M.PLAVTIVS CN. F. VRGVLANIA M. F. A. N. SILVANVS Cos. a. 752; 12 11 Triumphalis a. 775. 10 8 PLAVTIA M.F A. PLAVTIVS P. PLAVTIVS M.PLAVTIVS VRGVLANILLA N. F. VROVUN1VS M. F. PVLCHER M.F. SILVANVS 14 A. PLAVTIVS A. F Praet. Peregrin. a. 755 ; Pro cos Cypri a. 760-61. 16 | 15 « Di A Uxor Imp. Clan dii, etpostea repudiata. Vixit ann. IX. Pro cos Siciliae Praet. Urbanhi.777 circa a. 795. n Vamnatus venas exolvit. Q. PLAVTIVS A. F Cos a. 789. A. PLAVTIVS - A.F Cos suff. a. 782, 9 TI. PLAVTIVS M. F. SILVANVS AELIANVS Cos 11. a. 827; Praef. Urb. et Triumph. 17 rTpLAVflVS - Q. F. LATERANVS Cos design, a. 818, a Nerone occisus. Triumphalis a. 800. 18 A. PLAVTIVS A.F A Nerone necatus. Q‘ I , 4 ANI' Cx 44 HELVIDIA P. F. In puerperio defun A Fitta- Digitized by v^oogie IOK ; • CLAVDIORVM • CAESARVMQVE (Alt; AVT AFFINITATE ALIQVA CONIVNCTORVM A liNEALOGICA 23 ' G. OCTAVIVS C.F ( Atia , secunda uxor eius.) 24 ! 25 2 ( lAVDlii' F- PVUSi ! Aijn.vGeman. 20 -P.QVINCTILIVS SEX. F. VARVS Cos a. 74Ì. Sibi manus intuiti , a. 763. CAESÀR AVG. OCTAVIANVS Post mortem in num. deorum relatus. OCTAVIA C.F (Minor) M. An tonti Triumviri uxor. 26 ANTONIA M.F (Minor) 27 D. CLAVDIVS NERO DRVSVS GERMANICVS Ti. Caesaris A ug.fr ater; Cos a. 745. 22 28 29 ! | • 30 31 " pTq VLNCTILIV CLAVDIA D.F. CLAVDIA D. F TI. CLAVDIVS GERMANICVS P. F. VARVS DRVSILLA 1 LIVILLA DRVSI T. AVGVSTVS CAESAR f ito es et Gaesari propinquus » . , - Primogenita ignota. C. Caesari nupta, et Divus appellatus ( Agrippina M. f. Uxor . lccusatus a. 780 evasit. deinde Druso Caes. post necem. ! 35 | 34 36 32 QV INSTILI A . .QVINCTIL1VS G. HELV1DIVS AGRIPPINA P. F P. F. PRISCVS AVGVSTA $ VTIV5 .F ìhlì- Ex hypothesi, pri- ma uxor Plautii. 19 PLAVTIA ;VINCTILU A. F Prima uxor P. HekidiL ri \ r ElA [:or. Primogenitus igno- tus, a quo descende- runt Coss. a. 904, etc. 39 P.IIÉLVID1VS C.F.PRISCVS « Vir saepius niemo- randus » a Vespa- siano necatus. Cluviensis , Prim. Pii. 38 37 C.I1ELVIDIVS C. F. PR1SCVS Primogenita. HELVIDIA C. F. PRISCILLA Uxor M. Vetta Marcelli Proc. A ugg. Cn. Domit. Ahenobarbi coniux , a Nerone filio necata. 33 ^ERO^CAES. AVGVST. GERM. A Senatu damnatus , sibi manus intuiti - 3 HF.LV^ p.f- I fila 42 40 P.HELVIDIVS P. F. PRISCVS Cos suff. circa a.833, a Domitiano necatus. 43 P .IIELVIDIVS HEL VI DIA P. F. PRISCVS P. F. PRIS CILLA In puerperio defuncta . 45 ‘Fili a. Digitized by Google — 48 - eaque sunt scripta antiquis litteris Latinis » 1). Relativamente poi all’altissima carrierapolitica e militare di essi, fin dal quarto secolo di Roma incomincia a comparire un c-plavtivs-pf-p-n-procvlvs console nel 396, vir triumphalis, e nel 398 Magister equitum ; cui fa seguito il c ■ plavttvs- venno console nel 407, che iterò i fasci nel 413. Viene poscia un l plavtivs l f venno console nel 424, e censore nel 442, nella qual carica gli fu mutatp il cognome ven- no in quello di venox; ed appresso a costui un cplavtivspf- p • n •decianvs • hypsaevs console e trionfale nel 425, e, con esempio molto eccezionale, console per la seconda volta nel seguente anno 426. Elevossi inoltre al consolato del 436 un altro l plavtivs l f l- n venno, che nel 429 essendo Pretore fu colto da grave infermità; ma dopo lui , per due secoli consecutivi , questa famiglia non più ascese alla suprema potestà della Repubblica. Difatti , senza tener conto del L. Plautius Hypsaeus pretore nel 561, solo nel 629 ricomparisce console un m plavtivs- hypsaevs, dichiarato da Cice- rone « imperitus iuris civilis » 2); e poscia continuò per oltre un secolo la decadenza politica del casato , conoscendosi che in tal tempo appena potè sollevarsi all’ onore della edilità, e della pre- tura. Cosicché in un grande sforzo , e non senza spargimento di sangue , che P. Plauzio Ipseo volle fare nel 701 per guada- gnare i fasci , in competenza con Pompeo Magno e con Cecilio Metello Scipione , altro non ricavò che la severa condanna pel reato de ambitu, e la consecutiva pena dell’esilio 3). bo dire senza iattanza , che il cavaliere Frederic Inglese mi colle dare , e mi pose sul tavolino una manciata di zecchini , ma invano , e affinchè per sempre fossero con- servate , ne feci volentieri donativo alla celebre Galleria Kircheriana ». 1) Plinio, .ff. JST., XXXV , 10, 115 (Jahn). Sono curiosissime le varie emendazioni proposte al terzo verso dai dotti, sul fon- damento delle varianti che comparisco- no nei diversi codici di Plinio. Prima vi fu letto e supplito: Marcus Ludius Helo - tas Aetolia oriundus ; e pochi anni indie- tro il Sillig propose: « Plautiu’ Marcus oleoetas Alalia exoriundus » ; ma final- mente il Jahn preferì la lezione e la cor- rezione esposta nel testo. Egli però av- verte ( scripturae discrepante, Voi. V , pagg. XLV, XLVI), che in un codice del secolo XV esistente in Monaco di Bavie- ra, vi si legge in proposito: « eie tas iala - ta praeneste oriundus ». 2) Cicerone, De Oratore, I, 36, 166. 3) Dione, XL, 53, ed altri Storici. Digitized by ^jOoq le — 49 — Ad onta però di tutte queste contrarietà, i Plauzii si fecero ben sentire e celebrare anche nell’esercizio delle inferiori cariche dello Stato; e ne porse gran pruova il M. Plauzio Silvano che abbiamo posto a stipite della nostra tavola genealogica, attesoché da lui in- cominciò a rifiorire e ad estollersi politicamente la sua famiglia. Era egli tribuno della plebe nell’anno 665, quando, per la guerra Marsica, tutta Italia 'andava a sangue ed a scompiglio; e fu in tal circostanza autore principale della famosa legge Plauzia-Papiria, con cui , donavasi la cittadinanza Romana alle città confedera- te , a fine di scindere ed indebolire efficacemente la concordia e le forze degl’ Italici strenuamente pugnanti per ottenere il diritto medesimo 1). Fu autore inoltre dell’altra legge non meno celebre colla quale pei grandi bisogni di guerra, diminuì di un colpo il peso della pubblica moneta in bronzo, riducendo l’asse alla metà, cioè da un'oncia a sola mezz'oncia di metallo 2). Ed Asconio Pe- diano finalmente gli attribuisce la lece Plautia iadiciaria di gran- de importanza politica 3). Della discendenza di questo Personaggio non si conoscono che due figli: il primogenito, al quale, per la nota legge del 514, do- vette imporre il proprio prenome M(arcas), ed anche il cognome silvanvs; ed un cadetto cui amò conferire il prenome A(atos), inau- dito in questa famiglia, ove sempre comparirono i prenomi C (aius), Hucius) M (arcus), M (a)N(ias), P(ublius). E quasi volesse fermarne uno stipite separato, non impose ad esso verun cognome. Dicia- mo poche cose del primogenito. 2— m plavtivs m - f silvanvs. Notizie precise storiche od epigrafi- che di costui mancano affatto, e solo può congetturarsi che fosse stato autore di una proposta fatta in Senato, circa l’anno 683, per richiamare in Roma il cognato di Giulio Cesare, ed altri esuli che eransi rifugiati presso Sertorio: « L. etiam Cinnae uxorie fratri, 1) Cicerone, Pro Archia , IV, 7. 2) Cavedoni, -Ripostigli, pagg. 18, ^.Bor- ghesi, IIl,p. 220; cf. V, p. 171-72. 2) Ascon., In Cornei, p. 79. Altre leggi Plauzie compariscono circa questi tem- pi, come Vagraria , e l'altra de vi; ma non se ne conoscono con sicurezza gli auto- ri precisi. Digitized by ^ooq le — 50 — et qui curri eo civili discordia Lepidum secati , post necem con - sulis ad Sertorium confugerant , reditum in civitatem roiatune Pioti» confecit (Caesar) , habuitque et ipse super ea re concio- nerà » 1). E Io conferma Aulo Geliio: « Repperi tamen in oratio- ne C. Caesaris , qua Plaatiam rogati onem suasit etc. » 2). Do- vette essere dunque grande amico del Dittatore , e perciò lo tro- viamo l’anno 705 fra gli uffiziali di costui presso il fiume Apsus nell’Epiro, ove fu ferito dai militi Pompeiani: « Vulnerantur ta- men complures ; in his Cornelius Balbus, Plotina, L. Tibur- tius, centuriones militesque nonnulli » 3). E pare che avesse do- vuto soccombere a queste ferite, imperocché il prenome ed il co- gnome paterno furono riprodotti non da lui, ma dai secondogeniti di suo fratello Aulo, come fra poco vedremo. 3— a plavtivs m f. Di questo personaggio rinvengonsi indicazioni storiche, numismatiche ed epigrafiche. Cicerone lo chiama « homo ornatissimus familiaris meus » 4). Fu Tribuno della plebe nel 598 5); Edile curule insieme con Cneo Piando nel 700, ed ottenne dal Senato facoltà di far coniare un denario col suo nome, e col simbolo d’ un Regolo dell’Arabia a nome bacchivs ivdaevs, da lui sottomesso 6). Fu poscia nel 703 Pretore Urbano, e nel 705 era in Bitinia col grado di Propretore; ma siccome apparteneva al par- tito di Pompeo , sembra che avesse dovuto nell’ istesso anno ab- bandonare quella Provincia. Noi abbiamo forte indizio che fosse fratello germano del m plavtivs sopra ricordato , mercè la bella lapide arcaica di Minturna 7): M PLAVTI A M L TRASEAE POSTEREISQVE EIVSVIVIT 1) Suetonio, D. lui. Caetar, V. 2) Gellio, N. A. XIII, 3. 3) Cesare, B. C. Ili, 19. 4) Cicerone, Pro Cn. Piando, VII. 5) Dione, XXXIX, 16. 6) Cicerone, Ad Att., V, 16. Cohen, mèd. cons. p. 254, PI. XXXIII, Plauti» n. 5. 7) C. I. L. I, n. 1196. Digitized by ^jOoq Le — 51 — Imperocché non par dubbio che il titolare era un antico servo di M. Plauzio Silvano seniore; ma passato per dritto di eredità in potere dei suoi figliuoli Marco ed Aulo, fu da costoro manomesso, e perciò rettamente si appella A (uli) et M(arci ) L(ibertus ) , rite- nendo il prenome Marcus per deferenza al più anziano dei due Patroni. Da ciò pure conoscesi come questi Plauzii possedessero dei predii anche in Minturnae. Vediamone ora la discendenza. 4— mplavtivsafsilvanvs. Il nostro Propretore ebbe a generare certamente due figliuoli: al primogenito impose il nome legale di a plavtivs a p, ed al cadetto quello di m plavtivs- afmnsilva- nvs, per la ragione che essendosi estinto il ramo primogenito del padre suo Marco, come abbiamo accennato , toccava a lui il do- vere di rinnovarne la domestica memoria. Su questi due ram- polli a me finora non è riuscito trovare alcun documento storico, probabilmente perchè , vissuti in tempi di guerre civili e di pro- scrizioni, amarono meglio ritirarsi a vita privata, e lontani dalle pubbliche faccende. 5 — m plavtivs m p a n silvanvs. Celebre figlio primogenito del precedente (n. 4), che nella importantissima lapida da riprodursi fra poco, ci ha conservato il prenome del padre e dell’avo pater- no, certificando così l'intera genealogia della famiglia da noi sta- bilita. Esercitò tutte le cariche politiche inferiori dello Stato, e po- scia fu creduto degno di salire al consolato ordinario nel 752, in compagnia di Ottaviano Augusto. Ebbe inoltre il sacerdozio fra i VII viri epuloni, ch’era uno dei quattro di ordine supremo. Poco dopo abdicò il consolato unitamente ad Augusto, ed in seguito fu spedito in Pannonia, e poscia nella Dalmazia a soccorso del Ce- sare Tiberio , il quale stentatamente e sanguinosamente combat- teva contro i terribili montanari di quell'aspra regione 1). Segna- lati furono i vantaggi ch’egli riportò in queste campagne; e ne con- seguì le vesti trionfali , colle quali accompagnò Tiberio allorché ritornò a Roma in trionfo. Per tal guisa quest’uomo, dopo 123 anni, riconquistò alla sua stirpe la dignità del consolàto , e dopo 325 1) Dione , LV, 84 ; LVI, 12; Vbuuo, II, 112, 4. Digitized by Google anni, anche l’onore delle insegne trionfali. Ma benché tutto fosse finito poco dopo colla morte , pure delle sue nobili azioni rimase eterna memoria all’ Italia ed alla posterità, nel magnifico Mauso- leo che gli fu elevato, cui la falce elei tempo e l’ umana barbarie non sono giunte ancora a distruggere. Veggonsi presso la città di Tivoli nel luogo detto Ponte Lucano , i superbi e torreggiami a- vanzi di questo suo monumento, decorati meglio di ogni altra cosa dalla seguente epigrafe 8): M- PLAVTIVS M F A N||silvanvs gos • VIIVIR • EPVLON 1 1 HVIG • SENATVS • TRTVMPHALIA 1 1 ORNAMENTA • DECREVIT 1 1 OB • RES- IN • ILYRICOl | BENE GESTAS || SATRIA CN • F | |VROVLANIA|| VXOR| | A PLAV- TIVS • M • F • 1 1 VRGVLANIVSl |VlXIT • ANN • IX. 6— satria cn f vrgvlania. L’ insigne documento che precede ci porge la singolare notizia della famiglia cui apparteneva la con- sorte del Plauzio in discorso. Essa , secondo il costume romano, fa mostra di due gentilizii, uno tratto dal padre Cn. Satrius, e l'al- tro dalla madre Urgulania. Ed è stato gran merito del Garrucci avere aggiunto alla epigrafe questo importante nome nell' ottavo rigo omesso da tutti. 7— vrgvlania. Era costei quella superbissimaepotentissima donna, intima amica dell’imperatrice Livia, pel cui appoggio nel 769 potè impunemente rifiutarsi di comparire in giudizio, ov'era stata citata da L. Pisone; come neppure volle recarsi nel tribunale qual testimone in un’altra causa, costringendo cosi il Pretore ad accedere perso- nalmente al di lei domicilio per raccoglierne la dichiarazione. E ciò, mentre anche le vergini Vestali per antica consuetudine erano in obbligo di comparire nel foro innanzi al Magistrato, tutte le volte che ne venivano legalmente richieste 3). Il nostro Borghesi fuor- viato dalle comuni viziose copie della su riferita epigrafe di Ponte Lucano, non potè giungere a dipanare l’arruffata matassa genea- logica di questi Plauzii: dichiarò quindi erroneamente che essa Ur- 1) Suetonio, Tiberius Caesar , XX. 2) Garrucci , I segni delle lapidi latine detti accenti , p. 28. Roma, 1857. Egli di- chiara di aver trascritta la epigrafe « di recente ». Fu edita scorrettamente dal Grutero, dall’ Orelli, dal Fea, dal Nibby, •dal de Sanctis etc. 3) Tacito, Ann , II, 34. Digitized by ^ooq le - 53 — gulania era la madre del console Plausio , e non già la moglie , come , anche falsamente , avea opinato il de Sanctis 1). Ma se il Fastografo rimane per questa causa legittimamente scusato, non può affatto condonarsi l’ignaro silenzio de’suoi annotatori, i quali erano nell’obbligo e nella possibilità di emendarlo, attesoché la re- censione epigrafica del Garrucci fu stampata e conosciuta dodici anni prima che fosse edito il quinto volume delle opere Borghe- siane. Ritengasi dunque , che 1’ orgogliosa Urgulania non era nè madre, nè moglie, ma sibbene la suocera del console del 752. 8 — m plavtivs m p silvanvs. È figlio primogenito del prelodato console, di cui legalmente porta la piena nomenclatura. Il preno- me M(arc«s) ed il grado preciso di Pretore Urbano gli sono stati poco tempo fa restituiti da un lacero frammento di fasti Preto- rii , scavato presso Roma nel sito ove sorgeva il luco sacro dei fratelli Arvali 2). Di questa buona lana parla Tacito, sotto l’anno 777, nei seguenti termini : « Per idem tempus Plautius Silvanus praetor , incertis causis , Aproniam cohiugem in praeceps iecit tractusque ad Caesarem ab L. Apronio socero , turbata mente respondit, tamquam ipse somno gravis atque eo ignarus, et uxor sponte mortem sumpsisset. Non cunctanter Tiberius pergit in do- mum , oisit cubiculum , in quo reluctantis et impulsae vestigia cernebantur. Refert ad Senatum , datisque iudicibus , Urgulania Silvani avia , pugionem nepoti misit. Quod perinde creditum , qua- si principis monitu , ob amicitiam Augustae cum Urgulania. Reus, frustra temptato ferro , venas praebuit exsoloendas. Mox Nu- mantina , prior uxor eius , accusata iniecisse carminibus et ve- neflciis vecordiam marito , insons iudicatur » 3). Ecco dunque spiegato e confermato il detto della epigrafe di Ponte Lucano, che fa dedurre essere stata Urgulania l’ava materna di questo pretore uxoricida. Egli nel magistrato venne sostituito da M. Licinio Cras- so Frugi, come cl avvertono i fasti pretorii suddetti. 1) Borghesi, V, p. 308-J09. CCXLIV. 2) Henzen, Bull. dell’Inst. Arch. di Ro- • 8) Tacito, Ann. IV, 22. ma, 1869, p. 123; cf. Acta/ratr. Aro. pag. Digitized by Google 9— ti- plavtivs- m- p • fin(ìensi ) silvanvs AELiANVs.Dalla malvagia spi- na or memorata nacque questo grande e splendidissimo flore, che fu pure intimo amico ed affine del nostro Elvidio , come a suo luogo chiaramente vedrassi. Tutti gli storici antichi lo ignorano , ad eccezione di Tacito , il quale peraltro lo commemora appena una sola volta, e per incidenza. Di guisa che la conoscenza laco- nica delle sue eroiche gesta la dobbiamo unicamente alla scienza epigrafica. Eccone la lapida , esistente tuttora nel prelodato mausoleo di sua famiglia a Ponte Lucano, trascritta secondo la copia ben cor- retta del Garrucci 1): TI • PLAVTIO M F • A M 1 1 SILVANO AELIA- No IIPONTIF • SODAL • AVO 1 1 1IIVIR • A • A • A • P • F • Q • TI- CAESARIS| | LEOAT • LEO • V- IN GERMANIA 1 1 PR -VRB • LEOAT ETCOMITI CLAVDj |CAESARIS IN • BRITANNI A CÓNSVLillPROCOS ASIAE LEOAT- PROPRAET M0ESIAE||IN QVA PLVRA QVAM CENTVM MILLllEX NVMERO TRANSDANWIANOR 1 1 AD • PRAE8TANDA* TRIBVTA • CVM -CONIVOIBllAC LlpERls ET PRINCIPIBVS AVT REOIBVS SVls||TRANSDVXIT MOTVM ORIENTEM SARMATAll 1 1 COMPRESSIT QVAMVfe PARTE MAGNA EXERCI- TVS| | AD EXPEDlTIONEM IN ARMENIAM MlsiSSET| IlONOTOS ANTE AVT INFEN- SOS P-RREGES SION A | |ROMANA ADORATVROS IN RIPAM QVAM TvEBATvr|| PERDVXIT REOIBVS BASTARNARVM ET||RHOXOLANORVM PlLIOS DACORVM PRA- TRVM CAPTOS AVT HOSTIBVS EREPTOS REMlSIT AB| |ALIQVlS EORVM OPSIDES ACCEPIT PER QVEM PACEM||PROVINCIAE ET CONFIRMAVIT ET PROTVLIT||SCY- tharvM qvoqve reoem A CHERONENSI II qvae est vltra borvsthenem OBSIDIONE SVMMOTOllPRlMVS EX EA PROVINCIA MAGNO TRITICI MODO||AN- nonam p-r -adleVavit hvnc legatvm in||in (sic) hispaniam ad prae- FECTVR VRBIS REMISSVM || SENATVS IN PRAEFECTVRA TRTVMPHALIBVSl I OR- NAMENTls HONORAVIT AVCTORE lMP||CAESARE AVGVSTO VESPASIANO VER- BIS EX || ORATIONE # EIVSQ- 1 - SS || MOESIAE ITA PRAEFVIT VT NON DEBVERIT IN || ME DIFFERRI. HONOR TRJVMPHALIVM EIVS || ORN AMENTORVM NISI QVOD LATIOR El ||CONTIOrr MORA TITVLV8 PRAEPECTO VRBIS || HVNC IN EADEM PRAEFECTVRA VRBIS IMP CAESAR||AVO VESPASIANVS ITERVM COS FECIT. Questa sublime e singolarissima pagina storica, che potrebbe 1) Garrucci, O.cit. p.36-37: « monumento Per necessità tipografica ho dovutoomet- funebre copiato da me al Ponte Lucano ». tere i numerosi accenti di questa lapide. Digitized by {jOoq le - 55 — meritamente appellarsi la regina delle epigrafi onorarie, fora ben degna di un esteso comentario, se qui ve ne fosse il luogo 1). Ma alla semplice lettura di essa, nessuno che senta ardersi il petto dall’amore della Patria e della Verità, potrà astenersi dall’esclamare: O quanta virtù , o quanto vigore cT intelletto e di azione regnava fra i nostri Avi , anche nei più turpi e feroci tempi del dispo- tismo t E se tanto potè operare un uomo così negletto dalla sto- ria , chi potrà numerare quante altre nobilissime e memorande imprese, di secoli più liberi e modesti, son rimaste sepolte nel più profondo oblio t Accenneremo dunque soltanto qualcosa relativa airepoca precisa delle maggiori cariche di Plauzio , la quale, ad onta dell’ elogio , sarebbe rimasta assai incerta, senza il soccorso di due altre mi- nuscole epigrafi raccolte in diversi luoghi. Difatti, un marmo Pom- peiano illustrato dal Borghesi 2) ci ha fatto conoscere il primo suo consolato sufletto nel 798; ed una esile tessera ossea, non meno preziosa, ha testificato come il medesimo avesse ricevuto i secondi fasci al gl’idi di Gennaio dell'827, in sostituzione dell’imperatore Ve- spasiano 3). E di conseguenza, qualche breve tempo prima dovette esser pure rivestito dell’alta dignità di Praefectus Urbis. Noterò inol- tre che la tribù AN(iensts), da lui accusata nel marmo Tiburtino, era propria della casa dei Plauzii, per testimonianza di Cicerone 4). Nè debbo per ultimo omettere come Giusto Lipsio, nelle annota- zioni a Tacito, col riprodurre le sole cinque prime linee del pre- lodato marmo, e coH’attribuirlo al pretore del 777, mostrò a chiare note di non averlo, letto per intero, e di possedere nozioni molto fallaci sulla genealogia di questa famiglia 5). 10 — p plavtivs M F -pvlcher. Altro fratello germano del precedente, 1) Di questo Personaggio ha parlato lungamente e colla sua solita dottrina il compianto Guglielmo Henzen, negli An- nali deli’lnstituto Archeologico del 1859, p. 5 e seg. Ma la sua dissertazione avreb- be bisogno di varie importanti emenda- zioni. 2) Borghesi, VI, p. 273, e seg. 3) Henzen, l. cit. Cf. Borghesi,, IX, par- te 2. - p. 268-69. 4) Cicerone, Pro C/i. Piando XXII: « et aie prioribus comitiis Aniensem a Fiotto, ’ Terentinam a Piando Ubi esse concessam ». 5) Lipsio, Ad Tacit. IV, 22. Digitized by Google — 56 — e forse il terzogenito maschile. La sua epigrafe storica che esiste- va nel Mausoleo Tiburtino è ora perduta , ma ne furono tratte alcune copie bastantemente regolari, edite dal Grutero 1). Quivi egli dichiarasi espressamente trivmphalis piltvs, e dice che fu questore dell’ imperatore Tiberio nel 784; Comes di Druso figlio di Germa- nico; avunculus di Druso figlio dell’imperatore Claudio; e final- mente, dopo altre cariche preliminari, toccò il proconsolato della Sicilia circa il 795, dopo il quale dovette essere sorpreso da morte, attesoché non pervenne al consolato , che gli sarebbe toccato di buon dritto. La sua moglie chiamavasi: vibiamarsiflaeliana, ed era probabilmente figlia di C. Vibio Màrso console nel 770. - 11— a plavtivs m p vrovlanivs. Fu questo il secondogenito maschio del prelodato console del 752, e di Satria Urgulania sua consorte. Trasse il prenome A {ulus) dal bisavo paterno, ed il secondo gen- tilizio evidentemente dalla madre , e dall' ava materna. Ma non visse più che nove anni , come ci avverte il monumento del padre. » 12— plavtiamfvrgvlanilla. Questa donna dovè venire alla luce immediatamente dopo M. Plauzio Silvano suo fratello primoge- nito. Sposò Claudio Nerone, jl futuro imperatore « admodum ado- lescens », e ne ebbe un figliuolo di nome ti clavdivsdrvsvs, il quale morì in Pompei soffocato da una pera, che gli s'incuneò nella gola allorché giuocava con altri discoli suo^ compagni 2). Ma dopò non molto fu ella ripudiata, e Suetonio ne manifesta la cagione: « Uxo- res deinde (Claudi us) duxit Plautìam Urgulanillam triumphali, et mox Aeliam Petinam, consiliari patre. Cum utraque dioortium fecit : sed cum Petina ex leoibus offensis ; cum Urgulanilla ob libidinum probra , et homicidii suspicionem » 3). E questo è ciò che si conosce dalla storia e dai marmi intorno alla discendenza immediata del console e trionfale su memorato. Torniamo ora indietro, ed esaminiamo la genealogia di quei Plauzii, i quali riten- 1) Grutero , 452 , 5, a Scaligero ; 464, !, 2) Idem , ibid . XXVI. e Mazochii libro . V Henzen giustamente 3) Suetonio, Ti . Claud . Caes ., XXVII. emendò la penultima linea. Digitized by ^jOoq Le — 57 — nero il prenome Aulus, e costantemente si astennero da ogni co- gnome nei rami primogeniti. 13— aplavtivsaf. Siccome abbiamo accennato al n. 4, di questo Plauzio non ho rinvenuto finora alcuna memoria, benché la sua esistenza come conservatore della specie non possa negarsi. 14— aplavtivsaf. Il frammento dei fasti preterii sopra lodato, all’anno 755 mostra che era Praetor peregrinorum un... plavt- ch’è giusto supplire [A ] PLAVT(i'us); dappoiché la mancanza del cognome fa giudicare trattarsi di un personaggio della casa degli Auli Plauzii. Confermano questa classificazione due importanti monete di Cipro colla epigrafe a plavtivs procos, e colle immagini di Ottaviano Augusto e di Livia sua moglie. Furono illustrate dal Borghesi, il quale riputolle coniate non prima del 732, e non dopo il 767, quando avvenne la morte di Augusto 1). Lo spazio incerto è, come si vede, soverchiamente largo; ma io osservo come il pre- detto frammento fastografico sia ben valevole a mostrarci l’epoca precisa di questo proconsolato, nella ipotesi che il pretore del 755 sia la persona stessa del proconsole, come non vi è luogo a du- bitare. Quindi se per legge egli non poteva recarsi in Provincia prima che fosse decorso il solito quinquennio d’intervallo dopo la pretura, sara chiaro che il suo proconsolato dovè cadere nell’anno provinciale 760-761. È finora ignoto però se avesse progredito nella carriera fino al consolato suffetto. 15— a plavtivs a p. Fu il primogenito del nostro Proconsole , ed or ora ne terremo ragionamento. 16— q plavtivs a p. La ragion dei tempi, e la mancanza del cogno- me unitamente ad altri indizii, portano a credere che costui fosse un altro figliuolo del Proconsole medesimo. Pervenne egli al con- 1) Borghesi, .11, p. 19, SO. Erroneamente il gran Fastografo accetta l’opinione ge- nealogica del Vaillant , il quale pretese che quest’A. Plauzio fosse stato un igno- to fratello di M. Plauzio Silvano console nel 752, da noi sopra censito al n. 5; e" fluttuando inoltre nel giudizio, soggiun- se: « anzi sarà meglio di reputarlo fratel- lo delValtro M. Plauzio suo padre , ignoto anch'esso ... e che io tengo per marito della celebre Urgulania». Ciò dimostra la con- fusione che ha regnato nella genealogia dei Plauzii, confermata dal silenzio per- fetto degli annotatori Borghesiani. 8 Digitized by Google solato ordinario nel 789, insieme con Sesto Papinio Allento ; e fu padre del seguente : 17 — plavtivs-qflateranvs. Alcuni aneddoti sopra questo perso- naggio vengono riferiti da Tacito, il quale indirettamente testifica la consanguineità di costui coi due Plauzii precedenti, e per con- seguenza conferma l’ordine generale genealogico da noi stabilito. Era uno degli adulteri di Messalina, moglie dell’imperatore Clau- dio , e ne fu accusato T anno 801 ; ma solo in grazia dei meriti dello zio paterno scampò il supplizio, e venne soltanto espulso dal Senato: « Suillio Caesonino, et Plautio Luterano mors remit- titur ; huic ob patrui egregium meritum ; Caesoninus vitiis prò- tectus est » 1). Poscia nei principii dell’ 818 prese parte alla con- giura contro Nerone; ma discòverto alla vigilia di essere rivestito del consolato suffetto, cioè ai 13 Aprile, fu assalito nel suo palazzo mentre allegramente banchettava cogli amici , e trucidato dai si- carii del Principe: « Prose imam necem Plautii Laterani consulis designati Nero adiungit, adeo propere , ut non complecti liberos, non illud breve mortis arbitrium permitteret. Raptus in locum servilis poenis sepositum, manu Statii tribuni trucidatur, plenus constantis silentii, nec tribuno obiiciens eandem conscientiam » 2). È da notarsi esplicitamente come i predii urbani di questa fami- glia Plauzia erano sul monte Celio , presso il luogo che anche oggi chiamasi « in Laterano »; e ne tenne memoria Giovenale 3) : Temporibus diris igitur, iussuque 'Neronis Longinum, et magnos Senecae praedivitis hortos Clausity et egregias Lateranorum obsidet aedes Tota cohors. Alle pagine 94 e 95 abbiamo commemorato il • plavtcvs Qvintil- lvs console nel 912 , ed il costui figlio m plavtivs qvintillvs con- sole nel 930, giustamente classificandoli fra i discendenti del Q. Plau- * 1) Tacito, Ann. XI,86.Cf. XI, 30; XIII, 11. 3) Giovenale, Sat. X, vs. 16-18, 2) Idem, ibid., XIII, 60. % Digitized by ^jOoq Le — 59 — zio sopra memorato al n. 16, e che di conseguenza possono con più precisione riferirsi allo stipite di Plauzio Laterano. Rivolgia- moci ora al di lui zio paterno Aulo Plauzio, censito sotto il n. 15. Ho già dichiarato a pag. 44, la essenza di questo insigne perso- naggio. Un frammento dei fasti municipali di Nola 1) ci ha dato co- noscenza del suo consolato, il quale ebbe luogo dal 1° Luglio a tutto Decembre del 782, cioè nell’anno medesimo in cui , secondo la concorde opinione degli eruditi, ebbe luogo la morte sulla Croce del Cristo Gesù. E tien menzione, senza dubbio, del consolato me- desimo il seguente misero avanzo scavato in Pompei, non sup- plito dal Mommsen ; ma che è facilissimo ristaurare come sie- gue 2): [ 11VIR] V • A S [• P • P] A • PLAVTIOA[FLNONIOASPRENCOS] Il ripetuto frammento dei fasti pretorii, col riferire alla carica di pretore Urbano nel 779 un a 3) , fa credermi assai probabile che abbia indicato il Plauzio in discussione, essendosi per la frat- tura del marmo perduto il gentilizio plavtivs. E bene starebbe , visto che, dopo i due anni legali d’intervallo, fu egli promosso al consolato, non ostante la omissione del proconsolato pretorio; im- perocché non tutti i Pretori solevano sorteggiar le provincie, sic- come chiaramente dimostrerò in altra occasione. È da notarsi in- fine, come una lapide di Trieste ci fa conoscere che il medesimo, dopo il consolato, amministrò la provincia &e\Y Illirico 4). Cotanto scarse e meschine memorie epigrafiche ci son finora rimaste di un uomo che ai suoi tempi riscosse altissimo grado di 1) C. /. L. X, n. 1283. 2) Idem, ibid., n. 897. Le celebri sigle del 2* rigo , che sono tuttora la sfinge degli epigrafisti , furono da me studiate molti anni indietro, e credo essere giunto" a discovrirne il significato, rigettando le proposte del Garrucci, dell’ Avellino etc. le quali non resistono al menomo urto della critica. Ma non ò questo il luogo di farne ragionata dimostrazione. 3) Henzen, Actafratr. Arcai., p. CCXLIV. 4) C. /. L. V, n. 598. Digitized by ^jOoq le celebrità , precipuamente per la conquista della Britannia , e per la splendidissima ovazione che gli fu concessa nell'anno secolare 800, allorquando ristesso imperatore Claudio volle accompagnarlo in Campidoglio, e tenerlo alla sua destra, sì nella salita, come nella discesa. Ho pure accennato aver egli avuto per moglie Pomponia Graecina (dai moderni giudicata Cristiana), e riferito il passo di Ta- cito che ne fa espressa menzione; ma per necessità storica ho dovuto attribuirgli anche una prima consorte di nome Quinctilia , non ostante che sia rimasta affatto ignota nei marmi e negli antichi scrittori. Con costei dunque dovè generare due figliuoli: un ma- schio , ed una femmina, da commemorarsi nei due numeri se- guenti. 18— a plavtivs A F. È questo l’ultimo conosciuto dei Plauzii di fa- miglia senatoria, portanti il prenome Aulus ; ed il tempo in cui visse fa reputarlo con bastante certezza figlio del precedente. Suetonio parlando delle uccisioni perpetrate da Nerone per gelo- sia di regno, ci dà questa importantissima notizia: « Si/niliter in- teremit caeteros aut afflnitate aliqua sibi , aut propinquitate coniunctos. In quibus Anioni Plautini» iuoenem quem cum ante mortem per vim constuprasset, eat nunc, inquit, mater mea et successorem meum osculetur ; iactans dilectum ab ea, et ad spem imperii impulsum » 1). Questi scellerati fatti dovettero avvenire verso l’811; perciocché nell'anno seguente ebbe luogo la catastrofe di Agrippina. Ora io affermo che lo sventurato giovane non fu ge- nerato da Pomponia Grecina, per la ragione che costei serbò un lutto ed una profonda mestizia, durata quaranta anni, unicamente per la uccisione della sua amica Giulia figliuola di Druso giunio- re, perpetrata da Messalina nell’800. Molto maggiore quindi avreb- be dovuto essere il dolor suo, per il vitupero, e per la morte di questo Plauzio, posto che le fosse stato figliuolo; nè Tacito avrebbe potuto trasandare tale altro e più grave incidente, nel parlare della medesima. Giusto Lipsio, probabilmente per ragioni di nomencla- tura e di tempo , riputò il Plauzio in discorso « fllium fortasse l) Suetonio, Nero Claudio. 9 Caes. XXXV. Digitized by ^jOoq Le — 64 — eum qui de Britannis triumphavit » 1); e questa volta, divinando, imbroccò nel segno. 19 — plavtiA'A P QVinctilia. Di questa donna eccelsa che fu, per mio giudizio, la prima consorte del nostro Elvidio, si è superior- mente ragionato abbastanza. Ora però che ne abbiamo dimostrata la vera genealogia, viene a chiarirsi la ragione delPessersi rinve- nuto il di lei sepolcro entro il territorio Prenestino. Iacebat in praedio suo, perocché appunto in Praeneste era il centro princi- pale di origine e di possedimenti degli Aulì Plauzii, come sopra largamente abbiam dimostrato. Altro latifondo, e forse una villa dovette essa, e lo sventurato fratei suo, possedere nelle deliziose vicinanze di Formio,; essendo ivi comparso il seguente titolo, che può riferirsi ai discendenti di alcuni liberti di ambedue 2): a plav- TtvsTheodorilapella||magister-avgvstalis||plavtiaealrvfaecon- LlBERT • CONCVBlN • PIAE 11 PLAVTIAE • A • ET • 0 L FAVSTAE • LlBERT|lC VIBIO- evtYcHO. Oltre ciò , è anche di piena ragione il credere che sul monte Celio , accanto ai possessi di Plauzio Laterano di lei cu- gino, sorgessero i predii Urbani dalla medesima Plauzia ricevuti in dote , e che poscia ereditati dal suo figliuolo ebbero il nome di praedia Haloidiana , siccome afferma l’ epigrafe riprodotta nel quarto capitolo. Devesi quindi modificare in questo senso la spiegazione quivi da noi proposta, e reputarsi invece, che il busto colosso della dea Vesta, Antistes praediorum Helcidianorum, fu fatto scolpire da P. Elvidio giuniore , sulla pia credenza che, in grazia della di lei tutela, le sue case rimasero incolumi dall’incen- dio Tiberiano nel 780, e da quello terribilissimo di Nerone nell’817. E non è improbabile che la salvezza effettiva di esse fu causata dalla posizione isolata e protetta da vasti giardini , nonché dai venti meridionali, soliti a comparire nella stagione estiva, i quali spinsero le fiamme divoratrici verso il centro della città, giusta il narrato di Tacito 3). I Lessicografi non hanno ancora posto mente 1) Lipsio, Ad Taciti Annal. XIV, 59. 2) C. /. L. X, n. 6114. Notate in fine del- la epigrafe il nome di C. Vibius Eutyches , che si appalesa discendere da un liberto del console C. Vibio Marso, ovvero di sua figlia, la quale maritossi col P. Plauzio Pulcro sopra memorato. 3) Tacito, Ann. XV, 38. Digitized by ^jOoq le alla nuova significazione del vocabolo Antistes derivante dal marmo Elvidiano; imperocché avuto riguardo alla etimologia: ante e sto, parmi che sia sinonimo innegabile di tutor, o di altra voce equivalente, siccome ce ne offre specchiato confronto la base del Museo Napolitano: hercvli||tvtow||domvsIInovelliana 1). Ho dovuto assai diffondermi intorno alla genealogia di questa insigne casa dei Plauzii, e per l'importanza, e perchè ho visto come intorno ad essa regnava molta oscurità e fallacia di giudizii. Ora però possiam procedere più speditamente alla recensione delle fa- miglie che rimangono, per completare e coordinare a convenienza il nostro quadro genealogico. Incominceremo quindi a descrivere il ramo materno di Plauzia. 20— pqvinctilivssexfvarvs. Antichissima ancora, e famosa era questa famiglia. Abbiamo di essa il sex QvfNGTiLivs-SEX fpn varvs che fu console nel 301 di Roma e morì di pestilenza; il m-qvincti- livslfln varvs Tribuno militare nel 351; ed il cn-qvinctilivsvarvs Dittatore nel 423. Compariscono in seguito un P. Quinctilius Varus Pretore nel 551, al comando di un esercito con cui vinse il fratello di Annibaie Magone, il quale dopo la battaglia morì di ferite; ed il di lui fratello M. Quinctilius Varus, che combattè nella pugna medesima. Nel 569 la Storia puranoo registra un T. Quinctilius Varus Legato legionario di gran valore in Ispagna ; e nel 585 è notata la morte di P. Quinctilius Varus Flamen Martialis 2). Po- scia se ne disperdono le tracce, ed assai tardi Cicerone rimembra un P. Quinctilius Varus giurisprudente : « summa religione , et summa auctoritate praeditus » 3); nonché un Sex. Quinctilius pre- tore nel 697 4). Finalmente un altro Sex. Quinctilius Varus, que- store nel 705 e partigiano di Pompeo , vien memorato da Giulio Cesare , il quale avutolo prigioniero in Corfìnio, lo pose tosto in libertà 5). Sono questi gli antenati finora conosciuti del P. Quintino Varo 1) C. I . L . X, n. 3799. 2) Livio, III, 32; V, 1; VII) , 18; XXXIX, 30, 38; XLIV, 18. 3) Cicerone, Pro Cluentio , XIX, 33. 4) Idem , Post red . in Senati IX, 22. 5) Cesare, B . C . I, 23. Digitized by ^jOoq le — 63 - che abbiasi posto a stipite di famiglia nella nostra tavola. Esso ridonò alla sua casa 1* onore dei fasci dopo trecento dicias- sette anni , cioè nel 741 in cui fu console ordinario insieme con Tiberio , il futuro imperatore. Nelle superiori pagine lo abbiamo ancora censito fra i Presidi di Siria ; ma la sua estrema dabbe- n aggine., e la sventura che perseguitavalo, furon causa della ce- lebre sconfitta subita nella Germania, per opera astuta, ma non valorosa di Arminio, alla quale non potendo sopravvivere, carico di ferite finì di uccidersi disperatamente nel 763. 21 — clavdia'APv-f •pvlchra. È costei la nota moglie di Quintilio, qua- lificata da Tacito: sobrina Agrippinae Germanici. Domizio Afro nel 779 accusolla di adulterio , e di operazioni magiche , e ne fu condannata 1). Dovette dunque rimaritarsi dopo il suicidio di Varo. Giusto Lipsio non potè conoscere la causa della di lei parentela con Agrippina 2), e molto meno i Letterati posteriori. Ma il nostro Borghesi , con dotto ed ingegnoso ragionamento , dimostrò come effettivamente ella dovette esser cugina in secondo grado della sventurata sposa di Germanico 3). 22— p qvinctilivs p F varvs. Figliuolo dei due coniugi precedenti. Tacito dichiarollo « dioes,et Caesari propinquus »; ma se la prima qualifica è giustificata dai grandi beni lasciatigli dal padre, il quale ammiserì la ricchissima Provincia di Siria allorché ne fu Preside 4), per converso verrebbe a trovarsi assai lontana, e tutta in linea di a- dozioni, questa sua propinquità coll'imperatore Tiberio, posto che la £i volesse dedurre dalla sola parentela di Claudia sua madre con A- grippina maggiore. Un altro vincolo più prossimo e diretto dovè dun- que congiungerlo colla casa imperiale; e ce ne offre notizia importan- tissima M. Seneca il retore, nelle Controversie. Racconta quest’ora- tore dotato di. mirabile facoltà mnemonica, come in una riunione di oratori che esercitavansi alla eloquenza, fu posto il tema: « ince- sta de sacco deiiciatur », sul quale assieme cogli altri « declama- • 1) Tacito, Ann. IV, 5*. 4) Tacito, Ann. IV, ' 6; Vklleio Pat. Hist. 2) Lipsio, Ad Taoiti Ann. IV, 5J; 66. II, 117. 8) Borghesi, I, p. 417. Digitized by ^OOQ Le verat... Varus QuinctiliuS tane Germanie! gener, [adirne] praetei- tatai ». Ma siccome il costui ragionamento non era del tutto sod- disfacente, così sorse uno degli interlocutori presenti, L. Cestio Pio « mordacissimus homo » a contraddirlo non solo , ma a sca- gliargli aspre contumelie dicendogli: « ista negligentia pater tuus exercitum perdidit » 1). È lecita quindi e necessaria la seguente domanda di alto interesse storico : Di qua / personaggio preciso era genero questo Quintilio Varo ? Giusto Lipsio con molta, anzi eccessiva franchezza, credè di avere risoluto il problema scriven- do: « Varum Quinctilium. Censeo filium esse infelicis patrie qui in Germania caesus. Sed quomodo Caesari propinquus ? Credo quia Germanici Jlliam duxerat uxorem. Seneca lib. /, controo. Ili: « Declamaverat apud iltum hanc controoersiam Varus Quincti- lius tunc Germanici gener et praetextatus ». Itaque abaneer mi Tiberina fall » 2). Ma questo anacronismo non può sotto veruno aspetto sostenersi. Germanico Cesare non generò che sei maschi, e tre sole femmi- ne , le quali gli sopravvissero: Agrippina nata nel 769, Drusilla nata nel 770, e Livilla nata nel 771. La prima sposò Cneo Domi- zio Enobarbo nel 781 ; la seconda ebbe a mariti: prima L. Cas- sio Longino , e poscia M. Emilio Lepido ; la terza infine fu con- iugata con M. Vinicio. Ora, anche nella più disperata ipotesi, che Quintilio Varo giuniore fosse venuto in luce nel 76 2, cioè un anno prima della morte del padre, sarebbe stato sempre troppo innanzi negli anni, per essere in grado d’impalmare alcuna di queste don- ne, giunte alla età di marito. E la stessa ragione di sconvenienza potrebbe anche addursi qualora al vocabolo gener volesse , nel caso presente , attribuirsi il più largo significato mostratoci dal Digesto: « Generi et nurus appellatane, sponsus quoque et sponsa eontinetur r> 3), riputandosi con tale appoggio che Quintilio fosse stato soltanto promesso sposo di una fra le figliuole di Germanico. 1) Seneca, Controvera. III. Il testo reca 2) Lipsio, i. cit. IV, 86. a ut praelextatus » ; 1 ’adhucè correzione 3) Ulpiano, Digesto, XXXVIII, 10, 6;8,etc. del Faper- Digitized by ^jOoq Le - 65 - Allora però resterebbe inesplicabile il motivo che indusse Seneca ad adoprare una voce di significato ambiguo , in preferenza del- l’altra più chiara ed esplicita: sponsus. Ma oltre di queste gravi dif- ficoltà, non si è avveduto il Lipsio che nella sua ipotesi vi è di mez- zo l’assurdo. Era forse possibile che Cestio, uomo privato, d’infe- rior condizione sociale , e per giunta , non Romano , ma Gallo , avesse osato malmenare così aspramente un incolpevole giovinetto, rampollo d’illustre famiglia; un promesso sposo alla figlia del Ce- sare, alla nipote del crudo Imperatore regnante? Avrebbe rischiato far presso a poco la fine di quel padre di famiglia, il quale per un motto di spirito che pungeva alquanto Domiziano , fu da questi gittato nell’anfiteatro a pasto dei cani, colla scritta in collo: impie LOCVTV8 PARMVLARIVS 1). Dato dunque lo scarto alla spiegazione Lipsiana, per mettere in luce conveniente la soluzione del quesito , « convien tenere altro viaggio » e gittare anzitutto una rapida occhiata alla genealogia dei Cesari, lo che ci accingeremo a fare nel seguente capitolo. 1) Suetonio, Domit. X. 9 Digitized by v^oogie CAPITOLO DECIMO Continuando dunque l’analisi genetica occorrente al nostro sco- po , prenderemo le mosse dallo stipite ond'ebbe origine la onni- potente, ma funesta stirpe di Ottaviano Augusto. 23 — c octavivs c f. Nessuno ignora come tal uomo insigne gene- rò colla sua seconda moglie Atia i due figli seguenti: 24 — C-CAESAROCTAVIANVSAVGVSTVS; 25 — octaviac f. Questa dolce, pudica, e sventurata donna, ma- ritata per ragion politica con quella immane belva di M. Anto- nio, , che assieme con Ottaviano e con Lepido aveasi arditamente diviso il dominio del.Mondo, fu madre di due figliuole: Antonia cioè, detta pure Antonia maggiore, che maritossi con L. Domi- zio Enobarbo console nel 738; ed 26 — Antonia M F, nomata per distinzione: A atonia minore. Il de- stino bizarro di costei gliene accumulò delle buone e delle pessime. Maritata in fresca età con Decimo Claudio Druso , di cui parle- remo al numero seguente, rimase vedova dopo circa quindici anni, e serbò tale stato, prendendo parte a tutte le sventure di famiglia. Il suo nipote Caligola , allorché giunse all’ impero , la rivestì del titolo di Augusta, e del sacerdozio di Augusto divinizzato 1). Ma avendo ella per soverchio affetto voluto rimproverargli le conti- nue azioni malvagie , quel mostro amareggiolla in tal guisa , da costringerla a morte volontaria 2). 27 — d-clavdivsnerodrvsvsgermanicvs, detto ancora Drusus se- nior. Meraviglioso giovine e di precocissimo sviluppo. Si credè con ragione generato dal seme di Ottaviano Augusto, adultero e poscia marito di Livia, sua madre 3); per lo che venne a luce in Palatio nel 716. Fu dunque, per legge di natura, fratello uterino di Tiberio, il futuro imperatore. La storia registra i fatti memo- 1) Suetonio , C. Caes. Caligula XV ; E- 2) Dione, LIX, 3. CKHEL, D.N. V. VI, p. 179, 181. 3) Suetonio, Claudi. IV; Dione XLIV, i*. Digitized by t^oosle - 67 - randi e veramente straordinarii da lui compiti nella Germania , ma che infine gli recisero il bel fiore della vita nel 745 , l'anno stesso del suo consolato. Augusto dopo la di lui morte onorollo del cognome Germanicas trasmissibile ai discendenti 1). Ancor giovinetto, e, per sangue paterno, focoso di temperamento, sposò Antonia minore , come poco sopra abbiamo accennato ; e Suetonio ci dà nozione che dalla medesima « compitar» quidem libere* «nlit; oerum tres omnino reliquit, Germanicum, Lioillam , Claudium 2). Si conosce inoltre che Limila sua figliuola fu ma- ritata prima con C. Caligola , e poscia con Druso §iuniore figlio di Tiberio. Ad onta però di questi fatti storici precisi, io affermo come egli dovè generare un’altra figlia, la quale ebbe a marito quel P. Quinctiliu8 Varus giuniore, che abbiam censito sotto il n. 22. Seneca difatti non dice che costui era genero di Germani -- j cus Caesar ; ma di Germanicus semplicemente. Ora se in quei tempi niun altro personaggio portò un tal cognome , all’ infuori del Claudio Druso in discorso, sarà evidentissimo che il Retore non ad altri che a lui dovette alludere. È consentaneo quindi alla ra- gione il credere che Quintilio, tuttoché in pretesta, ma prossimo ad assumere la toga virile , si fosse effettivamente congiunto in matrimonio colla figliuola di Druso, a cagione del precoce sviluppo dell’uno e dell’altra. Fa d'uopo per conseguenza rigettare la emen- dazione [adhac] proposta dal Faber al passo di Seneca, come ho avvertito in nota alla pagina 56; ed al mendoso ut dei codici, con- viene sostituire la congiunzione [etsi], leggendovi: « Varus Quin- ctilius tane Germanici gener, [etsi] praetextatus. Classificheremo dunque con gran fondamento di verità nel nostro albero geneolo- gico, traendola dalle fauci dell’oblio, la seguente sua figlia: 28 — clavdiad fdrvsilla. Dovette essergli, senz’altro, la primoge- nita, nascosta nel « complures liberos » di Suetonio; e perciò reputo che le fosse stato imposto il cognome paterno in diminutivo , nella stessa guisa con cui alla secondogenita fu dato il cognome Limila , 1) Dione, LV, 2. Cf. Val. Max. IV, 3, 3; Polyb. 34. Tacito, Hitt . V, 19; Seneca, Consolai, ad 2) Suetonio, Claud. I. Digitized by Google — 68 — tratto da Livia sua madre. Nè può arrecare ostacolo l’altra affer- mazione Suetoniana , di esser rimasti a Germanico tre soli figli superstiti; imperocché ciò non esclude punto che la nostra Clau- dia , dopo essersi maritata ed aver generato figliuoli , fosse per malattia venuta in fin di vita, breve tempo prima della morte del padre. Questo matrimonio pertanto è valevole a spiegare egregia- mente la ragione per cui Tacito appellò Quintilio Varo giuniore « Caesari propinqui is ». Lo Storico suole adoperare tale aggettivo nel senso di parente stretto, siccome vien dimostrato dal seguente passo: « Tiberina neptem Agrippinam Germanico ortam, cum co- ram Cn. Domitio tradidisset , in urbem celebrari nuptias iussit. In Domitio saper vetustatem generis propinqua» Caerorlbas iu- gaincm delegerat: nam is aviam Octaoiam, et per eam Augustum aounculum praeferebat » 1). Pervenuti a questo punto, trasanderemo, in omaggio alla brevità,»: tener parola degli altri personaggi notati nella tavola sotto i nu- meri 29-33, anche perchè sono conosciutissimi, nè vi è pel momento alcuna discussione da agitare intorno ad essi. E volgeremo con maggior consiglio 1’ attenzione sui discendenti del sullodato con- nubio. 34 — • qvinctilivspp. La stirpe dei Quintilii fu al certo pro- pagata da questo ignoto rampollo, essendone rimasta larga trac- cia in tempi posteriori. Però non più compariscono in essa l’infe- lice cognome Varus ed il prenome Publius , perchè forse furono abbandonati onde estinguere ogni memòria domestica della clade Germanica. Le famiglie Romane solevano ripudiare di comune consenso taluni prenomi, o cognomi che ricordavano opere dispia- cevoli dèi loro antenati 2). Due belle epigrafi ci danno notizia d'un sex QviNcraivs • sex F vale wvs màximvs, Senatore nell’850, nonché d'up suo figliuolo omonimo 3). E nel 904 fanno onorata mostra * due affettuosi germani sex -qvinctilivs-sex-f condian vs , e sex qvin- ctiltvs sex •F’Valerivs- maximvs , consoli ordinari. Finalmente he! 1) Tacito, Ann . IV, 75. S) C. I . L . Ili, n. 384; Donati, 5, 82»: 2) Suetonio, Tib . Caes . I. Digitized by v^oogie — 69 — 933 il figliuolo di quest’ ultimo , sex Qvinctilivs condì anvs ebbesi pure i fasci ordinarii assieme con Bru.zzio Presente ; ma fu questo l’ultimo onore della cadente famiglia, conciossiachè l’anno se- guente , quel bestiale tiranno che fu l'imperatore Comrnodo, tru- cidò i due primi; perseguitò l’ultimo resosi latitante, e certamente il ridusse a misera fine 1). Conflsconne quindi le grandi ricchez- ze , fra le quali nota la Storia una magnifica villa suburbana 2). E così rimase distrutta nel sangue e nei beni quest’ antichissima e potente famiglia : « domus praetcrea Quinctiliorum omnis ex- tincta » 3). 35 — qvinctilià PF. Costei è quel prezioso anello storico che con- giunse in vincolo di parentela non poche stirpi diverse della Roma imperiale; ma noi per non infarcire soverchiamente la nostra ta- vola genealogica, ne abbiamo memorate soltanto quattro, cioè la Plauzia , la Claudia , l’ Ottavia dei Cesari , e la Eloidia. Senza P intervento di questa Donna , che deve supporsi germana del Quintilio precedente, giacerebbero inintelligibili e senza spiegazione varii notevolissimi fatti storici ed epigrafici da noi in parte accenna- ti, e che saranno meglio esposti più oltre, essendo prima convene- vole censire i membri più interessanti nella famiglia degli Eloidii. 36— c-helvidivs priscvs. È il genitore del Protagonista che onora la presente Istoria. In principio del capitolo terzo abbiam riprodotta la bella epigrafe contenente il preambolo di una sua sentenza ar- bitrale sopra una quistione litigiosa di latifondi. Era egli senza dubbio di origine Sannitica, e lo dimostra Tacito in un passo, il quale sebbene abbia molto dato da pensare agl’interpreti, a causa delle varianti più o meno corrotte dei diversi codici, pure dal coa- cervo delle emendazioni adottate dai dotti critici recentissimi Madwig, Haase, e Nipperdey, parmi assai ragionevole che debba leggersi nel modo seguente 4): « Helvidius Priscus, regione Italiae Cara- cenae, municipio Cluoiis, patrem qui ordinem Primipili duxis- set » etc. La parte più settentrionale e montuosa degli Appennini 1) Dione, LXXII, 5, 6. 4) Tacito, Hist. IV, 5. Ediz. Nippbrdzy > 2) Idem, ibid. 13. Cf. la stia nota 15 a p. 126 (Borolini 1871). 3) Lampkidio, Commod. IV. A Digitized by t^OOQLe — 70 — abitata dai Sanniti, era appunto la regione Caracena 1), confinante coi Frentani, coi Peligni , coi Volsci, coi Sanniti Pentri, e forse anche coi Larinati. Colà quindi, e non altrove, come si è ingiusta- mente opinato, ricercar bisogna il sito, e la topografìa di Cluviae; ed a suo luogo lo dimostrerò chiaramente. Caio Eloidio dunque era un dabben veterano, il quale giunto al rispettabile grado di Pri- mopilo , ebbesi Yonesta missione , e ritiròssi, o in Patria , ovvero nel clima più dolce della vicina riviera Adriatica, come io ritengo molto probabile per gravi ragioni. 37 — helvidia c F- priscilla. Il nome, la paternità, ed il cognome accusati da questa Donna nella epigrafe Teatina, anche al terzo capitolo da noi riprodotta , sono pruove certissime della sua di- scendenza diretta dal precedente personaggio; e lo conferma il trovarsi già maritata prima dell’ 812, giusta la dimostrazione che ne abbiam fatta nel capitolo stesso. Il dì lei consorte M. Vezzio Marcello è da me riputato figlio di quel celebre éd eloquente Me- dico Vettius Valens, memorato da Plinio quale istitutore di una nuova scuola nella sua professione 2); uomo di ordine eque- stre, ed uno dei precipui adulteri di Messalina; ma colla morte ne pagò la pena nell’801 3). Conviene assolutamente attribuirgli il pre- nome M (arcas) taciuto dagli storici; resogli però manifesto da quel- lo dei suoi figli, ed anzitutto dal primogenito mvettivs-mfvalens, il quale, dopo avere occupate molte cariche militari, fu pRoc(ura- tor) Imp (eratoris) c\ES(aris) a \o(usti), ossia di Nerone, PROv(mctae) LvsiTAN(i'ae), e Patrono della colonia di Rimini nell'819 4). Pare che questa città fosse la culla di sua famiglia, attesoché un’altra epi- grafe Riminese commemora il di lui nipote M. Vettius M./. Va- lens, optimus ciois, e patronus coloniae, nonché- praefectus quin- quennalis dell’imperatore Traiano 5). Non credo però che sia pos- sibile assegnargli per terzo figlio quel m-vetttvs bolanvs console suffetto dopo il suicidio di Nerone nell’821, come nei fasti conso- lari inediti ha registrato il nostro Borghesi. Costui era di famiglia 1) Tolomeo, Geogr. Ili, 1; Zonara, Ann. S) Tacito, Ann. XI, 90, 31, 85. vil L 7. 4) Orelli-Henzen, n. 6767. 2) Plinio, H. 61. XXIX, 5, 8. 5) Grut., 1108, 5; Or-Henzen, 7070. A. Digitized by t^oogie — li — Senatoria, e probabilmente figlio di m vettivs niger, che fu pure console Buffetto di anno incerto, ma durante l’impero di Claudio, secondo la opinione del lodato Fastografo. 38 — c helvidivs c f priscvs. Ho accennato nel nono capitolo, che il monumento funebre di questo personaggio mostrasi per mate- ria e p.er forma assai simigliante all’altro di Plauzia Quintilia trova- togli vicino. La cimasa superiore sul cui piano sorgeva il di lui busto è rimasta perduta. E qui noto essere stato effettivamente costume Prenestino il sovrapporre ai cippi sepolcrali la effigie dei defunti 1). Ne ripeto intanto l' epigrafe secondo la mia copia , non sapen- do se riuscirammi superare alcuni ostacoli, per poterne offrire ai lettori un esatto disegno. 1) Nello scavo fatto dal Cecconi presso prima , e conservato in casa Cecconi ». Palestina trovoBsi *una base di marmo {Bull, deie Instit. Arch. 1866, p. 134). Cf. cole iscrittone : novieia.l.f , e con incavo Garrucci, Syll. n. 701. sopra per posarvi un busto già rinvenuto Digitized by ^jOoq le — 72 — La calligrafia di questa bella ed importante epigrafe è regola- rissima, bene incisa e distribuita, ad imitazione di quella dei tem- pi Augustei. I punti hanno forma di triangoli acutangoli, col ver- tice pendente in basso; e quello posto dopo la sigla F nel secondo rigo, incurvasi leggermente a foggia di virgola. Somma considerazione devesi alla tribù ARN(ertsts) accusata dal titolare, attesoché lo dimostra nato nella regione Frentana, i cui abitatori dopo la guerra Marsica furono censiti appunto in essa tribù. Guai però a chi volesse confonderlo col precedente C. El- vidio Prisco, che in marmo funebre non avrebbe potuto nè dovuto preterire le alte cariche militari di cui fu rivestito, nonché le somme magistrature municipali conferitegli certamente , secondo 1’ uso , nella sua patria ed altrove. E guai maggiori a chi ora osasse con- fonderlo col gran Filosofo ed Oratore , il quale , allorché fu as- sassinato pel delitto di essere uomo giusto , rivestiva il grado di vir praetorius ; ovvero col costui doppiamente sventurato figliuo- lo , vir consularis. Il nostro Caio non era che un semplice pri- vato , e perciò fu in facoltà di accusare la sola tribù , per dimo- strare di essere stato vir ingenuus , e nuli’ altro. È degno inoltre di nota speciale il trovarlo sepolto nella via Prenestina accanto alla tomba di Plauzia Quintilia. Ciò fa conoscere la di lui convi- venza col germano Publio, e l’epoca di sua morte, che dovett'es- sere posteriore all’anno 796 in cui, siccome abbiam congetturato, iniziossi l’affinità di coniugio della famiglia Elvidiacon quella dei Plauzii. 39 — P HELViDits c-F PRiscvs. La storia particolare del nostro Pro- tagonista è rimasta quasi sepolta ed arrenata frammezzo ad un gran numero di episodii di storia, di amministrazione, di dritto pubblico dei Romani, e di altre discussioni ancora più disparate. Non ha potuto perciò progredire più oltre dell’anno 809; ma adesso spero essere nel grado di farle dar qualche passo maggiore. Tra- sanderò quindi il parlare degl’individui censiti ai numeri seguenti 40-46, dovendosene tener ragione nel seguito. E volgerò la mente all’ analisi storico-filologica della classica epigrafe di Plauzia , ri- prodotta correttamente a p. 33. Digitized by ^jOoq Le — 73 - Plautia Quinctilia Auli Alia, Publii Helvidi Prisci. Sono que- ste le sette semplicissime, ma eloquenti parole, che il nostro El- vidio volle scolpite sul funebre monumento della diletta consorte. Esse mostrarono ai contemporanei , e per fortuna ripetono a noi posteri , l'avvenuta cognazione fra due illustri e potenti famiglie del vecchio Lazio con un nuovo arrivato dalle montagne Sanniti- che, ma su cui risplendeva tal raggio di virtù e d’intelligenza, da emulare i più grandi cittadini che onorarono la Patria. E giovi ripeterlo: altre famiglie di Auli Plausii senatorie, o di ordine equestre, e contemporanee di Elvidio, non appariscono nè sui mo- numenti, nè sulle pagine della storia. Occorrono bensì nuovi do- cumenti epigrafici che confermano la testimonianza della lapide Prenestina; fra i quali è degno di molta considerazione la seguente base tuttora esistente in Ferentino 1): A Q VINCTILIO A • F • PAL • PRISCO IIII • VIR • AED • POT • IIII VIR I D • IIII • VIR • QVINQ • ADLEC EX S C- PONTIFICI PRAEF F AB PATRONO • MVNIC P • D • D Non cade dubbio che il Personaggio qui onorato aveva una ori- gine servile , siccome lo dichiara la nobiltà del gentilizio, conso- ciata colla tribù Palatina , ch'era una delle quattro Urbane repu- tate inferiori, e proprie della classe libertina. Il padre suo per conseguenza, dopo la manomissione, dovette secondo l'uso appel- larsi: « Aulus Quinctilius Auli libertus Priscusj ma dato il caso che fosse stato servo di una Quinctilia , e da costei avesse rice- vuto il bene della libertà, è chiaro che avrebbe dovuto qualificarsi o e- - , cioè Quinctiliae libertus. Ora, chi può sconoscere che il pre- nome Aulus , proprio dei Plauzii, ed il cognome Priscus, distintivo 1) C. 1. L. X, n. 5852. Cf. il n. 5853. 10 Digitized by ^OOQ Le — 74 — degli Elvidii , non potrebbero stare per mero caso qui congiunti colla famiglia Quinctilia che non.usolli giammai ? Non è forse pro- babile, e, per chi ben si addentra nel fatto, evidente che la ma- dre di Plauzia Quintilia, nel manomettere questo servo, volle con affettuoso pensiero imporgli il prenome del marito, ed il cognome del genero ? Si rammenti l’esempio calzante di T. Pomponio Atti- co, il quale, allorché manomise il suo fede} servo Eutyches, gli impose il prenome M (arcus), per testimonianza di affetto a Cice- rone 1), e nominollo quindi m pomponivs m l diontsivs 1). Facciamoci adesso a discutere la frase strana e senza esempio che leggesi nelle due ultime righe del marmo funebre di Quintilia : •et phelvidi priscI. Dovrà certamente la posterità benedire, assie- me con me , quella mente nobile e pietosa che fece incidere sul monumento tali brevi parole, equivalenti ad una lunga e preziosissi- ma pagina di storia. Imperocché le medesime non sono che un’ag- giunta fatta in epoca ben posteriore, e da scarpello diverso. Oltre della interpunzione assai rozza ed esuberante che vi si scorge, è rimarchevole la forma delle due P mostranti le curve chiuse e con- giunte inferiormente colle aste verticali, mentre nelle righe supe- riori esse veggonsi aperte e staccate, conforme all’uso più antico. Ed esaminandosi tutte le lettere , è chiarissima non solo la calli- grafìa diversa, ma lo essere state aggiunte quando il marmo era già in posto , cioè nella posizione verticale. Non potè infatti il nuovo lapicida serbare un giusto parallelismo colle righe superio- ri, attesa la posizione incomoda in cui ebbe a lavorare; e perciò tanto 1’ et del penultimo rigo , quanto l’ultimo intero, divergono manifestamente dal basso in alto 2). In ordine poi al significato, ho già nelle pagine superiori espressa, e ripetuta la mia interpretazione, nel senso, che vi si deve assoluta- mente sottintendere il dativo matri. La formola è nuova solo per la posizione in cui giace; e fu possibile soggiungerla senza produrre e- quivoco, in grazia del caso tutto speciale, che i nomi del figlio erano 1) Cicerone, Epist. ad Att., IV, 15, 1. ma senza spiegarlo: « et P . Helvidi Pri- 2) Anche FHObnrr ha avvertito il fatto, sci vocabulaposteain lapide addita ». I. c. Digitized by ^jOoq le — 75 - perfettamente simili a quelli del padre; perchè altrimenti il marmo avrebbe dichiarato che Quintilia fu coniuge di due individui diversi. La singolarità della frase potrebbe richiamare in confronto il passo dell’anonimo Autore del libro de Oratoribus : Sic Corneliam Grac- chorum , sic Aureliam Caesaris , sic Atiam Augusti [ matrem ] praefuisse educationibus , ac produxisse principes liberos acce- pimus » 1); ove il Nipperdey annota: « matrem delevit Sauppius ». Questo per la parte filologica. Ma in quanto alla parte storica , il valore dell’aggiunta in discussione è veramente inestimabile. Ognuno vorrà agevolmente riconoscere come la medesima non ad altro scopo fu inserita in quel monumento, che per vie meglio ono- rare la defunta , memorandone la prole illustre. Verso la fine del quarto capitolo ho citato due esempi analoghi, e ad essi piacemi soggiungere quest’altro della stessa epoca 2) : AGRIPPINAE M • AORIPPAE P DRVSI -CAESAR- MATRI [ C • Asini ■ Galli ] [ Uxori ] D • D i Ora, è fatto storico inoppugnabile, che in tutta la stirpe diretta degli Eloidii Prisci due soli individui elevaronsi in Roma ad al- tissimo grado di considerazione morale e politica : il Filosofo , e l’unico suo figliuolo, il quale <• metu temporum nomen lagena pa- reaqaé virtutes secessu tegebat » 3). Chi non vede dunque quanto fu bene ideata la menzione di quest’ultimo, nel marmo funebre 1) Auctor « de Oratoribus » XXVIII. 2) C. /. L. V, n. 6359. Il Borghesi ben co- nobbe come nelle due penultime righe cancellate ad arte in questo marmo do- vea essere inciso il nome di C. Asinio Gallo marito di questa Agrippina, ed in- viso a Tiberio imperatore, che lo costrin- se a morte volontaria nel 786 (Taci to.Ann. VI, 23; Borghesi , III, p. 200-201). Il Mom- msen poscia confermò de visu, che nello spazio abraso potevano esattamente en- trare le parole: c.asini.galli||vxori. 3) Plinio, Epist. IX, 13, 2. i Digitized by ^jOoq le — 76 — contenente i nomi della madre e del genitore ? Non trasparisce forse in quella frase imperfetta, e quasi sibillina, una inserzione eseguita di contrabbando, ed a dispetto dello scellerato Domiziano, il quale abolì ogni memoria degli Elvidii nei monumenti pubblici; ma dovè sènza dubbio rispettare la santità di una tomba? Eleviamoci ad altre considerazioni. Nessuno Scrittore, nessuna epigrafe conosciuta porgono indizio che fra la gente Plausia , e le stirpi dei Giulii, dei Claudii, e dei Domizii vi sia stato vincolo di stretta o larga parentela: come va dunque che, per testimonianza di Suetonio , il giovinetto Aulo Plauzio era in grado di far con- correnza legittima a Nerone nella potestà imperiale, e perciò ebbe a perdere la vita? Il durissimo nodo storico viene sciolto unica- mente dalla nostra epigrafe Prenestina. Essa, consociando in in- timo vincolo il nome degli Aulì Plauzii con quello dei Quintini, dimostra a luce meridiana, come la cercata parentela ebbe origine dal ramo materno , cioè da una Quinctilia nata da P. Quintino Varo giuniore, coniugato con Claudia pronipote di Augusto, giu- sta il narrato di Seneca da noi sopra riferito. Aulo Plauzio quindi e Nerone potevano legalmente contendersi il dritto ereditario al- l’impero , imperocché essendo fra loro cugini in secondo grado , Cesare Augusto era avunculus maximus ad entrambi , come ve- desi nella soprascritta tavola, e meglio apparisce dal seguente stemma: OCTAVIA (Soror Augusti) ANTONIA (minor) GLAYDIA GERMANICVS DRVSILLA CAESAR i I QVINCTILIA AGRIPPINA A • PLAVTIVS NERO Digitized by ^jOoq le — 77 Fu la truce Agrippina quella che nell'807 incominciò a sbaraz- zare il figlio dai competitori del trono , facendo uccidere il mite ed innocuo Giunio Silano abnepote di Augusto, e soprannomato da Caligola: pecora di oro 1). E Nerone seguì il materno esempio, prima su Britannico, « stupro prius quam veneno pollutus » 2); e più tardi su di A. Plauzio, colla medesima infame premessa. Ma non potè certamente aver l’ardire di toccare quest’ ultimo prima della mòrte del Padre, la quale dovè accadere a mio giudizio nel- l’810, pochi mesi dopo che ebbe giudicata innocente dall’accusa di falsa religione la sua seconda moglie Pomponia Grecina 3). Un terzo competitore, assai pericoloso pel soglio di Nerone, era Ru- bellio Plauto anche abnepote di Augusto; ma egli prudentemente se ne vivea ritiratissimo in Tibur, nè pose piede in Roma, tantoché 10 stesso Neròne neppur conoscevalo di vista 4). Eppure fu, dappri- ma con buone maniere esiliato in Asia, e poscia trucidato nell’815. 11 quale misero fine toccò pure a Cornelio Sulla, sol perchè era marito di Antonia, figlia dell’imperatore Claudio 5). Rammentati questi fatti, sorgono ad esaltare la storia degli El- vidii due gravi conseguenze che nessuno, senza il soccorso della la- pide Prenestina, avrebbe potuto immaginare : 1. » Plauzi a Quintili a era consanguinea di tutti gl' imperatori; cioè: adnepote di Augusto, abnepote di Tiberio, pronipote di Claudio, ni- pote di Caligola, e finalmente cugina in secondo grado di Nerone; 2. a P. Elvidio Prisco di lei figliuolo , essendo trinepos di Au- gusto, avea dritto ereditario di ascendere al trono dopo la morte di Nerone , preceduta da quella degli altri suoi prossimi parenti or memorati. Tali vincoli di sangue spiegano il motivo che indusse Nerone ad usar clemenza con Elvidio padre, cui, contro ogni aspettazio- ne, comminò il semplice esilio nell’819, come a suo luogo dovre- mo narrare. E spiegano ancora il movente della ostinata opposi- l) Tacito, Ann. XIII, l. 4) Dione, LXII, 14. *) Idem, ibid., 17. 5) Tacito, Ann. XIV, 57-59. 3) Idem, ibid., 32. Digitized by v^oogie — 78 — zione che Elvidio stesso fece agli usurpatori dell’ impero Vitellio e Vespasiano, non certamente per sete di dominio, ma per potere all’occasione, col mezzo del flgliuol suo, ridonare al popolo Romano l’antica libertà. Qual fortuna sarebbe stata per l’Italia ! Scaricati ora dal fardello di queste lunghe ma importantissime discussioni, proseguiremo la storia del nostro Protagonista nar- randone il secondo connubio. Esso, come abbiamo più volte ac- cennato, ebbe luogo con Clodia Fannia, figlia unica di Trasea Peto, della Virtù, personificata. « Quaestorius adhuc a Peto Thra- sea gener delectus , e moribus soceri nihil aeque ac libertatem hausit » 1). L'epoca precisa però nella quale avvenne, rimane an- che incerta; non ben conoscendosi in qual senso abbia Tacito qui adoperato il vocabolo quaestorius. A stretto rigor di termine, El- vidio poteva esser chiamato oir quaestorius, dall’801 fino ai 9 De- cembre dell’808, dopo cui la sua giusta qualifica era quella di vir tribunicius. Ma i Romani solevano pur dare un significato più largo al primo vocabolo, considerando come uomo questorio an- che chi aveva espletato l’ufficio di tribuno della plebe , il quale non riputavasi vera magistratura , attesoché non dava dritto all’ uso della pretesta ed all’accompagnamento dei littori 2). E lo stesso Tacito porge esempio di quest'ampia significazione, nel seguente passo : « invenit aemulos etiam infelix nequitia : quid si fioreat vigeatque, et quem adhuc quaestaritfm offendere non audemus , praetorium et eonsularem visuri sumus ? » 3). Noi pertanto Ci trarremo d’imbarazzo col riputare che il medesimo fu nuovamente sposo, o verso la fine dell’808, appena reduce dalla legazione di Si- ria, ovvero non molto dopo. Qual tipo di Donna poi fosse Clodia Fannia , avremo occasione di narrarlo in luogo più opportuno. Se il nostro Elvidio, dopo il tribunato della plebe, avesse volu- to regolarmente continuare la carriera politica , avrebbe potuto presentarsi candidato alla pretura nell’811, e risultandogli favore- vole il voto dei Senatori, prendere possesso della carica alle none f 1) Tacito, Hist. IV, 5. 3) Tacito, Hist. IV, 42. 2) Plutarco, Quaest. Rom. LXXXI. Digitized by ^jOoq Le — 79 — di Decembre dell'anno medesimo. Ma egli, alma sdegnosa, stoma- cato dalle nequizie di Nerone, e dei fetidi satelliti che lo corteg- giavano, preferì ritirarsi a vita privata, anche per savio consiglio dell’ amoroso suocero, il quale ben vedeva come sotto il governo di quel mostro coronato, tutto eravi da temere, ma nulla da spe- rare per Tuomo onesto. Chiese quindi, ed ottenne il libero com- miato, e colla sua Fannia stabili residenza in qualche predio su- burbano di famiglia. II Giureconsulto Paolo c’insegna l'essenza, e i dritti di questo commiato: « Senatores qui liberum eommea- tum, id est , ubi velint, morandi arbitrium impetraoerunt , do- mici/ ium in Urbe retinent » 1). Ed era uso frequente presso i Se- natori di allontanarsi da Roma o per prudenza, o per timore , o per altri motivi particolari. Cosi fece Vespasiano, per la gran.paura di Agrippina che lo invase nell’ 807, dopo la uccisione di Claudio e di Narcisso 2); e cosi pure, fra gli altri, Plinio il giovinè prudente- mente volle trarsi in disparte, nei truci tempi di Domiziano 3). Egli è certo che il nefasto collega di Elvidio nel tribunato, An- tistio Sosiano , giunse ad elevarsi al grado di Pretore nell’815 4); ma non prima, probabilmante perchè nei comizii ebbe il disdoro di replicate ripulse. È certo inoltre che lo stesso Elvidio non era in Senato nell'Aprile dell'812, allorché vi fu letto il messaggio di Nerone, che stoltamente cercava purgarsi dal crimine di matrici- dio; imperocché racconta Tacito come il solo Trasea Peto, lungi dall' associarsi al plaudente servilismo dei senatori , abbandonò sdegnosamente l’assemblea, non curando il pericolo 5). Avrebbe forse il suo genero potuto quivi rimanersene impassibile? È chiaro quindi come l’ uomo insigne ritirossi a volontario esi- lio , sospirando giorni migliori per la sua Patria. E festeggiava , 1) Paolo, Digest. L, 1, 22, § 6. 2) SuBTONio,Vespas.IV: « medium tempus ad proconsulatum usque, in otio secessu- que egit , Agrippinam timens potentem adhuc apudjllium, et defuncti quoque Nar- cissi amicos perosam ». 3) Plinio, Paneg., XCV, 4) Tacito, Ann. XIV, 48. 5) Idem, ibid. XIV, 12: « Thrasea Paetus , silentio nel breoi adsensu priores adula - tiones transmittere solitus , exiit tum se- nato, ac sibi causam periculi fecit , ceteris libertatis initium non praebuit ». Cf. Dio- ne, LXI, 15, 20. Digitized by Google — 80 — coll’ amato suocero , gli anniversari natalizi del fondatore , e dei grandi difensori dell’onesta libertà, bevendo, incoronato di fiori, il soavissimo vino dei colli Albani, ond’ebbe a cantar Giovenale (Satir. V, vs. 36-37) : « Quale coronati Thrasea Heloidiasque bibebant Brutorum et Cassi natalibus ». Una nota dello Scoliaste a questi versi è degna di molta con- siderazione. Dice egli, parlando di Elvidio: « hic postea Vespasia- num ita studio libertatis offenditi ut putaret , id optante aran- ciaio Claudio, pristinum libertatis statum posse reoocari : quo nomine reus, ac praeter spem absolatus est ». Qui il valentuomo, mentre dimostra aver bevuto ad ottime fonti, viene chiaramente, e more solito (cf. Voi. XI, pag. 136 e 142), a confondere Elvidio col figliuolo omonimo, sebbene nessun critico moderno abbia ciò so- spettato. Ma son preziosissime le parole « id optante avunculo Claudio » ; le quali dànno la chiave del problema ; imperocché lettamente Elvidio giuniore poteva appellare aounculus Trasea Peto , non ostante che Fannia gli fosse semplice matrigna. Ed ecco come era già storicamente manifesto il gentilizio di Trasea, sai prima che fossero discoverti i libelli di Pompei. Congiuravasi dunque silenziosamente nella dimora di Elvidio, contro il funesto e lubrico dispotismo predominante; e speravasi potere un giorno, col giovine rampollo nelle cui vene scorreva an- che il sangue di quel Druso Germanico cultore di libertà, richia- mare la Patria all’antica libera grandezza, senza disordini di ri- voluzione, od offesa ai dritti di alcuno. Ma se circostanze avverse, e più di tutto la diffusa popolare corruttela , distrussero questo sublime disegno , e lasciarono la cosa pubblica in preda ad av- venturieri , ed a soldati , non è men vero che il nostro grande Protagonista , col mezzo del suo degno figliuolo , teneva a quei tempi in pugno i destini del Mondo. Erraia>eorrlge. Pag. 141, Un. 24; |AETp Tocùpw jxexfi rifa fiXXigs TxaX(a$ Sicixeiv ’eitt zpètya$. xóv xs yàp Aypfevav ’es xijv lupiav ’ecxfiXxét, xaì tcJ> Mancava Sià x^v Yuvatxa oi>x£&’ óptoùo; è^cjp^os. (Dione, LIV , 19). Qui dunque vedesi Augusto usar novellamente il dritto conferitogli dalla legge organica del 727, di assegnare la prefettura durante la sua assenza da Roma, ad un cittadino di sua fiducia, come era Statilio Tauro. E chi può essere tanto cieco da non vedere come sarebbe stata su- perflua oziosa e senza significato, nel soprascritto passo dello storico, la menzione di Mecenate e di Agrippa, se anche costoro non avessero sostenuta la medesima carica prefettizia ? # Procediamo ora ad esaminare l’epoca della prefettura di L. Pisone. Per il ritor- no di Augusto in Roma, avvenuto nel 744 (Dione LIY, 36) scadde di dritto la ma- gistratura di Tauro, nè sopravvenne durante molti anni alcuna occasione per essere con- ferita ad altri. Imperocché Augusto, affranto dalle fatiche, disanimato dagl’incomodi della vecchiaia sopravveniente, non più si mosse da Roma; e se qualche volta gli fu d’uopo dipartirsene, non uscì mai dal confine d’Italia, come nel 746, e nel 76i (Dione, LV, 6; 7; 34) ; e come ancora nel 767 , in cui essendosi recato nella Campania vi trovò tetra, ad aspettarlo, la morte. Nè il suo mostruoso successore Tiberio ebbe vaghezza di gire ulteriormente a fiaccarsi il collo nelle guerre esteriori, allorché videsi padrone dell’impero. Non avea quindi bisogno di Prefetti, lui che sapeva ben tenere a segno la misera Roma e l’Italia. Ma d’altra banda vi è certezza storica che, durante il suo dominio, vennero creati per lo meno quattro Praefecti Urbis , il primo dei quali fu, come afferma Tacito, L. Calpurnio Pisone Frugi. Senonchè la necessità di conoscersi con precisione in quale anno costui assunse la nuova carica, fece da gran tempo sor- gere presso i più insigni Letterati una lunga e complicata quistione, che può leggersi in riassunto presso il Corsini , alia pagina 3i e seguenti. Il Borghesi da ultimo riassunse nuovamente la controversia, e stabilì che L. Pisone salì alla prefettura Ur- bana, o al principio del 770, ovvero alla fine del 769, mentre Tiberio dimorava re- golarmente in Roma (Borgh. V , p. 87). Ma nella sua monografìa dei « Praefecti Urbis Romae », non ne disse più verbo, e limitossi soltanto a trascrivere i passi clas- sici di Suetonio, di Plinio, di Velleio Patercolo, e di Tacito, che commemorano l’even- to (Borgh. IX, p. 257-58). Ed il suo Scoliaste Francese quivi osservò che il Fasto- grafo , avendo in diversi luoghi riconosciuto come in origine la prefettura Urbana non era magistratura ordinaria , ma solo una specie di reggenza esercitata durante l’assenza dell’imperatore, non determinò in maniera precisa l’epoca nella quale que- Digitized by Google — 89 — sta magistratura diventò carica permanente. Ciò non ostante soggiunse, è formale il testo di Tacito relativo alla prefettura di Pisone; ed è certo che essa carica era già permanente, recens, continua nel 785, allorché Pisone ne avea l’esercizio. Conchiuse quindi, che sotto il Regno di Tiberio la prefettura Urbana ricevè quella forma definitiva che dovea serbare durante l’alto impero; e che Pisone fu veramente il primo prefetto di Roma, nel senso che questo titolo conservò in tempi posteriori ( ap . Borgh. IX, P« 258-259). Tale definizione era stata formulata ancora dal Mommsen ( Ròmisches Staatsrecht, tom . < II, 2, p. 1014, nota 2.*). Ma nè il Borghesi, nè lo Scoliaste sonosi ricordati in questo luogo del passo trionfale di Seneca giustamente invocato dal Cor- sini : € Lucius Piso Urbis custos... officium suum quo tutela Urbis continebatur, dili- gentissime administmvit. Huic et divus Angus tus dedit secreta mandata quum illum praeponeret Thraciae , quam perdomuit ; et Tiberius proficiscens in Campaniam Praefectnram Urbis dedit, cum multa in Urbe et suspecta relinqueret, et invisa » (Seneca, Epist. ad Ludi. XII, 84). Ora io mi meraviglio altamente nel vedere un Borghesi, prima ricorrere ad argomenti cavillosi e vani per menomare il valore di questo classico passaggio (Bórgh. V, p. 85), e poscia nasconderlo totalmente. Eppure esso sovrasta a tutti per la precisione del racconto, nonché per la contemporaneità e per la somma dottrina dello Scrittore. Tutti gli argomenti avversi, in ultima analisi, non poggiano sopra altro fondamento, che sopra un passo ambiguo di Suetonio, o per dir meglio, sopra un avverbio: « confestim ». Narra il Biografo, come Tiberio « in ipsa publicorum morum correctione, cum Pomponio Fiacco et L. Pisone noctem continuum - que biduum epu landò potandoque consumpsit , quorum alteri Syriam , alteri Praefectu- ram Urbis confestim detulit » (Suetonio, Tiberius , XLII). Dal che si è preteso poter dedurre essersi da Tiberio durante la sua permanenza in Poma concessa a Pisone la Prefettura. Ma i Lessicografi hanno da lungo tempo notato che l’avverbio confestim con- tiene due significazioni distinte: i. a senza dimora, senza dilazione; 2.* tosto, presto, da qui a poco, mox (cf. De Yit, Lexicon, s. v. Mox, § 2). Ed è chiaro come questi ultimi vo- caboli esprimono una latitudine di tempo indeterminato, ma sempre maggiore; e fra i molti esempii che lo dimostrano prescelgo il passo di Tacito: € Laudata {Livia) est prò rostris a C. Caesare, qui mox rerum potitus est » (Tacito, Ann. V , 1) ; dove il mox significa otto anni dopo , perciocché Caligola salì all’impero nel 790. Abbiasi dunque per indubitato che l’imperatore Tiberio, solo allorquando disegnò di abbandonar Roma definitivamente, cioè nel 779, facendo uso del dritto che con- ferivagli la costituzione del 727 , rivestì L, Pisone della prefettura di Roma , dove ben conosceva covarsi il malcontento e la congiura. Costui venne a morte nel 785, avendo amministrato la carica per sei anni continui ; ed è quindi giustificata l’espres- sione di Tacito: « recens continua potestas » (Ann. YI, ii); non potendosi appellare recente una carica ricevuta quindici o venti anni indietro, come affermano i critici 12 Digitized by ^.oogie — 90 — prenominati. Trovo infine ragionevole ed acuta la congettura del Corsini, che l’erro- neo € viginti per annos » esistente in tutt’i codici di Tacito abbia avuto origine dalla cifra VI , che lo scriba scambiò per principio della parola viginti ( Corsini , S. P. U. p. 33-34 ). Ed io credo ancor più verisimile questa opinione , supponendo che nel codice di Tacito fosse scritto non già VI, ma VI PER ANNOS, e che per- ciò l’ignorante copista avesse creduto nascondersi in quella cifra un'abbreviazione di VIGINTI. Niuno d’ altronde sconosce quanto sian frequenti le parole abbreviate , e contrassegnate superiormente con una virgula , negli antichi manoscritti. Estinto Pisone, affrettossi Tiberio a nominare, per editto, il nuovo prefetto, nella persona del vecchio consolare L. Elio Lamia ; ma questi non potè esercitar la ca- rica , che per lo spazio di un anno e pochi mesi , attesoché subì l’ estremo fato sul finire del 786 : « Extremo anni more Aulii Lamiae funere censorio celebrata , qui administrando Suriae imagine tandem exsolutus , Urbi praefuerat » (Tacito, j \Ann. VI, 27). Successore di Lamia nella Prefettura, fu, come tutti convengono, Cneo Cornelio Lentulo Cosso , che tenne il consolato ordinario nel 778. E lo afferma Seneca scriven- do: « Puto quod illi ( Tiberio ) bene c esser at Pisonis ebrietas , postea Cossum fedi Ur- bis praefectum , virum gravem , moderatum, sed mersum vino et madentem » (Sene- ca, Epist LXXXIII, 13). Il Borghesi pertanto ha bene e sagacemente dimostrato che questo terzo prefetto Tiberiano ebbe anch’egli corta durata, imperocché Flavio Giu- seppe narra come, circa la metà del 789, il cocchiere del celebre Agrippa, che fu poscia re dei Giudei , essendo stato catturato , fu condotto alla presenza di Pisone , custode della Città (o? $uXa5 uoX s(o$), cioè, come spiegano Velleio, Seneca, ed altri, praefectus Urbis ; ed a lui rivelò i segreti ragionamenti tenuti dal suo padrone con Caligola (Fl. Ios. A. L XVIII, 6, § 5). E dopo avere lo stesso Borghesi giustamente re- darguito il Lipsio e tutti gli altri costui seguaci, compreso il Corsini, i quali audacemente accusarono il grande istorico Ebreo di aver fatto sopravvivere un Pisone che morì nel 785, sentenziò che il Pisone memorato da Flavio altro non fu che L. Calpurnio Pisone console nel 780, figlio di quello scellerato Pisone Preside della Siria che ca- gionò la morte di Germanico (Borghesi, III, p. 324-25; IX, p. 260-61). Costui dun- que fu il quarto ed ultimo Prefetto creato da Tiberio , il quale precipitò a Caronte il dì 16 Marzo 790; e poco dopo, soggiunge Flavio, Caligola che trova vasi presso il defunto spedì lettere al Senato ed a Pisone Prefetto, annunciando loro il decesso di Tiberio e la sua ascensione al trono (Fl. Ios. A. L XVIII, 6, § 10). Questo fatto, io soggiungo, dovè portar seco necessariamente l’abdicazione della prefettura per parte di L. Pisone; e non convengo col Borghesi che il medesimo fosse stato esonerato da Caligola , il quale lo aveva in sospetto. Reputo piuttosto essere lo stesso Pisone ri- masto in condizione privata fino al 792, in cui potè sorteggiare il suo proconsolato, Digitized by ^jOoq le è — 91 — e girsene in Affrica» essendo decorso il dodicennio d'intervallo fra il consolato e la provincia richiesto dalla legge. Dione afferma, che solo allorché costui era in Affri- ca, non già prima, venne in sospetto a Caligola; e però gli fu tolto il comando delle legioni, e lasciatagli solamente l’ amministrazione civile della Provincia medesima (Dione, LIX, 20). Lo stesso è confermato da Tacito ( Hist . IV, 48). Adesso sopravviene un’ altra seria e difficile quistione. Racconta il medesimo Dione, come Caligola, essendo stato eletto console ordinario nel principio del 792, sostenne tal magistratura soli trenta giorni, ed ebbe per successore Sanquinio Mas- fimo Prefetto della Città. Il testo greco di quest’ultimo inciso è: xai ctùtòv Ma£ipc{ icoXiapxcoi' SteSeSaxo (Dio'ne, LEX, 13); e gl’interpetri Xilandro e Leuncla - vio han tradotto: successorem habuit Sanquinium Maximum, tum praefectum Urbis . Si domanda perciò: era già Sanquinio in possesso della prefettura allorquando sostituì Caligola nel consolato, ovvero lo Storico parla genericamente, e solo per far cono- scere come il nuovo console suflfetto fosse la stessa persona che poco dopo pervenne alla prefettura Urbana ? Tutti, compresi il Corsini ed il Borghesi, sostengono la prima sentenza, dalla quale risulterebbe che il Praefectus Urbis funzionava anche durante la dimora dell’imperatore in Roma (Corsini, 0. cit. p. 38-39; Borghesi, IX, p. 262). U mio parere, per converso, è che Caligola non modificò affatto la Costituzione Au- gustea in questa parte; ma che fu in grado di conferire legalmente la Prefettura a Sanquinio, solo allorquando abbandonò Roma, cioè circa l’autunno dell’istesso anno 792. Fu difatti in tal’epoca che egli, sotto pretesto di muover guerra ai Germani, si tra- sferì nelle Gallie a far bottino; ed in seguito oltrepassato di poco il Reno, aflfrettossi a retrocedere, per accamparsi coll’esercito sulla riva dell’ Oceano presso la Manica, quasiché volesse animosamente, al pari di Giulio Cesare, invadere la Britannia. Volendo dopo ciò tornarsene a Roma, gli fu decretato il trionfo, che celebrò nell’anno seguente 793 (Dione, LIX, 21-25). Ed allora dovè cessare ipso facto la prefettura di Sanquinio; il quale rimasto in condizione privata, ma sempre benviso, fu poscia spedito Legato propraetore nella inferiore Germania, ove sul finire del 799 lasciò la vita (Tacito, Ann. XI, 18). Consolidati questi precedenti, fa d’uopo accingerci a dimostrare da novella tesi storica da noi superiormente annunziata. Scrisse il Borghesi che L. Volusio Satur- nino, console Buffetto nel 756, fu il successore immediato di Sanquinio dopo morto Caligola: « Riflettendo che non si ha notizia di alcun nuovo prefetto sotto V impero di Claudio ; che Volusio Saturnino morì nelVSOd in età di 93 anni occupando an- cora la prefettura; e che non è verosimile che questa carica gli fosse data nella sua estrema decrepitezza , ho creduto che V abbia ricevuta molto prima, succedendo a San- quinio circa il 795, e che la prolungazione non ordinaria della sua vita abbia pro- dotto che lungamente la conservasse » (Borghesi , in, p. 326-27; IX, p. 263). Ma a Digitized by ^jOoq le — 92 - questo ragionamento oppone valida barriera un passo di Suetonio da tutti dimentica- to. Narra il Biografo, come L. Vitellio « cum Claudio principe duos insuper ordina” rios consulatus censuramque gessiti Curam quoque imperii sustinuit, absente eo expeditione Britannica » (Suetonio, Vitellius , II). E lo conferma egregiamente Dio- ne, raccontando che Aulo Plauzio , dopo avere sconfitto ed ucciso il re Togodumno , e stabilite le romane legioni sulle rive del Tamigi, non volle arrischiarsi a proceder oltre; anzi avendo osservato che i Britanni senza perder coraggio preparavansi acre- mente a mosse offensive, riferì tutto a Gaudio, sollecitandolo a trasferirsi personal- mente sul teatro della guerra. ’EX&guoyjs 5è xyfc ’oqftsXias , ò KXauo/o; xà piv otxot xto OùtTeXXtw Tip cuvdpxovxt zi Te àXXa xat tgì>$ oxpaxuóxa^ ’evexsfptoe, (xal yàp toou aùxòv sauxJ) éSapwjvov (aie) £Xov ùxaxeucai ’ercaigoev) aùrè? 8è ’ÉgéoxpaxEÓffocxo* xai xaraTcXeóoa? ’e; xà "Aorta, x. x. X. (Dione, LX, 21). Ora, dietro l’esposizione di questi notevoli fatti, ognuno è in facoltà di comprendere, che sarebbe spettato di pieno dritto al Praefectus Urbis, suppostane la esistenza continuata, quell’ufficio straordina- rio ed amplissimo di cui fu rivestito L. Vitellio alla partenza di Gaudio. 0 che forse la cura di Roma ed il comando supremo delle coorti Urbane, ed anche quello delle altre milizie di guarnigione non appartenevano più al prefetto Urbano? L’undecimo libro degli Annali di Tacito, che avrebbe potuto con maggior chiarezza e precisione istruirci su questo punto, è monco ed acefalo: ma non per questo debbonsi lasciare inesplicate le gravi parole di Dione e di Suetonio , alle quali porge ancora qualche lume un passo di Velleio Patercolo ( Hist . Il, 127), ove il prefetto Urbano T. Sta- tino Tauro viene qualificato: Adiutor imperii. Grande ingiustizia dunque, credo, sa- rebbe il negare a L. Vitellio la prefettura della Gttà durante F assenza dell’ impe- ratore nel 796-97 , anche riflettendosi come la costituzione dello Stato non offriva altro titolo Ufficiale, che quello di Praefectus Urbi , per governare e riscuotere ob- bedienza in circostanze consimili. Ma io corro ancora più oltre. Considerando il carattere di Gaudio smemorato , debole , e nel tempo stesso paurosissimo e sospettoso , ho ragion di credere che per sua richiesta venne dal Senato modificata la costituzione Augustea , e resa continua e vitalizia l’Urbana prefettura, secondo l’antica proposta di Mecenate. Non possedeva egli il vigore intellettivo, l’orgoglio, l’autorità di un Augusto, d* un Tiberio, o di un Caligola, onde sostenere da per sé solo il freno della Città, con tutte le innumerevoli e fastidiose cure che vi erano connesse ; e perciò oragli sommamente necessario un aiuto quotidiano, fedele, e senza molti scrupoli, reperibile appunto nella persona di L. Vitellio. Costui dunque, o non depose affatto la prefettura al ritorno di Claudio nel 797 , ovvero la riprese poco dopo , per sostenerla fino al termine di vita . Io de- sumo queste gravi conclusioni, in primo luogo coll’ analizzare un fatto riferito da Ta- cito, e confermato da Dione. Correndo F anno secolare 800 di Roma , la turpissima Digitized by Google — 93 — Messalina avida dei magnifici giardini Luculliani posseduti, e splendidamente abbel- liti da Valerio Asiatico , e mortale nemica inoltre di Poppea Sabina , escogitò la ro- vina di ambedue col farli ingiustamente accusare presso l’Imperatore. « Nam Vale - rium Asiaticum , bis consulem , fuisse quondam adulterum eius (Sabinae) credidit ; pa - riterque hortis inhians , quos ille a Lucullo coeptos insigni magni ficmtia extollebat, Suillium accusandis utrisque immittit Adiungitur Sosibius , Britannici educator , qui per per speciem benivolentiae moneret Claudium cavere vim atque opes principibus infensas . Praecipuum auctorem Asiaticum interficiendi C. Caesaris non extimuisse contionem populi Romani ; fatevi gloriamque facinoris nitro petere . Clarum ex eo in Urbe , didita per provincias fama , parare iter ad Germanicos exercitus , quando ge- niti is Viennae multisque et validis propinquitatibus subnixus, turbare gentiles natio - nes promptum haberet . At Claudius , nihil ultra scrutatile, citis cum militibus tam - quam opprimendo bello , Crispinum praetorii praefectum misit; a quo repertus est apud Baias , vinclisque inditis in Urbem raptus . Neque data senatus copia: intra cu- biculum auditur , Messalina e cor am , etf £ui7fro corruptione militum , pecunia et stupro in omne flagitium obstrictos arguebat , ean’n adulterium Poppaeae , postremum mollitiam corporis obiectante. Ad quod, vieto silentio , prorupit reus , e/; interroga , inquit , &ta7# /fób* virum esse me fatebuntur . Ingressusque defensionem , com- moto maiorem in modum Claudio , Messalina^ quoque lacrimas excivit. Quibus abluen- dis cubiculo egrediens , monet Vitellium ne elabi reum sineret. Jpsa ad pemiciem Poppaeae festinat , subditis qui terrore carceris ad voluntariam mortem propellermi, adeo ignaro Caesare , ul paucos post dies epulantem apud se maritum eius Scipio- nera , percontaretur cur sine uxore discubuisset , atque ille : functam fato responde - ret. Sed consultanti super absolutione Asiatici , Vitellvus , commemorata vetustate amicitiae , ulque ^4ntonwzm principis matrem pariter observavissmt; dein percursis A- siatici in rem publicam officiis , recentique adversus Britanniam militia, quaeque alia conciliandae misericordiae videbantur , libertini mortis arbitrium ei permisit, et secata sant Claadii verba in eandem clementiam » (Tacito, XI, 1-3). Questo passaggio del grande storico, che sembra così piano e facile, è bisognoso di un comentario importantissimo che nessuno ha eseguito. Il giudicare dei crimini perpetrati dai senatori , ovvero dalle costoro mogli, o dai figliuoli, e che potevano esser puniti coll’infamia, coll’esilio, ed anche colla morte, era di competenza del Se- nato; e ciò fu da Mecenate raccomandato espressamente ad Augusto (Dione, LII, 31). Ora per qual motivo astennesi Claudio dal far giudicare al supremo consesso la causa di Asiatico, rinunziando al gran vantaggio di non apparir complice, anzi autore precipuo della mina d’uno dei principali e piu meritevoli cittadini ! Il motivo , a mio parere fu, che la scaltra Messalina, accortamente prescelse il mese di Settembre, per lan- ciare l’accusa; e siccome in questo, e nel seguente Ottobre i senatori soleano per di- Digitized by Google — 94 sposto di legge prender vacanza, e sparpagliarsi nelle loro ville fuori Roma, sarebbe riuscita assai incomoda, e forse impossibile una straordinaria convocazione del Senato. Ma nei casi di urgenza, i quali richiedevano subitanei provvedimenti, come era quello di Asiatico , la procedura doveva esser diversa. Chi dunque avrebbe dovuto giudi- care ? L’imperatore Claudio, nel caso in esame, era senz’ alcun dubbio incompetente, primo attesa la dignità senatoriale dell’accusato; e poi per la invincibile ragione , che in un reato di maestà , sarebbe egli stato nel tempo istesso giudice e parte lesa. E con qual dritto, sotto qual veste fu concesso a L. Vitellio di prendere parte attiva e preponderante in questo giudizio ? Rispondo che lo fu, e doveva esserlo, attesoché rivestiva il grado di Praefectus Urbis . « Omnia omnino crimina Praefectum Urbis sibi vindicavit » {Digesto, I, 12, 1; cf. Dione, L13, 21). Claudio dunque, attesa l’ur- genza della causa, potè legalmente deferirla al suo Prefetto; e costui alzò tribunale nel cubicolo dell’imperatore, per dar comodo a questo ed a Messalina di assistervi* personalmente. E così spiegasi la ragione per cui la donna scellerata, nell’ uscirsene lagrimosa, e vista la buona, anzi ridicola piega che avea preso la discussione (Dio- ne, LX, 29), ammonì sottovoce Vitellio: €ne elabi reum Binerete cioè che si fosse ben guardato dall’ assolverlo, ad onta della verificata innocenza. In effetti, fu costui che condannollo: « liberum mortis arbitrium ei permisit », non già: liberum mortis arbitrium prò eo rogami ; e Claudio altro non fece, che sanzionare la sentenza del Pre- fetto, e renderla esecutiva. Giustamente perciò lo sventurato ma dignitoso Asiatico, « curri se honestius calliditate Tiberii , vel impetu C . Caesaris periturum dixisset , quam quod fraude muliebri et inpudico Vitellii ore caderet , venas exsolvit » (Tacito, Ann. XI, 3; cf. Hist. II, 63). Dietro questi precedenti poi, non è fiior di ragione il riputare che nella celebre catastrofe di Messalina, avvenuta circa l’Ottobre del seguente anno 801, « adulto au- tumno », e quando il Senato era similmente in vacanza, non altri che L. Vitellio ebbe facoltà legittima di giudicare e condannare al supplizio C. Silio console designato, e pseudo marito di quella stravagantissima donna; nonché quasi tutti gli altri complici delle di lei turpitudini. Se in quei pericolosi frangenti fosse stato Urbis custos L. Vo- lusio Saturnino, come afferma il Borghesi, per qual motivo costui non corse subito al fianco dell’atterrito Claudio, com’era suo dovere, e come fecero il prefetto dell’an- nona e quello delle coorti pretorie ? Fu invece Vitellio colui che associò costantemente il principe; ma, vecchio furbo qual’era, non ben sapendo se la tempesta sarebbe ve- nuta a dileguarsi, com’era possibile, altre parole non fe’ uscir di bocca lungo il tra- gitto da Ostia a Roma che l’ambigua e ripetuta esclamazione: « o facinus ! o scelus ! »; la fina malizia della quale può ben comprendersi ricordando la definizione di Sue- tonio : « Scelus et facinus — scelus crimen est , facinus etiam in laude ponitur ». (Suet. Deperditorum libror. reliquiae , p. 319. In calce Opp. Suet. Lipsiae 1858, Roth). Digitized by ^jOoq le — 95 — Ed invano il trepidante Narcisso lo richiese più volte di esprimersi apertamente e senz’ambagi, bene occorrendogli di conoscere con antecipazione i pensamenti del* giu- dice (Tacito , Ann. XI , 31-34). Ma costui, per non compromettersi, rappresentava sempre la parte dell’ ignorante: « ignaro propior » {ibid. 35). In conclusione : se la storia fa vederci , in questa terribile circostanza , comparire in iscena C. Turranio prefetto dell’annona, Limo Geta prefetto del pretorio, e Decrio Calpumiano prefetto dei vigili, benché in veste di reo; come mai avrebbe potuto mancare il solo praefectus Urbis , che sovrastava a tutti, ed aveva direttamente il comando delle coorti Urbane ? Troppo disperata sarebbe l’ipotesi, che egli giacesse infermo nel letto, e non vi fosse stato alcuno che per legge avesse dovuto supplirlo. Allorché Claudio poi tornò in palazzo, e riprese calma, rifocillato dai cibi e dal vino, fece ingiungere a Messalina: fosse comparsa nel seguente giorno alla discus- sione della sua causa {ibid. 37). Ma avrebbe potuto egli solo legalmente giudicarla ? Ulpiano risponde che no: « Qui iurisdictioni praeest , neque sibi ius dicere debei , ne- que uxori, vel liberis suis y neque libertis, nel caeteris quos secum habet » {Digesto II , 2, 1; cf. Codice , IH, 5: Ne quis sua causa iudicet). Conveniva dunque anche al prefetto, a Vitellio medesimo, espletare questa più grave faccenda; ma Narcisso vi- sto l’estremo pericolo che sovrastavagli se Messalina fosse stata assoluta da costui, come era probabilissimo, mandò subito un tribuno a trucidarla e prevenne la rea- zione. Io son lungi dal dimenticare come Claudio soleva spesso farne delle sue: la uccisio- ne improvvisa di C . Appio Silano (Dione, LX, 14; Suetonio, Divus Claud. XXXVII); e quella di un povero litigante narrata similmente da Suetonio (l. cit.). Ma egli potè giustificare in senato questi atti illegali col mostrare che Silano venne colpito nella flagranza di attentato sulla vita di esso imperatore (Suet. ibid.); e per l’istesso mo- tivo ancora potè scusarsi riguardo al predetto litigante, il quale non era persona di alto grado. Del resto, tutte le altre condanne poteva egli profferirle pel diritto che avea , come successore di Augusto , di render giustizia in grado di appello su tutti i tribunali; potendo puranco salvare qualunque reo col C 06 Ì detto suffragio di Minerva (Dione, LI, 19). Rimane perciò giustificato il passo di Tacito: « cuncta legum et ma - gistratuum munta in se trahens princeps, materiam praedandi patefecerat » (Tacito, Ann. XI, 5); nonché quello di Suetonio: « nec semper praescripta legum secutus » (Suet. I. cit. XIV). Nelle cause famose però e contro personaggi illustri, le quali erano di competenza del Senato, o del prefetto Urbano nei casi di urgenza, io, coll’appoggio di Dione, sostengo che non era Claudio cotanto stolto ed audace da sfidare l’opinione pub- blica, ed usurparsi uqa potestà ingiustificabile, che sorpassava di gran lunga i confini della legge (Dione, LX, 16). L’ultimo risultato intanto di questa discussione è che L. Vitellio dovè non solo so- Digitized by t^.oogie — 96 — stenere l’ufficio di praefectus Urbis durante la permanenza di Claudio in Roma; ma essendo rimasto sempre nella grazia imperiale ed in quella più valevole di Agrippi- na , potè serbare il potere, con grandissima probabilità, fino al termine di vita. Non mancò certamente l’ invidia di fargli passare qualche brutto quarto di ora; percioc- ché nell’804 venne accusato di maestà e di aspirare all’impero, dal Senatore L. Lu- po; e Claudio non sarebbe stato alieno dal prestare orecchio all’accusa, se le minac- ce, più che le suppliche di Agrippina non lo avessero costretto a vietar 1’ acqua ed il fuoco all’ accusatore (Tacito , Ann. XII, 42). Tanto solo, volle Vitellio che fosse eseguito; ma il dispiacere , la rabbia, la gran commozione che ebbe ad invaderlo in quegli anni estremi « extrema aetate », dovè senz’ alcun dubbio affrettargli la morte con fiero colpo apoplettico (Suet. Vitell. Ili), e condurre Volusio Saturnino a sosti- tuirlo nella carica. La prefettura Urbana di L. Volusio Saturnino, che fu console Buffetto nel 756, ci è stata manifestata unicamente da Plinio con brevi parole : « Nuper L. Volusio Saturnino , in Urbis praefectura extincto » etc. (Plinio, H. N. VII, 49, 12); e Ta- cito opportunamente soggiunge come il medesimo uscì di vita nell’ 809, alla rispet- tabile età di novantatre anni {Ann. XIII, 30). Questo fatto conferma storicamente ed in modo irrefutabile tutto quello che io ho sopra asserito ; vai quanto dire che solo per opra dell’imperatore Claudio fu dal Senato modificata la costituzione Augustea, e cangiata la prefettura Urbana in magistratura ordinaria e continua; essendo certo che la medesima, così fermamente apparisce, da Claudio in poi. Nerone nel primo bien- nio allegro e libertino del suo impero non potè osar tanto; e molto meno conferire un ufficio nuovo ed importantissimo in quanto alla durata ed alle attribuzioni, ad un cadente vegliardo di novantuno anni. Rimane per conseguenza egualmente cerziorato che Saturnino salì alla prefettura nell’804, per l’avvenuta morte del vecchio Vitellio, e non ostante contasse 1 1 età di ottantotto anni ; e che Nerone inoltre confermogli la carica, per un rispettoso e delicato riguardo. A costui dunque dovè succedere, nell’809, il famoso L. Pedanio Secondo , che so- stenne i fasci Buffetti nel 796, come sopra abbiamo commemorato. Egli fu brutalmente assassinato da un suo servo nell’814; per il qual crimine dovendo, secondo la legge , andare al supplizio tutti gli altri servi in numero di quattrocento , che dimoravano in sua casa, la romana plebe si commosse all’eccidio di tanti innocenti, e per salvarli, non peritò di ribellarsi alle pubbliche autorità. Ma nulla ebbe a giovare; dappoiché la maggioranza del Senato, per opera precipua del celebre giureconsulto G. Cassio, deli- berò doversi dare braccio forte alla legge; ed il popolo che óra giunto perfino a met- ter mano ai sassi ed al fuoco , fu severamente per editto rimproverato da Nerone , e tenuto in freno dalle accorse milizie (Tacito, Apn. XIV, 42-44). Successore di Pedanio nell’814 fu, come i dotti conoscono, T. Flavio Sabino fra - Digitized by Google - 97 — tello maggiore di quel Vespasiano, che i destini serbavano all’impero del mondo. Fra tutti i prefetti Urbani finora censiti, gli è questo il solo di cui non ancora si è po- tuto con precisione conoscere 1’ anno del consolato. Il Borghesi , nei Fasti inediti , ebbe soltanto ad annotare, che costui fu « Cos . suff. sub Claudio , circa a. 800—47 ». Io di vantaggio considero, come avendo egli seguito Aulo Plauzio nella spedizione Bri- tannica del 796, in qualità di legato legionario d’ordine pretorio, non potè tornare a Roma che nella state delV 800 , in compagnia del suo Principale. Ora però cho sappiamo come , in quest’ ultimo anno, i sconosciuti sufFetti di Claudio e di Vitellio dovettero entrare in carica alle calende di Marzo, per cederla il dì 1° Luglio ad 0- sidio Geta ed a L. Vagellio , riman cerziorato che 1’ alta promozione di Sabino do- vette aver luogo in uno degli anni consecutivi, e precisamente fra l’802 e l’804 in- clusive; imperocché l’anno 801 trovasi perfettamente ripieno. Ma io oltre a ciò, me- morando il Romano costume di congiungere due germani nella dignità del Consolato allorché ne era il caso, reputo probabilissimo che non solo Vespasiano sostenne i fa- sci nei due ultimi mesi dell’ 804, siccome ò noto; ma che per maggior letizia gli fu dato a collega il germano Sabino, col quale avea gloriosamente militato nella guer- ra Britannica. E così poterono assidersi ambedue sulla maggior curule, ornati delle splendide vesti trionfali , loro meritamente concesse da Claudio. Sabino amministrò la prefettura fino alla morte di Nerone, nell’821; ma soprav- venuto il novello imperatore Galba, egli, secondo 1’ uso , era tenuto a dimettersi , e perciò gli fu sostituito Ducenio Gemino . Eccomi dunque pervenuto al termine di una importante e difficile controversia. Con essa, benché trattata molto compendiosamente per amore di brevità, reputo avere a sufficienza dimostrata la tesi storica proposta alla p. 83 , ed anche qualcosa di più. Restami solo a riassumere in un quadro sinottico la serie cronologica emendata dei primi dodici Poliarchi che funzionarono in Roma, dal 727 fino all’821, cioè per lo spazio di quasi un secolo; e tanto prendo cura di eseguire colla forma che segue: SERIES CHRONOLOGICA VIRORVM CONSVLARIVM PRAEFEGTORVM VRBIS ROMAE AB ANNO V.C-DCCXXVII VSQVE AD ANNVM DGGGXXI. I. M VALERIVS M F M N MESSALLA GORVINVS COS A V-C DCCXXIII PRAEF . VRBIS • AN • DCCXXVH Post sex dies ab inito Magistrato, abdicavit. 13 Digitized by <J&évx0S ~ icaxpl 3 etaas, x>Jv xs iup(axeotv aùxtov uapaLkó'(tù xóXjjLyj di^ppqge, xax xoùxou ?eu?6vxa? o$ac, Si^p&stpsv. (Dione, LX, 30). La mancanza dunque di critica, ed anche di studio, fece cadere l’Eckhel in questo precipizio. Perciocché invano l’ accorto Tillemont aveagli da lungo tempo segnalato il grave scoglio, nei seguenti termini: « Dion rapporte sur t an 47, que Tite son fils (de Vespasien) le degagea cTun clanger où il se trouva une foie au milieu des enne- mie . Mais Tite qui estoit né le 30 decembre de V an 40 , ri avoit pas alors encore huit ans . Aussi Suetone ne luy attribue rien de semblable (Tillemont, Hist des Em- per., U Empereur Claude Art XIII). Ma lo storioo Francese, se vide il male, non seppe né indagarne, nò spiegarne la causa; la quale, a mio giudizio, non è di molto Digitized by Google — 108 — difficile comprensione, richiamandosi a memoria quello che ho esposto superiormente nel quinto capitolo : cioè che Vespasiano , circondato da una moltitudine di barbari nella Britannia, e versante in estremo periglio, ne fu liberato mercè l’audacia ed il sommo valore di Osidio Gela, siccome chiaramente afferma il genuino testo di Dio* ne (LX, 9). Ora, nulla di più facile, che il r&as 'OoBto? del greco storico sia stato nella farragine degli antichi manoscritti cangiato in Téxos ò ciòioq, e posteriormente da qualche sciocco epitomatore interpretato e trascritto: The; ò vlò$. colla giunta fan- tastica: aùxou rapi Tiì icaipi Setea?. Mi meraviglio perciò nel vedere come nell’ ulti- ma edizione di Dione a me nota, fatta in Lipsia nel 1829, non siavi stato alcun uri- ti co che abbia consigliato di espungervi queste parole, evidentemente apocrife, o me- glio, di cancellarvi F intero brano che ho poco sopra trascrìtto, il quale, anche coi> retto , viene sempre a formare una inutile e sconcia ripetizione. P. 274, lin. 20: « Dalmatina » — Corr. Pannonica. P. 280, lin. 8 — Agg. La esistenza reale d’ un tabularium addetto all’ erario di Saturno , è stata , benché alquanto tardi , riconosciuta dal Iordan , il quale chiama « errore manifesto » la esposta opinione del Mommsen su questo proposito ( Annali dell Instit. Arch. 1881 , p. 68). Ma gli argomenti sui quali poggia la sua tesi sono così labili, che neppur mette conto il confutarli. P. 281, lin. 20: « si fossero ripetuti i fatti a — Corr . fossero avvenuti quei fatti. P. 283, lin 4: « nel presente capitolo » — Corr . in questo e nel seguente capitolo. P. 284, lin. 28: « la base » — Corr . la base, ossia lo zoccola, P. 285, lin. 7 — Agg, Debbo inoltre notare come ambedue questi monumenti ven- nero ad arte spezzati nell’angolo destro, inferiore, e nell’angolo superiore a sinistra, ma senza danno dello scritto. P. 287, lin. 10: « eses » — Corr. esse. P. 292, lin. 8: « nell’ultimo vocabolo » — Corr. nell’ultimo inciso. P. 293, lin. 9: « immediamente » — Corr. immediatamente. P. 297 , lin. 13 — Agg. Un marmo arcaico ma non molto antico , rinvennesi in Tivoli colle seguenti parole: //// v tivs-t-f (Ritschl, P. L. M. E. tab. 35, H; C. I. L. I, n. 1116); ed il Mommsen supplì [plà]vtivs. Ma il suo supplemento non è certo, attesoché può leggervisi ancora, e forse meglio; [pl]vtivs. P. 302, lin. 9: « Plotins » — Corr. Plotius. Ibidem, lin. 17: « 598 » — Corr. 698. Ibidem, lin. 19 — Agg. Sopra Bacchius Iudaeus ci. Càvbdoni, Bull. Arch. Nap . n. s. VII, p. 42-44. P. 307, lin. 27 — Agg. Chi volesse infine conoscere le sciocche e ridicole osser- vazioni fatte dal Winkelmann, che voleva comparire puranche epigrafista, sopra le lapidi dei Plauzii, potrebbe leggerle nella m* Storia dell Arte, t. Ili, 2, § 13 ( Prato 1832). Digitized by t^oogie — 109 — P. 310, lin. 14: « ai 13 Aprile »— Corr. ai 14 Aprile. P. 314, lin. 19: « di Annibaie Magone »— Corr. di Annibaie, Magone. P. 319, lin. 27: « geneologico »— Corr. genealogico. P. 320, lin. 1: « da Livia sua madre » — Corr . da Livia sua ava materna. Ibidem , lin. 14 — Agg. Un altro luogo di Tacito ove il propinqui « viene adope- rato nel significato di parente stretto , può leggersi superiormente nella nota 1* a p. 44. P. 321, lin. 28: « Madwig » — Corr . Madvig. Ibidem , lin. 30-31: « Caracenae » — Corr. Caracena . P. 322, lin. 9 — Agg. Il solo fatto di essere stato il nostro C. Elvidio prescelto come arbitro a giudicare quella grave controversia agraria sorta fra il Municipio d 'Hi- stontum e Q. Tillio Sassio , da noi esposta nel terzo capitolo, è più che sufficiente a riconoscere in esso un vecchio Centurione, il Primipilus di Tacito. Niuno può ignorarare che i Centurioni militari erano peritissimi nell' arte gromatica ; ma pel momento ^starni ricordare come allorché Caligola concepì il disegno di tagliare l’istmo di Corin- to, « miserat iam ad dimetiendum opus , Primipilarem » (Suetonio C. Caligula XXI). P. 328, lin. 7: « fra la gente Plauzia » — Corr. fra gli Auli della gente Plauzia. P. 329, lin. 17— Agg. E similmente ebbe l’istessa sorte L. Silano Torquato adne- pote di Augusto, fatto uccidere in Bari nell’817 (Tacito, Ann. XV, 35). P. 332, lin. 14-20. Agg. Per tagliar corto sopra qualunque dubbio che potrebbe elevarsi intorno alla mia interpretazione di questo passo dello Scoliaste di Giovena- le, credo necessario riprodurne integralmente la parte essenziale, non ostante che la quistione sia qui antecipata e fuori luogo. « Heluidius post damnationem, ut inquit Probus , soceri Peti Thraseae interdicta sibi Italia Apolloniam concessit ; sed post inter fectum Neronem restitutus a Galba % non aliter quam libero ciuitatis stata egit . Hic postea Vespasianum ita studio libertatis offenditi ut putaret , id optante auun- culo Claudio, pristinum libertatis statum posse reuocari: quo nomine reus ac prae - ter spem absolutus est » (SchoL, ap. D. lunii Iuven. Saturar ., p. 231, ed. Berolini 1851, Iahn). Un’accusa di questo genere contro Elvidio seniore portata in Senato: cioè il pretendere che avesse potuto rovesciar l’impero di Vespasiano, un semplice uomo pretorio, senza complici, senza congiure preliminari, senza influenza sulle legioni, o sulle coorti pretorie, senza alcun mezzo efficace insomma per eseguire il suo dise- gno, sarebbe stata opinione tanto stolta, per quanto manifestamente assurda, che nes- suno avrebbe osato produrre e sostenere. Ma dopo che Vespasiano, per crudo ed il- legale atto di dispotismo, rilegò ed uccise l’innocente filosofo, non poteva lasciarsi vivere in pace il giovine figlio, il quale essendo rampollo della stirpe de’Cesari, avea possibilità di essere per qualche circostanza proclamato imperatore, e con tale auto- rità ridonare allo Stato l’antica forma repubblicana. Il precipitare anche i figli nella mina patema era costume di quei tempi nefasti; e valga 1’ esempio che Tacito rac- Digitized by v^oogie — 110 — conta di Suillio Nerullino condannato nell’ 811: « Filium eius Nerullinum aggressis accusatoribusy per invidiarti patrie et crimina repetundarum, intercessa princeps tam- quam satis expleta ultime » {Ann. XIII, 43). L' accusa dunque contro Elvidio giu- ntare era riguardata di maggior fondamento; e lo Scoliaste soggiunge che « praeter spem àbsolutm est », attesoché era fresca la memoria dell'estremo rigore usatosi col padre. D'altra banda non avrebbe potuto Vespasiano, senza taccia di enormità inaudita, comandare la uccisione di Elvidio seniore, per un crimine di cui era stato legalmente as- soluto dal Senato. Non sarebbe inoltre ragionevole emendare il testo alla parola auuncu- lo; sostituendovi socero; imperocché nel periodo antecedente si é ben distinto dallo Scoliaste il suocero di Elvidio Seniore: « soceri Peti Thraseae » avunculus Clan - diusy il quale non può ad altri riferirsi che al giovine Elvidio. Se Fannia fosse sta- ta la costui madre, avrebbe egli dovuto chiamar Trasea Avus ; ma siccome invece eragli semplice matrigna, convenivagli appellarlo Avunculus, non per stretta legali- tà, ma per titolo di onore e di rispetto che soleva darsi anche a quei vegliardi non congiunti da diretta parentela. Così vediamo Seneca chiamare Avunculus il marito della sorella della Madre : € carissitnum virum amiserat avunmlum nostrum , cui virgo nupserat » (Seneca, Consolat. ad Helviamy XVII). Ibidem, lin. 20: « sai » — Corr. assai. Adesso mi corre l'obbligo di esporre le mie osservazioni sulla epigrafe di L. Fu - nisulano Vettonianoy secondo ho promesso alla p. 274. Essa é la seguente (C. 1. L. Ili, n. 4013): L FVNISVLANO L • F • ANI • VETTONIANO TRIS • MIL • LEO • VI • VICT • QVAES TORI • PROVINCIAB • SICILIAE TRIB • PLEB • PRAET LEO • LEG • IIII SCYTHIC • PRAEF • AERARI • SATVR NI «C VRATORI • VLAE • ARMILI AE COS VII VIR • EPVLONVMLEG • PRO • PR PROVINO • DELMATIAE • ITEM • PRO VINC ‘PANNONIAE ITEM • MOESIAE SVPBRIORIS • DONATO / / //////////////// / / BELLO - DACICO • CORONIS • IIII MVRALI VALLARI CLASSICA AVREA HASTIS • PVRIS • IIU VBXLIS • IIII (sic) PATRONO D D Digitized by ^jOoq le -UJ - Questo insigne monumento eretto ad un coetaneo del nostro Elvidio in una cit- tà della Pannonia y fu prima di tutti pubblicato ed illustrato dal Marini, in lettera diretta al Fabroni, nel Giornale dei Letterati edito in Pisa l’anno 1771 (Tomo III, p. 290-297). Dopo di lui ne ha tenuto discorso il Borghesi, sebbene per incidenza e non di proposito; ma in tale occasione questo sommo epigrafista fece risplendere la sua perizia, collo scovrire i miseri avanzi di un’altra grandiosa lapide dell’istesso Funisulano sconciamente murati nella rocca di Forlimpopoli, col riordinarli, e col sup- plirli nel modo che segue (Borghesi, III, p. 74) : L • FunisulanuS • L • F • ANI • VETfcmi'ANVS • COS vii • t tir • epulonum -jodalis • avg • prò • cos • ^proviNC • a/ìiicae leg-aug pr -pr -provine • delmatiae • iTEm • ^roin'NC • pannoniae item - Moesiae • «^er cvratoR‘Aqvarv»i curato ^ -\ikr aeniiY-praet trib pleb praef - aeraci • QVAESfor • trib - mil - leg • vi • victr • in • vir In grazia dunque di questi due documenti, noi abbiam contezza dell’ intero cur- sus honorum del personaggio in discorso; e possiamo inoltre classificarne le diverse cariche in retto ordine cronologico. l pvnisvlano l p ANi(e»w*') - vettoniano. La rituale terminazione dei nomi genti- lizii presso i Romani era sempre in ius , mentre l’altra in us soleva applicarsi ai cognomi , e ad alcuni prenomi speciali. Funisulanus quindi mostra una forma epico- ria , e non di puro Latino, che avrebbe dato invece Funisulanius . Vettonianus per converso, è derivazione regolare del gentilizio Vettonius trasformato in cognome, per dimostrare che il titolare ebbe origine materna da una Vettonia , nome tratto da Vettona , antica città la quale probabilmente sorgeva nel paese dell’ Umbria ora de- nominato Bettona. La forma diminutiva di Vettonia , era Vettulla , siccome quella di Fabia , Fabulla (Cf. pabia • l -p pabvlla, C. L L. Il, n. 2050) etc.; e coeren- temente vediamo una sorella del nostro Funisulano appellarsi fvnisvlana vettvlla (C. I. L. Ili, n. 35; Borgh. VII, p. 58, nota 8). TRiB(tmo) • mil (itum) - le o(ionis) • vi • vict (ricis). La epigrafe Pannonica omette la carica vigintivirale cui Funisulano era obbligato prima del tribunato militare, ma quella di Forlimpopoli ce la manifesta in parte , col ni vtr dell’ ultima linea , che deve supplirsi, o CAp(fta/«), ovvero A(uro) -Amento) A(ere) -F(lando)F- (eriundo). Alla età dunque di circa venti anni, egli incominciò la carriera delle armi in Ispagna, ove stanziava la legione sesta cognominata victrix, ed anche pia pelicis (C. I. L . II, nn. 490, 491, 1614, 2637 etc.); e forse con essa pugnò nel reprimere la insurre- zione Asturica taciuta dagli storici, ma rivendicata dall’epigrafia (C. /. L. XI, n. 395). Digitized by v^oogie — 112 — « QVAE8TORi-PRoviNCiAB-siciLiAE'TRiB(tmo)-PLKB(i)‘PRAET(on). Continuando il no- stro personaggio la regolare carriera amministrativa, fu dapprima questore in Roma, e nell'anno seguente trasferissi in Sicilia col grado dì quaestor prò praetore che da- vagli T amministrazione contenziosa finanziaria della provincia , senza esser dipen- dente dal proconsole, ma solo in accordo. Dopo i soliti due semestri occupati in tale ufficio, tornossene nella Metropoli, ove fu eletto tribuno della plebe, e, passato il con- sueto intervallo, promosso alla pretura. legato LEG(«>nw) mi scYTHic(ae). Se Funisulano avesse voluto continuar la car- riera negli ufficii di toga, avrebbe dovuto dopo la pretura, rimanere in ozio quattro anni e mezzo, e poscia recarsi come Proconsole, in quella provincia senatoria asse- gnatagli dalla sorte. Ma egli , uomo di spada , preferì di andarsene subito in Siria presso Domizio Corbulone, in qualità di Legato della quarta legione Scitica, la quale era ivi stata trasferita dalla Mesia inferiore (Cf. C. I. L. Ili, n. 1698), per rinforzo dell’esercito che doveva far fronte alla temuta invasione dei Parti. Ma colà gl’incolse la sventura di dover passare colla sua legione sotto il comando superiore di Cesen - nio Peto , e di seguirlo nella stolta e sciagurata spedizione di Armenia, la quale ebbe luogo verso il finir di primavera dell’ anno 815 (Tacito, Ann* XV, 6). Quest’ uomo inetto, vigliacco, e simultaneamente millantatore e bugiardo — una specie del fu no- stro ammiraglio Persano — arrischiossi ad entrare nel paese nemico alla testa di due sole legioni, e senza neppure ben provvedersi di vettovaglie. « Sub idem tempus le- gati Vologaesis , quos ad principem missos memoravi, revertere inriti 7 bellumque prò- palam sumptum a Parthis . Nec Paetus detrectavit , sed duabus legionibus , quarum quartam Funisulanus Vettonianus eo in tempore , duodecumam Calavius [Caelius ?\ Sabinus regebant , Armeni am intrat , tristi ornine » {Idem, ibid. 7). Io qui non diffon- derommi a ricordare tutti i mali ch’ebbero a soffrire quelle povere legioni per colpa di Cesennio, e pel tardo soccorso ancora dell’invidioso Corbulone; bastandomi notare come gli avanzi delle medesime furono ricondotti in Siria nell’816, essendone rima- sti uccisi tutti i più valorosi soldati: segno certissimo che eroicamente combatterono contro forze superiori {Ibid*, 26). E i loro legati dovettero naturalmente accompa- gnarle per poterle riordinare, e ricolmarne i vuoti con nuove cerne. praef(cc£o) • aerar i «satvrni. Il soprascritto passaggio di Tacito, attribuendo una data certa alla legazione legionaria pretoricia di Funisulano, è filo cronologico di mas- sima importanza; imperocché con esso possiam dedurre molto approssimativamente l’e- poche delle costui cariche anteriori, ed in parte anche di quelle posteriori alla legazione medesima, che ci sono più necessarie a conoscere. Funisulano, per equipollenza del tempo che avrebbe dovuto consumare dalla pretura al proconsolato, dovè certamente restare al comando della legione per sei anni solidi continui, e poscia tornarsene a Roma, in aspettativa del suo turno ond’esser promosso al consolato. L’epigrafe Pan- Digitized by ^jOoq le — 113 — nomea che ne commemora le cariche con perfetto ordine di successione, ci manife- sta essere avvenuto precisamente cosi. Se Nerone perdonò a Cesennio Peto il grave sfregio fatto subire alle armi Romane ( IbùL f 25), riserbandosi sfogare a tempo op- portuno tutta la sua collera contro Corbulone, non poteva che rimaner contento del valore e dei servigi di Funisulano, abbenchè coronati da un esito infelice. E perciò venne a dargli pruova di grande stima, coll’ affidargli subito l’erario di Saturno. Ora supponendosi che la di lui legazione fosse incominciata nella state dell’814, è chiaro che dovè terminarla, e ricondursi in Roma circa la metà dell’820, per assumere nel- 1’ anno seguente 1’ amministrazione erariale , la quale , come ho esposto nel capitolo sesto, avea la durata normale di quattro anni . Con questi elementi pertanto, e con queste considerazioni, nutro lusinga di aver dimostrato come il nostro Funisulano dovett’essere uno dei due Prefetti dell’erario, i quali nell’ 822 richiesero al Senato i mezzi per far fronte alle pubbliche spese, sic- come ho pure dichiarato nel capitolo medesimo. E qui sarebbe finito il mio compito; ma non essendo convenevole troncare a metà la illustrazione dell'insigne monumen- to, il quale presenta altre gravi quistioni da risolvere, così mi accingo a continuare il ragionamento fino alla conclusione. cvHAToiu viAE-ABMiLiAE«coN(«)s(tt/t) vn*viR(o)-EPVLONVM. La via Emilia, appel- lata Magna da Plinio (H. N. II, 85, 1), estendevasi da Roma ad Aquileia, passando per Bologna. Importantissima quindi e di non piccola fatica era la cura della mede- sima, la quale soleva darsi o ai consolari, ovvero a quegli uomini pretorii ch’erano già sulle soglie del consolato. La nostra epigrafe c’ insegna come essa cura fu asse- gnata a Funisulano immediatamente dopo ch’ebbe terminato i quattro anni dell’am- ministrazione erariale : segno certissimo che non era ancor giunto il suo turno per ascendere al consolato. Egli è vero che la prefettura dell’ erario davagli dritto di precedenza sopra gli altri aspiranti, come ho asserito nel capitolo VI a pag. 150, e come adesso confermo ; ma con ciò intendo alludere agli aspiranti di ugual grado cronologico , e non già sopra gli anziani che attendevano la promozione da lungo tem- po. Nella stessa guisa, e per la stessa cagione ora reputo che il notissimo L. Bur - buleio ebbesi una cura viaria dopo quella dell’erario, sebbene il Borghesi non abbia potuto conoscerne e dimostrarne il motivo, ed io medesimo alla pag. 151 avessi fal- samente proposta una ragione diversa. Ma quanto tempo Funisulano sostenne codesto ufficio? Io credo che due, o al più a lungo, tre anni; e che poscia dovett’essere senz'altro indugio promosso al consola- to. Il nostro Borghesi nei Fasti inediti ebbe a scrivere soltanto: « l-fvnisvlànvs • l • f • VETTONIANV8 — Sub Vespasiano , velpotius Domitiano »; donde vedesi la grande incertezza che qui agitava il suo animo, per le. cagioni che più sotto esporremo. Io invece, attenendomi ad un calcolo assai ragionevole, osservo, che se il personaggio 15 Digitized by ^.oogie — 1 14 — in discussione fu Prefetto erariale dall’821 all’824, e curatore della via Emilia dal- l’825 fino a tutto l’827, ne consegue che verso la fine di questo periodo dovè neces- sariamente esser designato console pel seguente anno 828. Non era egli affatto mal- viso da Vespasiano e dalla sua corte , come il dimostrano le legazioni importantis- sime cui fu poscia preposto; e perciò non avrebbe potuto essergli recato torto e sen- sibile offesa col prolungarglisi ingiustamente il tempo, e V ordine regolare della sua carriera politica. T . Petronio Vezzio Botano, legato legionario al pari di lui in Ar- menia nelT815 (Tacito, Ann . XV, 3), ascese al consolato nell’ 821 , perchè era più anziano; e lo stesso può dirsi di X. Verulano Severo , cui il Borghesi assegnò i fasci « nec ante a. 817 , nec post a. 821 ». Similmente Mario Celso che nell’816 era le- gato della legione XV Apollinare {Idem , tbid. 25) , fu designato console nell’ 822 {Idem, Hist . I, 14), e salì al potere verso la metà dell’ anno stesso. I Fasti d’ altra banda manifestano il gran numero dei personaggi che affollavansi al consolato negli anni 822-27 , e dànno buona ragione della notevole aspettativa cui dovè soggiacere Funisulano, fino all’828. Io son tanto persuaso della verità di questo calcolo, che oso affermare: potersi esso modificare solamente di qualche anno in più od in meno dalle nuove scoverte epigrafiche , qualora non venga confermato del tutto. Dopo il conso- lato, il nostro personaggio fu insignito, secondo il costume solito, di una fra le mag- giori cariche religiose; e la lapide ci manifesta che ebbe il settevirato degli epuloni, l’ufficio dei quali essendo noto abbastanza, noh occorre spendervi parole. LEG^o^ PRO PR^ac rcoXijuo xéXo? ’sinSsì? è oxpaxyjYÒ? xaì x>j; et? xò peXXov ào; etvat xot? /3a/$apot; xijv Sia^aotv xeX&o? ’aSùvaxov (Fl. Ios. B . I. VII, 4, 3). Come dunque sarebbe potuta avvenire colà una nuova invasione Sarmatica , col Danubio irto di castelli e di propugnacoli in tutt’ i punti strategici; colle legioni integre al posto loro, ed in tutte le provincie limitro- fe? Quanti Legati consolari, quante poderose legioni vogliono riputar massacrate da quei barbari gli storici ed i numismatici moderni? Spieghino dunque il motivo per cui Domiziano non lasciò la menoma ricordanza di questa pretesa spedizione tardiva, nelle sue monete imperiali. Spieghino per qual ragione la testa di questo principe inco- mincia ad apparire cinta di lauro nei nummi, dall’824 in poi (Eckhel, VI, p. 369), Digitized by Google — 123 — se egli in tal* epoca non ebbe alcuna occasione di coglier « l’ onorata fronda » sui campi di guerra. Spieghino infine, perché il medesimo intitolossi di botto nell’ 834, imperator itervm (Cohen, tom. I, p. 416, nn. 257, 258). Il secondo saluto militare ebbe a riceverlo nell'atto della sua ascensione all’impero ; ma donde potò ricavare il primo , durante i pacifici regni di Vespasiano e di Tito ? Rigettate per conseguenza le immaginarie ed inverosimili interpretazioni dell’espo- sto passaggio di Suetonio, io proclamerò che esso deve unicamente riferirsi ad una spedizione nel paese Sarmatico ordinata da Vespasiano l’anno 824, per vendicare la uccisione di Fonteio Agrippa, ed il massacro della legione che presidiava il Romano confine nella Mesia superiore. Rubrio Gallo ebbe ordine di limitarsi solo ad espellere i barbari dalla provincia, ed a provvedere alla sicurezza ulteriore della^ medesima ; ma la vendetta dell'onta subita era necessaria, nè soffriva ritardo. Fu perciò affidato a Domiziano il comando supremo di questa spedizione Sarmatica; ed è vano l’obbiet- tare ooll’Eckhel, che Tito, così sperimentato capitano, sarebbe stato più atto a diri- gerla. Imperocché costui era già troppo carico di allori , mentre Domiziano , roso dall’invidia, Dio sa a quali estremi sarebbe giunto per equiparare il padre ed il fratello nella gloria militare, e nelle ricchezze che l'accompagnano (Tacito, Hist. IV, 86). Fu dunque atto di buona e conciliativa politica il metterlo a capo della faticosa e difficile impresa; ed i nummi seguenti manifestano, a note chiarissime, che la compì egregia- mente ed in breve tempo: l.° cassar avo f domitianvs. Testa di Domiziano laureata e rivolta a destra . cos v. Domiziano paludato su cavallo corrente a d. distende il braccio destro in atto di comando . (Morelli, Num. Domit . tab. VI, n. 17: esemplare va oro; tab. IX, n. 12, 13: denariù Gf. Cohen, tom. I, p. 391, n. 27). Il nummo fu coniato nell’anno 830; ma esso non è che la ripetizione di un primo conio simigliante edito nell’ 824. La regola da me stabilita a p. 127 , intorno alla durata della coniazione dei nummi di soggetto storico , non è applicabile all’epoca del dominio dei Flavii, i quali preferi- rono il riprodurre di tanto in tanto, e forse annualmente, quelle monete relative alle loro imprese degne di memoria. Io credo che ciò si fece per renderle indistruttibili, e sulla considerazione che molti nummi antichi di alto significato trovaronsi o total- mente perduti, o resi rarissimi, in guisa che Vespasiano il primo ne imprese la resti- tuzione, continuata poscia da varii suoi successori. Tornando alla moneta di Domiziano, avverto ohe essa non deve confondersi colle altre, le quali lo rappresentano in atto della deoursio che far soleva come princeps iur ventutùj per la ragione che in queste ultime vedeei sempre rivestito di toga, e non già in completo abbigliamento di guerra, con galea, corazza e clamide svolazzante. Dove corre egli dunque ? Io affermo che slanciasi verso il Danubio alla testa della spedizione Sarmatica. Ogni altra interpretazione sarebbe futile, e non giustificata. Tre legioni dovè Digitized by Google — m — seco condurre, oltre alle coorti ed alle ale di cavalleria aggregate ad esse per rinfor- zo; la XIII Gemina, la II Adxutrice , e la V Macedonica giunta di fresco dalla Giu- dea, siccome dirò più oltre. Imperocché la epigrafìa dimostra come gli . ufficiali delle due prime, furono decorati di corone murali e vallari expedit {ione) • svEB(tca) • et • SARM(«rtca); ovvero, bello • svebico • item • sarmatico (C. /. L. Ili, n. 291; X, n. 135). E L. Aconio Statura , centurione dell’ ultima , dopo aver memorato i doni militari d’inferior grado concessigli da Traiano, soggiunge; ET*A*PRioRiBw$*PRiNCiPiBV8*EiSD[ew- do]niS’DOHA.TO‘[ob*bellum • Suebicum\wv • sarmaticww (Borgh. Vili, p. 382). Ora, i principi anteriori a Traiano, che egli non senza motivo astiensi dal nominare, altri non possono essere, che Vespasiano e Domiziano. 2.° imp cassar vespasian avg imp tr pot p p cos ni. Testa laureato di Vespa- siano. tf. signis receptis s c. Statua , su piedistallo scorniciato, del Genio di Vespasiano paludato , con asta nella sinistra, e colla destra distesa in atto di ricevere uri ’ aquila legionaria presentatagli dalla Vittoria . Sesterzio (Pellerin, Mélange tom. I, p. 200; Eckhel, VI, p. 329). L’Eckhel dapprima suppone che il tipo alluda alle insegne delle due legioni sedotte da Civile , e poscia recuperate ; ma non manca di soggiungere : « Ceterum non repugnat hoc aversae typo signa a Sarmatis recuperata , quod sua- dere videntur numi Domitiani... ad ann. V '. C. 829 » ( Ibid .). D Cavedoni per con- verso crede € più verisimile appelli all* aquila legionaria rapita dai Giudei in prin- cipio dell* atroce loro sollevazione », cioè sotto Cestio Gallo nei tempi di Nerone (Ann. dell* Inst. Arch. 1853, p. 8). Ma la ipotesi non sta , per le ragioni d’ incompetenza esposte superiormente a pag. 120 , e perchè i Principali Giudei non si sottomisero affatto chiedendo pace; ma furono inesorabilmente distrutti dal ferro e dal fuoco. Non è ragionevole inoltre il pensare coll’Eckhel alle aquile delle due legioni V Alauda, e XV Primigenia, prima trasfugatesi a Civile, e poscia dal barbaro fedifrago truci- date; imperocché essendo esse rimaste ostinatamente del partito di Vitellio, e, quel ch’è peggio, perite con infamia, nessun’onore potea ridondare a Vespasiano dal recu- pero delle loro macchiate bandiere. E perciò non furono mai più rinnovate , come rettamente ha osservato il Borghesi (Borgh., IV, p. 219). Per tali considerazioni dunque io affermo che il prezioso sesterzio in esame al- tro non può rappresentare , che il risultato della spedizione Sarmatica condotta a buon fine da Domiziano circa il termine dell’anno 824. Era costume Romano il far prostrare i nemici alla statica dell’imperatore, quando questi era assente, e la guerra ésercitavasi dai suoi legati; così nelle pagine superiori abbiam commemorato Tiri- date che depose il diadema in grembo alla statua di Nerone; e nella stessa guisa il bassorilievo della corazza che riveste la celeberrima Romana statua del divo Augu- sto, mostra come il re dei Parti riconsegnò le aquile alla statua di costui, com’era di dovere , e non già alle mani di M. Tizio legato della Siria , il quale probabil- Digitized by knoogie — 125 — mente effigiato vedasi in quel monumento sotto forma d’un cane, simbolo di fedeltà. Domiziano poi non mancò di gloriarsi di questa prima vittoria bellica , ne’ suoi nummi particolari ; e prima di tutti è pervenuto alla posterità il seguente, fatto da lui coniare nell’825: 3. ° cassar avo p domitian cos il. Tetta di Domiziano laureata a d. s c. Aquila legionaria in mezzo a due insegne militari . Dupondio (Cohbn, tom. VII, p. 93, n. 89 ; cf. Morelli , Nunu Domita tab. XVII , n. 27). Che il descritto tipo ri- guardi l’ impresa di Domiziano e non di altri, lo manifesta l’epoca del conio, e lo conferma la ripetizione che ne fu fatta in due tetradrammi di Efeso dieci anni dopo, cioè nell’ 835 (Cohen, tom. I,’pag. 388, nn. 8 e 9), quando non potevano alludere ad altre spedizioni posteriormente intraprese. Nè deve passarsi sotto silenzio l’altro insigne tipo coniato nell’832, e così descritto dall’Eckhel, sotto la falsa data dell’830: cassar avo p domitiànvs cos ih. [corr. cos vi (Cohen, tom. I, p. 411, nn. 208, 209)]. Caput laureatum. princbps ivventvtis. Duae dexterae iunctae sustinentes aqui - lam legionariam prorae navis infiocam. àv. ar. (Eckhel , VI , p. 373). Le due destre che sostengono 1’ aquila riconquistata , alluderanno probabilmente ai legati delle legioni che presero parte alla guerra; e la prora di nave significa che 1’ aquila suddetta, per esser ricondotta nel territorio Romano, dovè varcare le acque del Da- nubio. Ed è molto da notarsi che, lungo l’asta di essa aquila, veggonsi appese due corone: una di lauro, ed un’altra più grandiosa di quercia, con lunghi nastri svolaz- zanti (Morelli, tab. XVII, n. 26). Ma il monumento di evidentissima confermazione, cui tutti dobbiamo far di berretto, sta nel nummo insigne, accennato alla p. 116-17, e che ora mi occorre descriver meglio: 4. ° cassar avo p domitiànvs. Testa laureata di Domiziano rivolta a d. cos v. Il re dei Sarmati ricinto di diadema , barbato , rivestito di brache con cintura addominale , e coverto alle spalle con piccola clamide triangolare, volgesi a destra ; piega fino a terra il destro ginocchio; stende il sinistro braccio colla mano aperta e supina in atto supplichevole; e colla destra presenta un vessillo Romano (Cohen, tom. I, p. 391, n. 26; Eckhel, VI, p. 371). Questo tipo, coniato in oro ed in argento nell’830, e non già nell’829, come dice l’Eckhel e ripete il Cohen, rimarrebbe senza alcun signifi- cato se volesse credersi emesso in quest’anno la prima volta; ma esso è riproduzione evidente di un nummo simigliante edito nell’ 825, il quale o è rimasto perduto, ov- vero giace ancora sotterra. Gli fa poi degnissima corona il seguente unico aureo, ora sgraziatamente distrutto , ma conservatoci nel rovescio fra i disegni del Morelli , il quale dovè rinvenirlo in qualche collezione privata, attesoché non vi appose alcuno de’segni simbolici coi quali soleva indicare i pubblici Musei da lui consultati. 5. ° [Testa laureata di Domiziano . Epigrafe ignota ]. signis a sarmatis re- stitvtis. Tipo simile al precedente (Morelli , Num. aur . DomiU tab. VI , n. 29). Digitized by Google — 126 — L’ Eckhel, non so per quale infermità di mente, gittando a piene mani e dubbii, e fallaci interpretazioni sopra questi due classici documenti, mormora fra l’altre cose: « Ceterum omnis scientia barbarum in his numis genuflexum esse Sarmatam , fun- datur in vocabulo sarmatis numi secundi ; nam si illud abesset , Parthus omnino esset habendus; adeo omnis habitus et cultus Parthum spirai, qualis nempe , ad om- nes apices simillimus, et item fiexo genu sistitur in argenteis Augusti numis vexil - lum offerens , quem Parthum esse certum est. Et mirum sane videatur , Sarmatis et Parthis tanto terrarum intervallo disiunctis idem fuisse vestimenti genus » (Eckhel, VI, p. 372). Ma egli, oltre all’aver dimenticato il passo di Tacito, ove narra che i Germani « locupletissimi veste distinguuntur , non fluitante sicut Sarmatae ac Par- tili » (De morib . Germanor. XVII), mostrasi anche debole e superficiale osservato- re, ad onta che avesse tenuto a suo pieno comodo il ricchissimo Museo di Vienna. 10 pertanto ho voluto considerare convenientemente i due esemplari dell’ aureo de- scritto sopra al n. 4 esistenti nel Museo di Napoli, e paragonarli coi denarii di Pe- tronio Turpiliano mostranti la immagine congenere di un barbaro in ginocchio; ed ecco le principali differenze che vi ho rinvenute. Il Sarmata Domizianeo ò diadema- to ; tiene barba e capelli lisci e fluenti, come quelli delle popolazioni settentrionali; le brache sono strette , e munite di cintura nell’addome; la clamide triangolare che gli ammanta le spalle è ornata di un fiocco a foggia di globetto , nella estremità in- feriore. Nel Parto effigiato sui copiosi denarii di Turpiliano invece, il diadema poco apparisce; i capelli e la barba sono fortemente ricci; le brache molto ampie , come 11 dimostrano le numerose e lunghe pieghe; manca la cintura addominale; e la cla- mide infine, anch’essa triangolare, presenta lo stesso fiocco nella punta inferiore, ma la si vede alquanto piegata e serpeggiante. Ben diversi adunque sono i due tipi, non già similissimi , come l’Eckhel afferma; e tramandano evidentemente 1’ effigie di due popoli abitanti sotto climi disformi. In quanto poi all’aureo descritto al n. 5°, oh! quanto l’Eckhel addimostrasi cavilloso e di scarso criterio, scrivendo queste parole: € Advertendum etiam , alterum hunc numum Morellianum neque a Vaillantio , nc- que alio quopiam conspeclum , tametsi in numis Arschotanis exhibeatur numus Do- mitiani cum similiimo barbari genu curvantis typo adiecta epigraphe: signis a sar- matis rbcept ; sed satis cognita est intuta eius catalogi fides. Quod si numus hic delicatioribus aliis suspectus videatur , ut revera satis per hoc opus vidimus , non satis semper sinceros videri numos quos Morellius in suo Thesauro imperatorum proposuit , tum enimvero liceret suspicari , in numo ex adductis primo , contineri ar- gumentum Parthicum , ut recera ex annalibus huius aetatis vidimus , Vespasianum aliquoties cum Parthis collisum, sed in qua causa parce nos instruunt monumenta residua ». E m’incresce trascriverne gli eruditi vaneggiamenti ulteriori (Eckhel, VI, p. 372-73). Digitized by ^jOoq le — 127 — Ma nessuno vorrà qualificare per ottima , quella logica che condanna un monu- mento, solo perchè trovasi frammezzo ad altri di buona lega, sebbene mescolati con alcuni falsi. Il nummo fittizio serba in sé stesso tutti i segni dell'impostura; e non ha punto bisogno di buona o di cattiva compagnia, per essere riconosciuto dai giu- dici competenti. L* Eckhel contentasi di lanciare soltanto un* ombra di sospetto sul nummo Àrschotano; ma esso, per me, è falso, falsissimo, primo: per la forma della effigie; secondo : per la forma della epigrafe. Nella effigie , , il Sarmata apparisce in- berbe , tenta diadema , colle brache arrotolate a mezza gamba , scalzo , col mantello di strana foggia , ed infine, col braccio sinistro poggiato sul ginocchio corrispondente e non già disteso , colla palma della mano aperta e supina , come vedesi nei nummi legittimi ( Nummi Arschotani , tab. XXXI, n. 22. Gf. Gessner, Imp. Rom. tab. LXIV, n. 32). Ma più grave ancora manifestasi la forma della epigrafe: signis a sarmatis rbcrpt; perciocché in essa precipuamente veggonsi spuntare le orecchie d’asino del- r audace falsario. Altro difatti è il dire : signis receptis , altro il dire : signis a Sar- matis receptis , frase che in buon volgare significa : essersi dai Sarmati , e non già dai Romani , ricuperate alcune bandiere. Qualunque larghissima venia voglia accor- darsi a questa epigrafe , sarà sempre impossibile disconoscervi V ambiguità del sen- so , e quindi la sua patente falsità. Ciò non ostante però, il falsario , senza volerlo, ha reso un grande servigio alla Scienza : cioè ha confermato 1’ autenticità e la esi- stenza reale , fin da tempo antico, del nummo congenere Morelliano. Che ne sapeva egli , artigiano ignorante , se la moneta analoga di Domiziano col semplice cos v rappresenta un Sarmata od un Babilonese? È segno dunque che vide in altra colle- zione l’esemplare legittimo più esplicito, colla irreprensibile epigrafe: signis a sar- matis rbstitvtis; ma per dar nota di pregio e di rarità al suo conio, variò il vo- cabolo RE8TITVTI8 coll’ insensato receptis. Si noti da ultimo che il volume conte- nente i nummi Arschotani porta la data: Antuerpiae i65i , mentre le tavole del Mo- relli furono stampate in Amsterdam nel 1752: oltre ad un secolo di distanza. Non debbo qui trascurare la commemorazione d’un altro denario anche col Sar- mata in ginocchio, ma colla te^ta di Tito Cesare nel dritto (Mionnet, Méd. Rom. p. 159). La spiegazione di questo nummo, dato che sia genuino, non sarebbe molto facile ; noto essendo come Tito nulla ebbe che dividere coi Sarmati, e perciò tanto il Mionnet, quanto il nostro buon Gavedoni {Annali delV Instit. Arch. 1853, p. 17), in quel barbaro così prostrato credettero ravvisare un Giudeo. Ma la gran differenza fra il vestiario Giudaico, e quello dei Parti o dei Sarmati è meglio visibile nei sesterzii e nei dupondii di Vespasiano e di Tito, anziché nei denarii della famiglia Plauzia in- vocati dal numismatico Modenese. Per lo che, considerando l’estrema rarità di que- sto nummo ; la perfetta simiglianza del suo rovescio , e della epigrafe cos v , con quelli di Domiziano, io trovo indizii sufficienti per giudicare trattarsi di un prodot- Digitized by Google — 128 — to ibrido , cagionato dall’ aver il zecchiere erroneamente inserita nel cappelletto del conio unà matrice colla testa di Tito, invece di quella regolare colla testa di Domi- ziano. E tali sbagli, ognun sa che veggonsi frequentissimi nelle antiche monete. Negl’insigni documenti monumentali che stiam passando in rassegna, mi ha dato molto a pensare l’affinità grande del panneggiamento Sarmatico con quello dei Parti, ed il passo di Tacito che congiunge nella ragion vestiaria ambedue queste genti così lontane fra loro. Gli annotatori del grande Storico serbano perfetto silenzio su que- sto punto , quasi fosse di nessuna importanza ed immeritevole di schiarimento ; ep- pure non è così. Confinanti coi Sarmati lazigi , nella regione interposta fra il Da- nubio ed il Tibisco , i buoni ed accurati Geografi collocano i così detti Parthi , o Par - thini (Spruner, Atlas antiquus , tab. XVII), da non confondersi coi Partitoni, gente di origine greca dimorante nell’Illirico; e ad essi appunto io credo che Tacito allu- da. Erano forse i discendenti di qualche antichissima colonia Partica colà emigra- ta, e che diffuse fra i popoli vicini il patrio abbigliamento? La tesi è degna di es- sere profondamente studiata dai dotti della Germania, che ne hanno i mezzi ed il dovere. Tornando ora alla spedizione di Domiziano, dirò che il medesimo, dopo aver preso il consolato assieme con Cneo Pedio Casco , alle calende di Marzo dell’824, e poscia accompagnato il padre ed il fratello nel trionfo Giudaico, depose l’ufficio alla fine di Aprile, e nel Maggio consecutivo partì, come ho già oennato, per la Mesia, o dirò meglio, per la Pannonia alla testa della II legione Adiutrice, della XIV Gemi- na, e della V Macedonica, Varcato il Danubio, battuti i Sarmati, espugnati i loro ac- campamenti, e i loro castelli murati; e Dio sa quali devastazioni arrecate ai rima- nenti paesi , ebbe a misurarsi ancora con una parte degli Suebi confinanti , i quali dovettero furiosamente intervenire, o per soccorso dei convicini, ovvero perchè gl’in- vasori Romani non rispettarono il loro territorio. Ma si ebbero egualmente la peg- gio. E qui credo necessario avvertire come questi Suebi altri non potettero essere , che quelle frazioni Germaniche, le quali nel 772 furono collocate da Druso Cesare « Danuvium ultra , inter flumina Marum et Cusum » , dopo aver dato loro per re un tal Vannio (Tacito, Ann. II, 63), che accetto ed applaudito in prima, fu poscia espulso nell’803 {Idem, ibid, XII, 29). Vendicata per tal guisa V onta subita , e ri- conquistate le insegne della legione distrutta da quei barbari 1’ anno precedente, Do- miziano fa’ ritorno in Roma ; e dovette essergli meritamente decretata 1’ ovazione e la veste trionfale , perchè altrimenti con somma ingiustizia non avrebbe potuto de- porre solennemente la corona di lauro nel tempio di Giove in Campidoglio. Si ram- menti che le vesti trionfali furono decretate anche a Muoiano, per aver discacciati dalla Mesia i Daci, commisti ad una caterva di Sarmati, nell’ 822 (Tacito , Uist, Digitized by Google — 129 — III, 46; IV, 4). E, preterendo queste considerazioni, la Storia ne possiede il solenne attestato, nei seguenti versi di Marziale ( Epigr . Vili, 15): « Dum nova Pannonici numeratur gloria belli OmniSy et ad Reducem litat ara Iovem; Dat populus , dat gratus eques , dat tura Senatus , Et ditant Latias tertia dona tribus . Hos quoque secretos memorabit Roma triumphos, Nec minor ista tuae laurea pacis erit ; Quod tibi de sancta credis pietate tuorum. Principis est virtus maxima posse suos ». Nè vogliano credere i signori Critici, che gli epigrammi di questo Poeta siano stati disposti in perfetto ordine cronologico nei codici e nelle edizioni ; e neppure che il € tertia dona » indiclii un’ovazione posteriore ai trionfi Germanico e Dacico; impe- rocché Marziale allude evidentemente ai trionfi recentissimi di Vespasiano e di Tito. Oltre della ovazione , Domiziano ricevè , in premio del suo valore , la designazione al secondo consolato, che fu ordinario , « eumque cedente ac suffragante fratre » (Suet. Domit. II); ed a questi fatti io reputo che alluda il raro dupondio del Museo Theupolo: 6. ° cassar avo p domitianvs cos des li. Testa laureata di Domiziano . nf. s c. Tempio di Giove Capitolino (Eckhel, VI , p. 369). Questo nummo , in cui per la prima volta comparisce la testa di Domiziano ricinta di alloro, è classificato dall’E- ckhel sotto l’anno 825; ma forse è più convenevole il crederlo coniato verso la fine dell’anno precedente. La ricostruzione del tempio di Giove nel Campidoglio, incomin- ciata il di 21 Giugno 823, ebbe ad esser rapidamente condotta a termine nei tre primi mesi dell’ anno seguente, affinchè Vespasiano avesse potuto farvi il solenne ingresso nel trionfo Giudaico. E Domiziano in quel tempo era console effettivo, ma non era ancora stato designato alla iterazione dei fasci; per cui, il comparire la ef- figie del tempio medesimo nei suoi nummi posteriori non ad altro può ragionevol- mente riferirsi , che alla ovazione Sarmatica. Reputo inoltre che la laurea colà de- posta in tal circostanza venne puranco commemorata nel bronzo seguente, sul quale, nel caso opposto, verrebbe a mancare ogni altro significato: 7. ° domitianvs caesar. Testa di Domiziano laureata , volta a sinistra nf. Gran corona di lauro che occupa tutto il campo della moneta . In mezzo : s c. Dupondio (Cohen, tom. VII, p. 93, n. 90; Morelli, Num. Domit . tab. XIV, n. 24: Sesterzio). Ed esso vien confermato , con maggior precisione cronologica , dal seguente dupon- dio esistente nel Museo Nazionale di Napoli, sotto il n. 8939: 8. ° caesar domit cos ii. Testa laureata di Domiziano rivolta a sin . s c, in 17 Digitized by Google — 130 — mezzo ad ima gran corona di alloro . La data peraltro di questo nummo , mostra ch’esso sia una riproduzione posteriore , secondo il solito costume dei Flavii. Altre riproduzioni ancora io le trovo in quelle monete di oro e di argento , che portano nel rovescio la effigie di un capro in mezzo ad una corona di lauro, e la epigrafe: princeps ivventvtis (Cohen, tom. I, p. 412-13, n. 221; Morelli, /. c. tab. VI, n. 6; Vili, n. 12). Un’altra quistione resta finalmente a risolvere. Se il Preside della Mesia C. Fon- teio Agrippa cadde sul campo di battaglia « fortemente pugnando » nella invasione Sarmatica (Fl. Ios. B. /, VII, 4, 3), segno è che la sua legione venne dai barbari compiutamente trucidata , e che si giunse al combattimento estremo della dispera- zione. Ma qual fu precisamente codesta legione gloriosa e sventurata? Il Borghesi opinò che fosse la XXI Rapace: « Certo è che sotto Domiziano , e precisamente nel - Vanno 846 , per quanto si crede , « a Sarmatis legio cum legato simul caesa »... Se questa fu , come penso , la XXL , sarà del costume Romano eh’ essendo stata vinta e distrutta dai nemici , ella non fosse più ristabilita » (Borgh. IV , p. 251). E lo stesso dichiara il Mommsen ( Monum . Ancyr . p. 69. 2 ). Recano però gravi op- posizioni a questa sentenza due epigrafi sepolcrali di Amiens , dalle quali risulta che i vexillarii della predetta legione « euntes ad expeditionem Britannicam » elevarono a proprie spese i monumenti a due loro commilitoni colà morti durante il viaggio ( Reme Archéologiqué) 1881, tom. Il, p. 140-143). Ora, se la Rapace dopo la batta- glia Bedriacense giurò fede a Vespasiano , e poscia fu rimandata alla sua sede in Germania, ove valorosamente respinse le orde di Civile nell’823 (Tacito, Hist . IV, 78), questo di lei trasferimento nella Brittannia dev’essere avvenuto in tempi poste- riori ; e ciò mostra che non fu punto distrutta nella Mesia ; ma che probabilmente in quell’isola soggiacque all’ultimo fato. Ciò premesso, io ricisamente sostengo che la cercata legione altra non potette essere che la sesta Ferrata . Con essa difatti Mu- dano, venuto dalla Siria, respinse la invasione Dacica verso la fine dell’822 (Tacito, Hist. II, 82; III, 46); dopo di che egli proseguì il suo cammino verso l’Italia, ma dovè necessariamente lasciare la legione medesima per sostegno a Fonteio Agrippa allora sopravvenuto dall’Asia. Nè a costui furono spedite altre legioni in rinforzo, ma solo alcune squadre distaccate provvenienti dal disciolto esercito di Vitellio, come Tacito dichiara espressamente: « Fonteius Agrippa ex Asia ... Moesiae praepositus est , addi- tis copiis e Vitelliano exercitu, quem spargi per provincias et extemo bello in - ligari , pars consilii pacisque erat » (t&t&). Per questo motivo la sesta Ferrata non vedesi affatto comparire nelle battaglie posteriormente avvenute in Italia ed in Gei> mania. Perita essa dunque con somma gloria, come sopra ho esposto, non deve cader dubbio che fosse prontamente restituita coi suoi avanzi e con nuove cerne, dopoché Domiziano ebbe riconquistata la sua aquila e le sue lacere bandiere. L’epigrafia inol- Digitized by ^jOoq le — 131 — tre dà notizie di alcuni suoi militi scampati dalla strage: Fulvius Capratinus, in un marmo funebre nella Spagna, vien detto: Itolicensi , probàto • in • legione • vi • fer- rata; tramiate frurnentario in legione VII Gemina pia felice ( C . 7. L. Il, n. 4154); e L. Arterio Giuste , in altra epigrafe dichiarasi: centurio legionis III Gallicae; item centuno legionis • vi • ferratak ; item legionis II Adiutricis ; item centurio legionis V Macedonicae (C. I. L. IH, n. 1919). Ed a ragione il primo vantasi probatus in legione sexta Ferrata ; perciocché la frase contiene l’idea di avversità superate; e ben si appella uomo di esperienza chi è passato per le vie della sventura. Abbiano an- cora, in una epigrafe di Buda-Pesth , la memoria di M. Aurelius Clemens Signifer legionis VI Ferratae , qui est probatus in legione II a Cornelio Plotiano Legato (Ephemeris epigr . tom. 2, p. 384, n. 704) ; e qui vedesi come il valoroso soldato , nella stessa guisa di L. Artorio Giuste , volle far la campagna di rivincita contro i Sarmati aggregandosi nella legione seconda Adiutrice, e ben distinguendosi. Era buon uso Romano il traslocare le legioni dal luogo ove avean subito qualche disastro; così sappiamo che Tito allontanò dalla Siria e tradusse in Melitene la XII legione, memo- rando che nell’819 era stata volta in fuga dai Giudei colla perdita dell* Aquila, sotto Cestio Gallo (Fl. Ios. B. I. VII, 1, 3; Gf. Subt. Divus . Vespas . IV; Tac. Hist . V, 10). E perciò la nostra VI Ferrata , non appena fu ricostituita , coll’ aggiunta ben meri- tata degli altri gloriosi cognomi fidelis constans (C. I. L . VI, n. 210; X, n. 432), e posta sotto il comando del valoroso Q. Glizio Atilio Agricola, giusta l’ indizio che ne rinvengo in altra epigrafe (C. 7. L. V, n. 6974, e seg.), venne rinviata alle sue anti- che stanze in Siria , ove la troviamo appunto nell’ 825 (Fl. Ios. B. 7. VII, 7, 1); ma poscia da Traiano fu seco condotta alla spedizione Partica, come il dichiara la epigrafe di Tito Ponzio Sabino , tribunus militum legionis VI Ferratae , donis donatus expeditione Parthica a divo Traiano (C. 7. L. X , n. 5829). Al posto di essa nella Mesia fu spedita da Tito la legione V Macedonica , dopo la presa di Ge- rusalemme, che avvenne ai primi di Settembre dell’823 (Fl. Ios. B . 7. VII, 5, 3) ; e l’epigrafia lo conferma, memorando un M. Valerius Propinquus tribunus legionis V Macedonicae in Moesia , adlectus in equite a Tito imperatore (C. 7. L. Il, n. 4251). La scienza medesima inoltre ci manifesta il sistema tenuto dai Romani nel gover- nare militarmente i paesi sottoposti alle incursioni nemiche in quella provincia. Caio Bebio Attico , primopilo della stessa legione V Macedonica, fu Praefectus civitatium Moesiae et Treballiae; e similmente Lucio Volcacio Primo dichiarasi Praefectus ri • pae Danuvi et cvoitatum duarum Boiorum et Azaliorum ; tribunus militum legionis V Macedonicae in Moesia (C. 7. L. V, n. 1838; IX, n. 5363). Siamo andati un po’ per le lunghe nel rettificare 1’ epoca di questa prima spe- dizione militare compiuta da Domiziano; ma ce lo ha imposto la necessità di risol- vere tutte le altre importanti quistioni che l’accompagnano. Speriamo in compenso, Digitized by Google 132 — esser molto più brevi nel commemorare le rimanenti , cioè la Germanica e la De- ci ca. Sulla spedizione Germanica non può cader dubbio che venisse eseguita e termi- nata nell’836 (Eckhel, VI, p. 378); perciocché nell’anno seguente Domiziano inserì nei nummi il cognome Germanicus , ed il simbolo della vinta nazione, sotto forma di donna seminuda in mesta attitudine , sedente sopra uno scudo ottangolare , accosto ad una lancia spezzata {Idem , ibid. p. 379). E qui 1’ Eckhel sorge adirato contro Domiziano, dichiarando stolta ed inane la costui spedizione, se in essa, secondo Dio- ne , riapra* vide la faccia del nemico ; e ciò non ostante, volle vanitosamente sfog- giarne un ridicolo trionfo, conducendovi degli schiavi comprati , ed atti a simulare i prigionieri di guerra. Grida poscia contro il cognome Germanicus , parto di vana fantasia, e rimbrotta non solo Marziale , Silio Italico , e Stazio che di continuo lo attribuirono a questo imperatore « in grazia del metro » egli dice ; ma più di tutti dà addosso al povero Quintiliano: € Sed et turpis adulator Quintilianus, nulla pres- sus metri superstitione , eum nullo alio nomine nisi Germanici Augusti indicat » {Idem, ibid.). Ma su tanto fuoco è necessario gittare un po’ d’acqua fredda. È compiutamente falso che Domiziano colle sue legioni , nella spedizione contro i Catti della Germania , sen fosse tornato inerte a Roma senza vedere il nemico. Io non contrasto l’autenticità del passaggio di Dione: ’ex.o Tpaxsuoa? 8è eì? t>]v rspjiavtav, xai Ptjo’ aopavióc zov róXejjtov eiravyjxe (Dione LXVII, 4); ma solo affermo che lo sto" rico non allude alla spedizione avverso i Catti ; bensì a quella dell’823, che altrove non memora, nella quale Domiziano fu da Ceriale e da Muciano costretto a far sosta in Lione. Sarebbe cieco ad ambedue gli occhi della mente quel filologo che non conoscesse come il soprascritto passo non sta al posto suo , e non ripetesse col Reimaro: « Com - pilator male habuit Dionem » {Noia § 33 al lib. LXVII, 5). Esso è un periodo git- tato solitario in mezzo a narrazioni di specie diversa. Dione, dal primo fino a tutto il quarto paragrafo di questo suo libro 67. mo , non parla punto di guerre, ma di al- tri fatti particolari relativi a Domiziano : accenna al cognome Domitianus imposto al mese di Ottobre; ma tace affatto quello di Germanicus y dato al mese di Settem- bre. Più, nel paragrafo quinto consecutivo, narra come Chariomero re dei Gherusci, essendo amico dei Romani , fu scacciato fuori dei suoi dominii dai Gatti , e poscia rientrovvi col soccorso di Domiziano e di altri; ma fu espulso nuovamente. Ora tali fatti dovettero probabilmente accadere prima della spedizione in esame , e forse ne spronarono la esecuzione. Neppure io dissimulo la serietà delle parole di Tacito: « incrat (Domitiano) coìiscientia derisui fuisse nuper falsum e Germania triumphum , emptis per commercia quorum habitus et crinis in captivorum speciem formarentur » (Tacito , Agricola , XXXIX). Ma comprendo come , per maggiormente esaltare le grandi imprese del suo suocero Agricola, cercasse deprimere al più possibile quelle del l’aborrito Domiziano. E perciò alla sua testimonianza oppongo quella di Sesto Giu. Digitized by AjOoq Le — 133 — uo Frontino, cui egli fa di berretto, salutandolo « vir magnvs » {Idem. ibid. XVII); imperocché essa sola ha recato alla posterità un cenno più particolareggiato e verace della spedizione Germanica Domizianea: « Imperator Caesar Domitianus Augustus Germanicus , cum Germanos qui in armi s erant vellet obprimere, nec ignoraret maiore bellam molitione inituros si ad - ventum tanti ducis praesensissmt, profectionem suam censu obteceuit Galliarum. Su - bito hostibus , inopinato bello adfusus , contusa immanium ferocia nationum, prorvin- ciis consuluit » (Frontino , Stratagem. 1,1,9). Saggio ed accorto consiglio. Nel- T anno 830 ricorreva il censo quinquennale nelle Gallie , e Domiziano , colpito con questa scusa il tempo opportuno per celare lo scopo vero della sua mossa , re- cossi a Lione; e da lì con rapida marcia rettilinea sen corse a Magonza, ove var- cato il Reno , ed oltrepassato T agro Mattiaco gittossi improvvisamente sui Catti. Ma qual razza di fortissima ed astuta gente ebbe a combattere! « Duriora genti corpora, stridi artus, minax vultus et maior animi vigor; multum , ut inter Germa- nos, rationis ac sollertiae : praeponere electos , audire praepositos, nosse ordines, in - tellegere occasiones , di ff erre impetus, disponere diem, vallare noctem , fortunam inter dulia , virtutem inter certa numerare , quodque rarissimum , nec nisi Romanae disci - plinae concessum , plus reponere in duce quam in exercitu. Omne robur in pedite , quem super arma ferramenti quoque et copiis oneranti alios ad proelios ire vide - ras , Cattos ad bellum » etc. (Tacito, De morib. Germ. XXX). Siegue Frontino : « Imp. Caes. Domitianus Aug. Germanicus , cum Germani , more suo , e saltibus et obscuris latebris subinde impugnarent nostros , tutumque re- gressum in profunda silmrum haberent , limitibus per centum viginti millia passuum actis y non mutavit tantum statimi belli , sed et subiecit ditioni suae hostes , quorum refugia nudaverat » (Frontino , l. cit. I, 3, 10). Il rifùgio dei Catti era in un ra- mo della cupa e profonda selva nera, che estende vasi nel loro agro. Qual costanza, qual fatica sopportar dovettero le Romane legioni per diradare in sì lungo spazio quelle dense foreste di querce , di abeti e di faggi , i cui colossali rampolli vi son rimasti e vi si moltiplicano tuttora! € Imp. Caes. Domit. Aug. Germ., cum subinde Catti equestre proelium in sii - vas refugienda diducerent , iussit suos equites, simul ad impedita ventum esset, equis desilire pedestrique prugna confligere. Quo genere consecutus est , ne quis non loci ems victoriam miraretur » (Front., ibid. II, 11, 7). Velocissimi nella corsa doveano es- sere i Catti, se Domiziano per raggiungerli ebbe d’uopo scatenar contro loro le ale della cavalleria. Nè valsero le tagliate , fatte in tutti i sentieri dei loro boschi , ad arrestare d’un passo la spada del vincitore. € Imp. Caes. Domit. Aug. Germ. eo bello quo victis hostibus cognomen Germa- nici meruit , cum in finibus Cattorum castella poneret, prò fructibus locorum quae Digitized by Google — 134 — f vallo comprehendebant , pretium solvi iussit; atque ea iustitiae fama omnium fidem adstrinxit » (Idem, ibidLJ . Saggia e chiaroveggente condotta fu quella di non impa- dronirsi d’ un territorio che sarebbe divenuto fomite di lunga e micidiale guerra ; ma dopo aver domati quei barbari, ed insegnato loro a temere il nome Romano, Domiziano contentossi di estendere il confine dell’impero oltre il Reno da quella ban- da, e di fortificarlo convenientemente, pagando, con atto di generosa politica, ai posses- sori le terre occupate. L’Eckhel dunque, dissimulando questi classici passaggi, per dare alla sua ingiu- sta declamazione un* apparenza di verità , e forse vergognandosi di bistrattare un uomo sommo , colle male parole lanciate a Quintiliano ed ai Poeti , si è mostrato chiaramente Letterato di dubbia fede; e non ha compreso esser falso amor di Patria quello che consiglia l’insano tentativo di corromperne la storia. Ma proseguiamo il racconto. Tra le milizie che presero parte attiva alla guerra in discorso io rinvengo i vessillarii della nona legione Ispanica , memorati nella seguente insigne epigrafe Ti- burtina : l-roscio-m-f-qvi 1 1 aeliano-maesio | [celeri] [cos-procos-provinc 1 | africae»pr*tr- PL-QVAEST 1 1 AVO- X-VIRSTLITIB-1VDIC | |TRIB-MIL-LEG*IX-HISPAN | |VEXILLARIOR • EIV8DEM | |lN* EXPEDITIONE • GERMANICA | [DONATO • AB • IMP • AVO[ |MILITARIB • DONIS •CORONA||vALLARI*ET* M VRALI-VEXILLIS | |aRGENTEIS-II-HASTIS-PVRIS-II| |SALI0| |C‘VBCILIVS*C*F*PAL‘PROBVS| [AMICO • optimo||l-d-s c (C. I. L. XIY, n. 3612). I dotti hanno agevolmente riconosciuto che la spedizione militare di cui qui parlasi fu quella Germanica di Domiziano , il cui nome vien taciuto nella lapide per la proibizione di commemorarlo fattane dal Se- nato. L . Roseto , che fu console suffetto nell’853, coll’essere stato premiato della co- rona vallare , ed anche di quella murale , addimostra come Domiziano dovè non solo combattere i Gatti in campo aperto; ma espugnarne puranco gli accampamenti trin- cerati, e conquistarne di assalto i castelli ricinti di mura. E questo testifica che la conquista di quella nazione, riputata la più potente fra il formicaio delle tribù Ger- maniche, fu piena e compiuta; e che giustamente quell’imperatore potè scrivere nei suoi nummi: Germania capta, ed intitolarsi germanicvs, a simiglianza di Druso se- niore, il quale ebbe da Augusto questo cognome appunto per aver vinti e soggiogati i Gatti. Ma il furbo ed accorto germe delle rupi Sabine non profittò di una conqui- sta che covava gran fuoco sotto le ceneri: sgombrò , il territorio, restituì tutti i pri- gionieri, e stabili coi popoli vinti, ma non domati, un regolare patto di confedera- zione, memoratoci da Stazio (Sylv. Ili, 3, vs. 168): « victis parcentia foedera Cattis », e celebrato ancora dalle monete coniate verso la fine dell’anno stesso 836, nelle quali apparisce un caduceo alato , e la epigrafe : tr-pot-cos-viiii p p (Cohen , tom. I , p. 415, n. 250; Eckhel, VI, p. 378). Cosicché nel suo trionfo, per dar pasto all’incon- tentabile e satirico popolo Romano, dovè ricorrere all’impostura, e comprare un cer- Digitized by v^.oogie — 135 — to numero di schiavi atti a simulare i Gatti imprigionati, come sopra abbiam detto, nel riferire il passo di Tacito. Tre grandi vittorie ottenne Domiziano in questa spedizione; e per esse guada- gnossi tre volte il rituale impehatoh dalle sue legioni. Egli, per lo meno fino ai 31 Decembre dell 9 anno 835, intitolavasi tr-pot-immp-ii-cos-viii-desig-viiii (Eph. epigr . tom. 4, p. 496, Cohen, tom. I, p. 416, n. 258); e questi due saluti imperiali aven- doli inseriti anche nei nummi coniati fra il Settembre ed il Decembre dell’anno pre- cedente, cioè non appena salì al trono (Cohen, 1. cit . n. 253), mostrano che uno gli fu dato per la spedizione Sarmatica dell’ 823; ma lo tenne celato per simulare mo- destia; ed un altro lo dovè ricevere, secondo l'uso, nell’atto che fu dichiarato Augu- sto, come poco sopra ho connato. Intanto, un rarissimo denario veduto dal Morelli nel Museo Reale di Parigi reca nel rovescio la effigie di un elefante, e l’ epigrafe : tr p m imp v cos vini p p (Morelli, l. c. tab. X, n. 18; Eckhel, VI, p. 378; Cohen, l. c. p. 414, n. 241), la quale io addimostra coniato fra il 13 Settembre ed il 31 Dicembre dell’836, appunto quando Domiziano stava prossimo a tornare dal- la spedizione sui Catti . E tale quinta salutazione militare vien conservata anche in alcuni nummi editi in principio dell’ anno seguente 837 : imp caes domitia- nvs avo oermanicvs. Testa laureata a (ccrcto) D(gCMnonuw)-iNPANTi. Nelle Colonie e nei Munici- pii aggregavansi al collegio Decurionale anche alcuni fanciulli in pretesta , non già per riguardo alla nobiltà dei natali, come insinua il Mommsen ( l . cit. p. 327); ma in ricompensa di alcun beneficio singolare di pubblica utilità esibito dai Padri di ricche famiglie , a nome dei figliuoli. Il padre del nostro Lucilio dunque dovè fare qualche generosa largizione, nomine filii sui, alla colonia Ostiense, e ne fu retribuito in tal guisa. Il vir«praefecto*l*caesar | |avg*F‘Cens*q*a*pontif. Son queste le due righe vera- mente sibilline per la misera ignoranza della tarda posterità; ma che, ai tempi in cui furono vergate, doveano esser chiare come la luce del sole. Dalla retta intelligenza di esse dipende in modo assoluto quella di tutto il rimanente, in ambedue le epi- grafi, e la soluzione perfetta di ogni difficoltà. Incomincio pertanto dall’esporre i pen- samenti de’miei riveriti Predecessori su questo proposito. Il Visconti , primo editore del marmo , non interpreta chiaramente che le tre sole ultime note: cioè, « Quaestori, Aedili, Pontifici > (Ann. dell' Instit. 1857, p. 326, nota 2.*). Il Cavedoni legge esplicitamente: « II viro praefecto l-caesaris Avousti Filii» (Bullett. Arch. Nap. n. s. 1858, p. 194). Il Wilmanns: Q(uaestori A(erari) soltanto. L’Homolle invece, interpreta alquanto meglio: « Ilvir praefectus L. Caesaris.. cen - sorius » ovvero: « Ilvir praefectus L. Caesaris... censoris » (Reme Arch. 1877, p. 235, e 303). A tutti costoro fa seguito il Mommsen, che, senza conoscere l’opinione dell’ Homolle , scrisse : € Ilvir praefectus L. Caesaris Aug(usti) f(ilii) ; cens(or) » 20 Digitized by Google — 158 — {Ephemeris epigr. 1877, p. 327), e « q{uaestor) a(erarn) » {ibicL p. 328). L/Hiibner poscia alla sua volta incominciò a distinguere le specie, interpretando : « IIvir{ó) , praefecto L. Caesar{ù) Aug{usti) flilii), cens{ori), q{aestori) a{erarii), pontefici) » ( Exempla scrip . epigr . Lat. p. 379 , ad n. 1081). E finalmente il Dessau scris- se in prima: « praefectus L. Caesaris Aug{u&ti) /{ili) » (C. I. L. XIV, ad n. 376); ma poscia, giunto all’estremo rifugio degl'indici, adottò integralmente la interpreta- zione deirHomolle, ed emendò: « Ilvir praefectus L. Caesaris Aug{usti) /{ili) cenr s(oris) [sic videtur esse iungendum] »; e soggiunse inoltre: « quaestor aeravi » {Idem, ibicL p. 573 — Berolini 1887). Ben ponderate dunque tutte queste spiegazioni, ho il dispiacere di affermare che nessuna sembrami la vera . Nella mia illustrazione della legge Petronia Municipale espo- sta superiormente alle p. 3-20, Voi. XII, parte 2* ho dimostrato come i prefetti di sostituir zione ai duumvirati delle Città non potevano affatto appellarsi Duumviri, perchè Duumvi- ri non erano ; ma bensì semplici incaricati a tali uffici dai titolari rispettivi. E niuno poteva avere il dritto d’intitolarsi Duumvir senza essere stato eletto a questa carica, o nei pubblici comizii, ovvero, con suffragio ristretto, nel consiglio Decurionale (p. 114). Il duumvirato dunque del nostro Lucilio non era che 1’ ordinario da lui esercitato prima della prefettura Cesarea. Ma se l’Hiibner ha bene oprato coll’ ammettere que- sta distinzione, non può essere da me approvata la sua frase consecutiva : praefecto L. Caesaris Augusti filii; censori etc., per la ragione che rimarrebbe incerto se tal prefettura fosse stata l’ordinaria, ovvero la quinquennale; e perciò l’aggiunta €cen - $(orw) » è assolutamente indispensabile, sebbene neppur essa sia del tutto sufficiente. Imperocché io ho pienissima ragione di leggere ed interpretare queste due linee così difficili e controverse: dvvmvtro; praefecto lvci caesaris avgvsti fili censoris qvinqvennalis; aedili; pontifici. La specifica parola Quinquennalis soccorreva alla necessità di non confondere la censura Colonica con quella Urbana; ed era inoltre fra gli usi della epigrafia ufficiale di Ostia, attesoché nella seconda epigrafe di Lucilio, ai righi 7-8, riede il nviR(o)-CENSORiAE-poT(e$ta*w)-QviNQVENNAL( 2 ); ed apparisce anco- ra, espresso colla semplice sigla q, nel seguente frammento dei Fasti Municipali della città medesima (C. I. L. XIV, n. 245): C • CVPERIV*... fl-VIR-C-P-Q C • ARRIVA... Nè d’altra banda la sigla predetta può essere interpretata Q{uaestori) i attesoché que- sta carica viene memorata nel marmo sotto nome diverso, come più oltre dimostrerò. Digitized by ^ooq le — 159 — La menzione poi della edilità di Lucilio era ben necessaria, e non poteva omettersi, perchè dinotava un ufficio essenziale, senza il quale era legalmente impossibile pro- cedere nella scala degli onori. Assodati questi preliminari , prorompe subito la gran quistione fondamentale : chi mai era codesto Lucius Caesar Augusti fìlius? Scartato, siccome assurdo, il Lucio Cesare figlio adottivo di Ottaviano Augusto, proposto dal Visconti, e ben ve- duto dal Wilmanns e dall’ Homolle ; nè potendosi pensare a Lucio Vero , il quale non ebbe il cognome Caesar anteriormente a quello di Augustus , resta a considerare la possibilità dell’altro candidato proposto dal Cavedoni, ed umilmente accettato dal Mommsen e dal Dessau, cioè Lucio Elio Cesare , figliuolo di adozione dell’imperato- re Adriano. L’illustre e compianto Archeologo Modenese incominciò dal confutare il Visconti, che asseriva non trovarsi alcun marmo nel quale un figlio d’imperatore venisse an- nunziato col solo prenome . E mostrogli l’ esempio stringente della epigrafe di casa calda {Ann, delVInsiit . Arch, 1857, p. 88=Wilmanns, n. 1262), ove parlasi di un L, Aurelius l-caesaris libertus Nicomedes qui l caesaris*fvit*a cvbicvlo; il qual Cesare era appunto L, Elio , figliuolo adottivo di Adriano. Sentenziò quindi che l’epi- grafe Ostiense dovett’essere dedicata nel 136, o nel 137 {E. t\=889, 890 di Roma), vivente Adriano, il quale poscia in essa sarebbesi dovuto appellare divvs (Cavedoni, Bull. Arch. Nap.y n. s. VI (1858), p. 195). Per ispiegare poi l’altra frase: thermos quas divus Pius aedificaverat , che leggesi alle linee 18-19, e non potè scriversi prima del 161=914, ricorse alla ipotesi « che il marmo ... fosse da prima scritto fino al - rundecima linea , e che tutto il rimanente vi si venisse aggiungendo a mano a mano eh* egli faceva novelle largizioni , e che gli si decretavano novelli onori » {Ibid. p. 194-95). Ora, qui precisamente giace il più grande scoglio della sua interpretazione. Se il marmo fu dedicato nell* 890 , come mai in esso avrebbe potuto lasciarsi in bianco uno spazio maggiore della metà? Che ne sapevano gli Ostiensi del futuro? Chi mai vaticinò a costoro la lunga vita, e l’immutabile liberalità di Lucilio? Stra- nissima dunque deve riputarsi l’idea d’un monumento eretto e dedicato ventiquattro anni prima di esserne compiuta V epigrafe. Ed indarno il Mommsen suo seguace cer- cò di evitare questo precipizio, scrivendo: « Recte L. Caesar non divi filius appella - tur, sed Augusti , quamquam titulus scriptus est post Hadrianum mortuum et con- secratum; nam in honoribus enuntiandis modo id tempus respicitur , quo titulus seri - bitur , modo id quo gerebantur ; quo tempore autem Oamala L. Aelii praefectus futi, Hadrianus super erat, et superstes adeo fuit filio , ut divi filii appellatio omnino huic parum apta sit » {Ephem. epigr. 1877, p. 327). Imperocché la è questa una teorica di confusione, la quale viene d’ altronde smentita dalla stessa epigrafe , che appella Digitized by Google — 156 — Divus l’imperatore Antonino Pio, il quale, allorché edificò le terme Ostiensi , non era nè poteva essere collocato fra i numi. Come mai, in un pubblico monumento ufficia- le, sarebbe stato possibile concedere la divinità ad uno soltanto- dei due imperatori egualmente consacrati ? Ma ciò non basta. Se Lucilio fu Duumviro giusdicente prima dell’ 890, e se per le continue e dispendiose liberalità da lui erogate a prò’ de’ suoi concittadini ebbe a meritarsi 1’ onore di una statua in bronzo , per qual ragione co- storo lo tennero lontano, per venticinque anni ed oltre, dalle pubbliche magistrature ? In così lungo spazio di tempo avrebbesi almeno dovuto onorarlo colla reduplicazione del duumvirato ordinario, ovvero col quinquennale; nè tali fatti importantissimi po- tevano esser taciuti nel marmo, visto che la parola cens, quivi esistente al 7.° rigo, non è punto riferibile a lui. Intimato per conseguenza all’infermo e moribondo Elio Cesare lo sfratto dall’ uffi- cio di Censore Ostiense; e senza tampoco volgere lo sguardo al disgraziato Settimio Geta , il quale nelle monete ora si appella p-septimivs geta cassar, ed ora l*septi- mivs geta caesar (Cohen, M. I. tom. Ili, p. 458, nn. 1, 6, etc.), ci rimane ad in- dagare ed a stabilire, dopo sì lunghi conati , la personalità del L . Caesar Augusti filius , commemorato nel nostro marmo. Io su tal problema prontamente dichiaro, esser mia fermissima ed antica credenza, che trattasi unicamente di L. Aurelio Commodo , figlio dell’imperatore filosofo M. Aurelio Antonino. Senza risuscitare la vieta quistione Viscontea, risoluta dal Cavedoni col confronto della epigrafe di casa calda , piacemi indagar la ragione per la quale a Commodo fu conferito il prenome Lucius , mentre, per la nota legge del 514, sembra che avreb- be dovuto ricevere quello paterno: Marcus. Io credo che questo fatto possa spiegarsi considerando esser Commodo venuto a luce unitamente ad un gemello, il quale sup- ponendosi uscito dall’utero di Faustina prima di lui, dovea riputarsi primogenito, ed avente dritto, oltre del gentilizio, anche al prenome, unitamente a tutti i cognomi del padre. Erodiano difatti ci attesta essere stato cognominato Verissimus , B*]ptcct|i.os (Herod. Hist. I, 2), come lo fu M. Aurelio sotto Adriano (Capitolin., M. Antonin. philos . I ; cf. IV) ; e le monete ci mostrano a chiare note la di lui appellazione , riprodotta poscia nel terzogenito : annivs vérvs antoninvs , eh* era precisamente quella originaria del padre. E sarebbegli spettata certamente la successione all’ im. pero, se non fosse morto alla tenera età di quattro anni: € cum autem ( Faustina ) peperisset Commodum atque Antoninum , Antonimie quadrimus [elatus est , quem parem astrorum cursu Commodo mathematici promittebant » (Lampr. Commod. I). A Commodo per conseguenza non potevano spettare che il prenome ed i nomi del suo più prossimo parente, cioè dello Zio paterno L. Vero ; e questi difatti adopr6 costantemente fino alla morte del Padre, come il dimostra la numismatica e qualche Digitized by ^jOoq le 157 — epigrafe rimastaci; ma poscia, asceso al trono, volle ancor egli nel 934 prenominarsi Marcus, avutane senza dubbio la facoltà dal Senato. E solo verso gli ultimi anni del suo impero, circa il 944, tornò capricciosamente ad appellarsi Lucius. Dopo queste considerazioni procederò a stabilire l’anno preciso in cui esso Com- modo venne eletto Duumviro quinquennale nella colonia Ostiense. Narrano gli Sto- rici, come trovandosi M. Aurelio in Pannonia implicato nella guerra coi Quadi e coi Marcomanni, ed essendosi nel 928 sparsa per l’Oriente la falsa notizia della sua mor- te, Avidio Cassio Preside della Siria osò vestirsi della porpora imperiale e farsi pro- clamare Augusto dalle legioni e dai popoli eh’ erano sotto il suo governo. Atterrito Marco da questi eventi, e mirando anzitutto ad assicurare il trono alla propria dina- stia, chiamò frettolosamente a sè il giovinetto Commodo, che non ancora avea com- piuto il quartodecimo anno , e fattagli deporre la pretesta , lo rivestì solennemente della toga virile alle none di Luglio del detto anno (Dione, LXXI, 13; 22; Capi- tolino, M. Ant. PhiL XXII; XXIV; Lampridio, Commod . II). Lo condusse poscia secolui in Siria ed in Egitto per domar colla forza la ribellione; ma essendo stato ucciso Cassio nel frattempo, le cose subitamente avviaronsi allo stato di prima. Am- bedue quindi sen tornarono trionfanti in Roma ai 23 Decembre dell’ anno seguente 929. E Commodo , poco dopo , ebbesi la tribunizia potestà ; e fu designato console ordinario per 1’ anno consecutivo 930, avendo ottenuta dal senato la dispensa neces- saria (Lampridio, l. cit. cf. XII). Stringendo adesso il ragionamento , io affermo che lo stesso Commodo dovette essere eletto Censore in Ostia verso il Maggio del 929, allor quando egli trovavasi col % padre in Siria, o in Egitto, e se ne sperava il sollecito ritorno. E soggiungo, che il Lustro colonico ebbe regolarmente luogo in detta città, dal l.° Luglio del 929 infìno ai 30 Giugno del 930. Non credo sia difficile a chiunque il persuadersi che gli Ostiensi giammai avreb- bero potuto creare al grave ufficio di Censore un fanciullo in pretesta ; e che Com- modo in conseguenza non era per ciò eleggibile prima delle none di Luglio del 928. E la semplice frase: L . Caesar Aug . filius , mostra essere stata scritta nel marmo anteriormente al 28 Ottobre del 929, nella qual’ epoca Commodo ebbe dal padre il titolo d'imperator (Làmpr., Comm. XII). Ora i comizii quinquennali di Ostia cadde- ro appunto in questo intervallo; ed io non potendo comprovarlo direttamente, atte- soché nessuno scrittore, nessuna epigrafe finora lo dice, sarò pago di farne la dimo- strazione per via indiretta , che vale lo stesso. Ma occorre premettere , che 1’ anno amministrativo in questa colonia incominciava il primo giorno di Luglio , a simi- glianza di Pompei, di Nola, e di tutte le altre colonie Romane ancora, attesa l’uni- formità legislativa che dovea regnare nei punti fondamentali delle loro costituzioni. Digitized by ^ooq le - 154 Propongo dunque a tutti gli Archeologi intelligenti ed onesti, Tesarne cronologico e comparativo di quattro monumenti di Ostia tuttora esistenti. Il primo ed il più antico ò il frammento dei fasti di essa colonia, che abbiamo poco sopra riferito a p. 154, nel quale apparisce essere ivi caduto il censo nel 2.° semestre dell’ anno 844, e nel l.° dell’ 845, attesoché la nota è posta in mezzo alle due date consolari: [M\ Acilius O labrio— M . Ulpius Traianus ], e Domitianus XVI — Q. Volusius Saturninus (C. I. L. XIV , n. 245). Ora , ognun vede che se il censo continuò regolarmente in Ostia ad ogni quinquennio , e non vi è nessun motivo di dubitarne , esso dovè celebrarsi ancora nel primo semestre del 929 , e nel secondo del 930, siccome noi abbiamo stabilito. Questo calcolo è facilissimo e verace, atte- soché vien confermato in primo luogo dalla tabula corporatorum Lenuneulariorum tabulariorum aucoiliares Ostiensvum , che porta la data consolare del 905 (Ibid. n. 250). In principio di questo marmo, difatti, vengono registrati , colla qualifica di patroni del collegio, quattro senatori Romani, e perciò é aggiunta ai loro nomi anche la pa- ternità, la quale viene generalmente omessa negl’individui consecutivi. Poscia alquanto verso il lato destro vi si legge (Un. 6-8) : Q • Q M • CORNELIV8 • M • F 8ECVNDVS Chi era dunque costui ? A mio giudizio, era uno dei quinquennali che funzionavano in città al principio di quell’ anno 905 ; e vien commemorato colla stessa solennità genealogica dei precedenti , per la ragione eh’ era ancor esso uno dei patroni . Non può quindi affatto riguardarsi come quinquennale del collegio; attesoché questo è de- scritto alle linee 14-15: qvinq||m-antistivs helivs ; ed il suo collega deve ricono- scersi nel qvinq perp||m-cornelivs epagathvs menzionato nelle due righe prece- denti. Conosciamo per conseguenza che anche nel 904-05 ricorreva in Ostia il rego- lare quinquennio , e che uno dei censori era M. Cornelio Secondo. Cadde quindi in errore il Dessau , col confondere questo personaggio coi quinquennali del collegio, sì nella nota del volume predetto a p. 47 , come nell’ indice a p. 574 ; e neppure T Hiibner giunse a farne la retta distinzione (. Exempla script, epigr . Lat. p. 380, ad n. 1082). Segue una seconda conferma al mio calcolo; e questa é bellissima e stringentis- sima, attesoché riguarda un quinquennio celebrato dieci anni prima del 929-30. Sca- vandosi, sul principio del 1886, le macerie del teatro di Ostia , comparve una base marmorea ornata con bassorilievi, ma colla epigrafe del fronte totalmente cancella- Digitized by v^oogie — 455 — ta. In uno dei lati però rimase fortunatamente superstite la seguente appendice (C. I. 0 L. XTV, n. 4148): DEDICAT • III • K • IANVAR Q • 8BRV1LIO • PVDBNTB • L • FVFIDIO • POLIONE • COS Il VIRIS • Q • Q • C • NASBNNIO*MARCBLLO*ET»M*LOLLIO‘PAVLINO La data consolare qui espressa ò, come ognun vede, il 30 Decembre dell’anno 919, quando era prossimo a scadere il primo semestre del quinquennio , e ad incomincia- re il secondo . Questo insigne documento dunque conferma non solo la regolare suc- cessione del censo Ostiense nei periodi da me stabiliti ; ma dimostra di vantaggio come Fanno amministrativo della colonia avea principio al primo giorno di Luglio , secondo la mia assertiva. Oltre di questi tre marmi, piti che sufficienti al mio scopo, la Scienza me ne offre un quarto , per dimostrare che anche in tempi molto posteriori al 930 conti- nuossi in Ostia la regolare celebrazione del quinquennio. Intendo alludere al fram- mento colla seguente data consolare (Ibid. n. 352, b) : DEDICAT XVII KAL A ////// TER • ET • SEMEL • GoS In esso parlasi d’un locale della città, assegnato col permesso del Pontefice di Vul- cano, 8VB QQ C-p||q*VBTVRI FIRMI FELICIS | [SOCRATIS ET | |l • PLORI BVPRBPETIS. L’ am- biguo significato della data ipatica venne discusso dal Marini (I. A . p. 49, seg.) e poscia lungamente dal Borghesi (VII, p. 40-44), il quale conchiuse che il ter et sbmel cos può riferirsi o all’anno 202 (=955), o all’anno 251 (=1004), ovvero al 287 (=1040); ma egli preferisce il 251 (Ibidem, p. 44). E questa opinione venne con buone ragioni confermata dal Visconti (Ann. dell Instit. Arch . 1868, p. 384). Io dunque non potendo rifiutarla, benché le altre spiegazioni siano egualmente buone per la mia tesi, osservo che se la data in esame appartiene veramente al 1004, Fultima lettera dimezzata A, nel 1° rigo, deve supplirsi k[ugusti\, e non già AQprtfw], atte- soché ai 16 Marzo di quell’anno, i quinquennali sopra segnati non ancora erano en- trati in carica. La conclusione generale pertanto di questa discussione assoda il fatto storico finora ignorato, che in Ostia, ricorrendo i comizii quinquennali circa il mese di Maggio del 929, risultò eletto Commodo Cesare all’ufficio onorevolissimo di duumviro censore . Ma sic- Digitized by ^jOoq le — 160 — come egli trova vasi in Oriente, gli fu tosto notificata l’elezione, ool mezzo di spe- ciali legati. E Gommodo, accettata l’onorificenza, delegò per suo rappresentante P. Lu- cilio Gamala. La nostra lapide in conseguenza acquista una data certa, non anterio- re all’ anno 930 ; e risulta con ciò evidentissimo l’ errore del Visconti , il quale per false ragioni, riputolla posteriore all’altra che dovremo esaminare, dedicata allo stesso Lucilio. E tale errore fu ciecamente seguito da tutti gli altri , ad eccezione del Ca- vedoni. TABviAR(wm)-ET LiBRORVM*cvRATORi-PRiMO-coNSTiTv[fo]. Di questa carica eserci- tata in Ostia dal nostro Lucilio , nessuno ha saputo escogitare qualcosa di preciso ; ed il Mommsen in ultimo luogo scrisse: € Cura eius in municipiis alterum exemplum nullum novi; expressa est ad curatores tabularum publicarum urbanos numero tres t qui primum imperante Tiberio constituti sunt ad tabulas tabularii publici instau- rando s vel supplendo s » ( Ephem . epigr . ITI, p. 328 ). Ma queste idee, salvo la curio- sa definizione dell’ufficio Urbano dei curatores tabul. public ., erano già state espres- se dal Visconti (Ann. delVInstit . Arch. 1857 , p. 326 - 27 ). Io però ne trovo la giusta e regolare spiegazione nel seguente passo di Capitolino (M. Antonia, philosoph. IX): « (Marcus) per prouincias tabulario rum publicorum usum instituit , apud quos idem de originibus fieret quod Romae apud praefectos aerarti , ut , si forte aliquis in provincia natus causam liberalem diceret , testationes inde ferrei ». L’ imperatore fi- losofo dunque fu colui che con somma saggezza instituì in tutte le Provincie e città dell’impero Romano i pubblici archivii per conservare le tavole del censo, che noi chiameremmo registri dello stato civile , affinchè dappertutto fosse stata agevole e senza spesa la ricerca degli atti di nascita e condizione sociale di ciascun cittadino, tutte le volte che occorresse, per cagion di litigi , esibirne ai tribunali l’ufficiale at- testato. Anteriormente tutto era accentrato all’erario di Saturno, al quale, per un’an- tica legge conservataci dalle tavole di Eraclea, doveano essere spediti in ogni quin- quennio i registri censuali (C. I. L. I , p. 122 - 23 , lin. 142 - 156 ). Vanamente il Sal- masio accusò Capitolino di falsità, dicendo che Marco non fu il primo a creare que- sti registri , ma riformò in meglio l’antica legge (Ad Capitolin. 1 . cit.). Imperocché, non cade dubbio che in ogni città dovea serbarsi almeno una copia delle tavole del censo; ma i privati, anche nelle piti lontane provincie, non avendo facoltà di farne ricerca, e di ottenerne i certificati legali, dovevano per tale oggetto rivolgersi esclu- sivamente a Roma, con grave incomodo e dispendio. Malissimo dunque fu da quel- l’uomo dotto interpretato il passo del Biografo, il quale non afferma che il buono impera- tore instituì i registri del censo , ma dice solo di averne il medesimo, ordinata la collocazione in separati archivii accessibili al pubblico. E la nostra epigrafe è l’uni- ca che addimostri come questi archivii erano affidati alla cura di speciali magistrati Digitized by ^ooq le 161 — scelti fra i più probi cittadini, e costituiti a simiglianza di quelli stabiliti in Roma da Claudio imperatore. Essa inoltre spiega il significato di una lapide Tarragone- se, nella quale a Flavio Arabino, omnibus honoribus in re publica sua functus, fu elevata una Statua OB-CVRAM-TABVLARI-CENSVALlSFIDELITER-ADMINISTR(atam) (C. 1. L. II, n. 4248). Di grande importanza, per ultimo , deve ritenersi la frase: cvratori primo coNSTiTv(fo); conciossiachè essa conferma nel modo più esplicito tuttociò che fino ad ora ho avuto la soddisfazione di esporre. Era negli usi epigrafici lo specifica- re gli ufficii di prima nomina esercitati dai titolari rispettivi, come ne offre ottimo esempio l’insigne base di Concordia elevata ad onoranza di C. Arrio Antonino ( C . 1. L. V, n. 1875), il quale vi è dichiarato: practor tutelaris primus , nonché iuridi- cus per ltaliam regionis Transpadanae primus. Ed il nostro Borghesi accortamente dimostrò che ambedue le cariche furono istituite da M. Aurelio, e che C. Arrio fu uno fra i primi cui ne venne affidato l’esercizio (Borghesi, V, p. 386-88, e 391-92). Intanto è da notarsi come le memorie epigrafiche di questi curatores tabularum nei muni- cipii sono ben rare; e fino ad ora, oltre a quelle sopra esposte, non si conosce che il seguente bel marmo di Aquae scxtiae (C. I. L . XII, n. 545) : SEX • SEMICIVS • VOLT MAXlMINVS • AED • DECVRIO • Q TABVLARl • PVB • CVRATOR SEX • SEMICIO • VERO • IVL-SYRAE parentibvs-optimIs-verat-nice VXORl • CARISSIMAE • SIBI • ET • SVIS V • P • Ma esso alle linee 2-3 non deve punto interpretarsi coll’Hirschfeld: aedilis, decurio , quaestor tabularii publici curator ( ibid . p. 65, e negl' indici); confondendosi per tal guisa due uffici municipali di natura, di grado, e di attribuzioni diverse. La nostra epigrafe Ostiense, dopo aver riferite le principali cariche religiose e civili esercitate da Lucilio , passa a descrivere le sue splendide munificenze a prò’ della patria. E narra com’egli a proprie spese amplificò tutt’i ludi che avea obbligo di far eseguire allorché veniva eletto alle cittadine magistrature , e che inoltre esi- bì ai popolo uno spettacolo di gladiatori, e rifece il tempio dei Dioscuri cadente per vetustà. Soggiunge poscia (Un. 14-17) : IDEM-CVRATORPECVNIAE‘PVBLICAE-EXIGENDAE-ET*ATTRIBVENDAE-IN*COMITIIS'PACTVS* cellampatritiberinorestitvit. Nessuno finora ha saputo spiegare con precisione cosa fosse quest’altra carica municipale conferita a Lucilio. Non si è osato sospetta- si Digitized by ^jOoq le — m — re che si trattasse delia questura, attesa la mala intelligenza data alla sigla Q, esi- stente al 7.° rigo, colla concorde interpretazione: Q(uaestori). Ma la mia nuova spie- gazione: Q(uinquennalis) rimuove ogni ostacolo, e ci pone in grado di giudicare che nei righi in esame trattasi veramente della carica questoria. Vero è che altre epigrafi dimostrano come il questore Ostiense veniva appellato anche coi nomi comuni di qvae- stor, ovvero qvaestor aerari, e qvaestor aerari ostiensis (C. 7. L . XIV, nn. 17i, 298, 409); ma ciò non poteva impedire che lo stesso ufficio fosse talvolta commemo- rato per enumerazione di parti , cioè per la cura degVintroiti e degli esiti pubblici, la quale non ad altri che al questore poteva appartenere. E l’argomento ineccepibile che ciò dimostra , è la specifica: in comitiis factvs , con cui vollesi render noto come Lucilio era stato eletto per pubblico suffragio , e non già con suffragio ristretto, dal solo collegio decurionale , per effetto dei casi contemplati nella legge Petronia. La tavola di Malaga, ed altri documenti mostrano che tre sole erano le cariche municipali elettive nei pubblici comizii: il duumvirato , la edilità, e la questura . E perciò non reputo di buona lega l’assertiva del Mommsen: «... quaesturam apud Ostienses mu - neribus loco fuisse gradum certum nullurn obtinentis , cum aedilicio quoque confe- ratur , neque intervallum ullum requiratur inter eam et duoviratum » ( Ephem . epi- gr. Ili, p. 328); e similmente credo erronea la ripetizione del Dessau (C. 7. L. XIV > pag. 4): « Quaestura non videtur habuisse certum locum inter magistratus, sed ae- di Ut is infimus honorum gradus fuisse ». Imperocché non poteva affatto accadere la stranissima anomalia che Cneo Senzio Felice fosse stato eletto edile, prima di esser de- curione e questore, siccome in principio par che dica la sua confusa lapide (Ibidem, n. 409); ma che poscia meglio rettifica, soggiungendo: hic primvs-omnivm qvo anno*dec(m- no)-ADL(eC^)-EST-ET Q(Mrt^fór) A(emn)*FACT(t«)*EST-ET«IN • PROXIM(wm)- ÀNNVM-IIVIR- design at(ws) -est etc. Le quali parole significano che il titolare, dentro lo spazio d’un solo anno, fu eletto decurione; creato questore; dispensato dall’esercizio della edilità: aedilitatE'REMISsa (C. 7. L . IX, n. 5445); e designato duumviro per l’anno seguen- te, previa 1’ altra essenzialissima dispensa di tutti gV intervalli richiesti dalla legge. Trovo per conseguenza mal supplita nel penultimo rigo la epigrafe di C. Fabio A - grippa (C. 7. L. XIV, n. 349), nella quale preferisco leggere: dec*decr-decvrió[ni- \oi,(jectó)'Q(iiaestorÌ)] )| ardili li viro . Del resto le cariche municipali veggonsi non descritte per ordine, ma rimescolate e confuse, nella maggior parte delle lapidi Ostien- si ; ed osservo ancora come spessissimo in epigrafia la questura vedesi situata fra T edilità ed il duumvirato. Ma a render piena ragione di questi fatti, che ho suffi- cientemente studiati, occorrerebbe scrivere una speciale dissertazione. . Tornando alla epigrafe di Lucilio, essa ci fa noto che nell’ anno in cui fu que- store rifece a nuovo la cella del tempio dedicato a Tiberino . Giustamente gli O Digitized by ^ooq le — 163 — stiensi veneravano questo nume col bel nome di patei • , dappoiché era ad essi fe- condo di prosperità e di vita. E Virgilio così ne descrisse la immagine (Aen. Vili, vs. 31-34): € Huic deus ipse loci fluii o Tiberinus amoeno Populeas inter senior se attollere frondes Visus. Bum tenuis glauco relabat amictu Carbasus , et crines umbrosa tegebat arando ». Sono notissimi inoltre il passo di Servio, riguardante il detto tempio in Ostia (ad Aeneid. Vili, vs. 13); e la celebrazione delle Tiberinalia , che accadeva il giorno 17 Agosto di ciascun anno (C. I. L. I, p. 399). IDEM-THERMASQVASDIVVS-PIVS-AEDIFICAVERAT-VMGNISCONSVMPTASREFECIT • PORTI- cvmreparavit. Per conoscere approssimativamente la spesa cui Lucilio sobbarcossi per la ricostruzione di queste terme, fa d’uopo ricordare come il frammento dell’antica epigrafe ivi collocata, dice che Antonino Pio, thermas-in*qvarvm-exstrvctionem-di- VOSPATER-SWS-ttS- 1 XX|-POLLIC[lTVS ERAT] 1 1 ADIECTA-PECVNIA-QVANTA AMPLIVS • DES1DER A- batvr-item marmoribvs ad-omnem o[rnatvm*perfecit] ( C . /. L. XIV , n. 98). Vi fu consumata dunque una somma assai maggiore di due milioni di sesterzii nel primo impianto; e Lucilio per ricondurle al pristino stato, e riparare anche i danni^ del por- tico che circondavale , dovette probabilmente spendere più di un milione di sester- zii. L’ incendio poi , io credo fosse accaduto dopo la morte di M. Aurelio , atteso- ché costui giammai avrebbe permesso che 1’ opera monumentale del divo Padre suo, quasi l’avesse in dispregio, fosse stata ricostrutta da un semplice privato. Com- modo per converso, non era uomo da curare tali punti di onore (Lampridio, Com- tnod. XVII). Continuando la nostra epigrafe la descrizione delle liberalità di Lucilio, ricorda ch’egli a sue spese rifece puranco il tempio di Venere, nonché i pubblici pesi al ma- cello, e le misure al foro vinario. Indi prosieguo (Un. 25-27): IDEM • NAVALE*A*L*COILlO • ABDIFICATVM • EXTRV///TIBVS-FERE-C0LLAPSVM-RESTITVIT. Vantasi il Mommsen di avere prima di ogni altro supplita la lacuna che una scheg- giatura del marmo ha prodotta all’EXTRv. . .itibvs; ma, se il vanto è giusto, non credo affatto tale il suo supplemento: extrv[cw]tibvs, e la spiegazione che ne porge. « Hiatum exiguum , egli dice, quem priores quomodo explerent frustra quaesiverunty jìuto recte ita resartum esse ; navale enim cum duplicem signiflcationem habeat vcwooixou et vauTOr i Y^ y certe usu vulgati {cfl Servius ad Aen. li, 326: loca in qui- bus naves fiunt Graece vauTnfywt , Latine textrina dicuntur... navalia enim non esse Digitized by Lnoog le vau^Y^ > sed Vficipia) , commode distinguuntur navale extruentibus factum et factum subducentibus » ( Ephem . epigr. Ili, p. 330). Per conoscere la regolarità di queste assertive che non mi persuadono punto, e delle quali dubita ancora il Jordan (C. I. L . XIV , ad n. 376) , ho chiesto un calco in carta bagnata della parola spezzata in esame, ma invece me n’è pervenuta l’impronta su carta lucida, che qui sotto riprodurrò fedelmente. Da essa apparisce nel modo più indubitabile, che lo spazio scheggiato interposto fra P V ed il T è molto più largo di quello occorrente ad inserirvi le due lettere en supplitevi dal Mommsen ; e che invece potrebbero comodamente giacervi tre lettere della stessa forma , ed alla me- desima equidistanza delle rimanenti. Ciò assodato, non mi resta alcun dubbio che il vero supplemento di quel vocabolo debbe essere assolutamente extrv[den]tibvs; ed ora accìngerommi ad interpretarlo. Prima d’ogni altra cosa potrebbe dimandarmisi qual sia il significato della stra- na parola : extrudentibus . Rispondo eh’ essa non è una; ma deve suddividersi nelle due voci ex, e trudentibus . Nè può recar meraviglia la omessa interpunzione, ed il congiungimento operatovi dal lapicida , qualora si consideri come il medesimo ha scritto similmente nel 1° rigo della pietra: PLVGILIOP ///, e più in basso: gladia- torivmded, nonché: factvscellam (Gf. Hùbner, Exempla script . epigr . Lat. n. 1081). Nel trvdentibvs quindi è necessario ravvisare un ablativo plurale del participio trudem trudentis , adoperato sotto forma sostantiva, e sostenuto dalla preposizione ex. Il verbo transitivo Trudo , notissimo a tutti, significa sospingere con forza , impetuo- samente ; ed i Lessicografi fra gli altri esempi han riferito quello di Lucrezio (VI, 1034): € Trudit et impeliti, quasi navim velaque ventus ». Conoscesi inoltre lo stru- mento in uso fra i marinari appellato Trudis , e così definito da S. Isidoro: « Trudes hastae sunt cum lunato ferro: ab eo quod trudunt et detrudunt » (De origin ., VII, 18; cf. De Vit, Lexicon , s. v. trudis). I Trudentes di Ostia dunque erano quei marina- ri, i qùali col mezzo di lunghe pertiche munite di uncini ferrei, sospingevano le barche in un dato punto del porto, ovvero da esso le ritraevano. E per conseguenza deve ripu- tarsi che il navalis rifatto da Lucilio non era un textrinum, un arsenale di costru- zioni nautiche, ma un semplice bacino edificato onde poter comodamente caricare, o scaricare le merci. È naturalissimo quindi che, dal continuo urto delle barche quivi spinte con soverchia violenza, se ne fosse sconquassata e quasi distrutta la banchina lapidea. La nostra epigrafe perciò non lascia nell’ incerto la causa del deperimento del vstoptov Ostiense, che potrebbe anche essere stata un tremuoto; ma V attribuisce tutta alle rudi e frettolose operazioni dei trudentes. E così coll’aiuto d’un semplice D, trovomi precisamente sul polo opposto della spiegazione Mommseniana, speciosa, ma rifiutata dal monumento. Ecco intanto il fac-simile dell’impronta pervenutami da Ro- Digitized by v^oogie — 165 — ma, alla quale con lettere nereggianti ho aggiunto il mio supplemento, per dimostrar- ne la possibilità effettiva. hvic • statva • aenea • peq • p • d • d • posit-est | Jhic-ws-xvii//// / /////• Con queste parole termina la nostra classica epigrafe; e non occorre comentarle, perchè 1* intelligenza n*è chiarissima. I frammenti di lettere visibili all’ultimo rigo non possono essere da me suppliti od interpretati, attesoché niun epigrafista ha preso la cura di specificare a qual lettera dell’alfabeto appartiene o può appartenere ciascun elemento di esse; e colla difettosa riproduzione tipografica nulla di probabile può escogitarsi. Procederò dunque a vergare poche parole di schiarimento alla epigrafe consecutiva, la cui in- telligenza vien sommamente facilitata da quanto si è esposto. Incomincia essa dall’ annunziarci come Lucilio , dal grado di terzo pretore ad- detto alle sacre funzioni nel tempio di Vulcano, venne promosso ad un grado mag- giore, cioè ad edile . Poscia, nel commemorare le sue cariche municipali, narra che fu aedilis allectus decreto decurionum gratis ; vai quanto dire che non esercitò effet- tivamente l’ufficio di aedilis, ma ne ottenne la dispensa gratuita per decreto dei de- curioni. Queste adlectiones arbitrarie erano a quei tempi la gran piaga non solo delle amministrazioni municipali, ma puranco di quella dello Stato; e lo testifica il seguen- te passo di Capitolino ( Pertinace , VI) : « Et cum Commodus adlectionibus innu- meri s praetorios miscuisset , senatus consultimi Pertinace fecit iussitque eos qui prae- turas non gessissent , sed adlectione accepissent , post eos esse qui vere praetores fuissent ». Segue la epigrafe a ripeterci che il Protagonista fu decurione e pontefice (lin. 6-7); ma qui è chiarissimo essere la menzione delle cariche civili non ordinata crono- logicamente, bensì confusa e rimescolata cogli uffieii religiosi. Essa condurrebbe all’ipo- tesi, che Lucilio fosse stato prima creato edile onorario; poscia decurione; ed in se- guito pontefice. Ma questa illegalissima inversione non poteva aver luogo ad alcun patto (Paolo, Digest. L, 3, 7, § 2); e d’altronde l’altra epigrafe ci ha fatto conosce- Digitized by ^ooq le — 166 — re come il medesimo fu eletto decurione allorché era nell* infanzia, nè vi ha esem- pio alcuno di edili , ovvero questori praetextati, sì effettivi , come onorarli. nviR-CENSO| IrIAE POT-QVINQVENNAL- | |lN • COMITlS • FACTO • CVRAT«| |PECVNIAE* PVBLI- cae • exigen | |dae • et-adtribvendae (Un. 7-11). È questo uno dei periodi importanti della seconda epigrafe Luciliana, attesoché provoca la discussione sopra l’erronea in- telligenza attribuitagli dal Mommsen. Questo epigrafista ha riputato che Lucilio una sola fiata esercitò in Ostia la carica suprema di duumviro effettivo ; ed essa fu non semplice , ma quinquennale : « Gamala enim si bis duoviratu functus esset , altero vulgari, altero quinquennali , ibi iterationis nota adicienda fuisset » (Ephem. epigr . Ili, p. 327). Ora, se ciò fosse vero, troverebbesi quivi avvenuto il fatto di un citta- dino che, avendo esercitata solamente la questura, sarebbe d’un salto asceso alla su- prema dignità della censura. Ma questo è illegale ed assurdo, siccome ho dimostrato illustrando la legge Petronia; ed è falsa e confusiva la teorica che pretende doversi nelle epigrafi menzionare l’ iterazione della dignità in colui che venne eletto quin- quennale dopo aver sostenuto il duumvirato ordinario. Ne abbiamo le pruove evi- dentissime nella epigrafia Pompeiana , ove C. Caspio Pausa , in lapide ufficiarle , è qualificato: IIviridqvarTqvinq (C. I. L. X, n. 790); cioè Duumviro iuri dicundo quartum , quinquennali [semel], siccome la frase deve rettamente interpretarsi. E si- milmente con maggior chiarezza M. Olconio Rufo s’intitola: !I-vir-i-d-v||qvinq-iTer (ibid. n. 830); vai quanto dire Duumviro iuri dicundo quintum , quinquennali iterum . E taccio per brevità tutti gli altri numerosi esempii, i quali nella stessa guisa dimostra- no come le due supreme dignità solevano commemorarsi non confusamente, ma con ordine separato. Alla lapide Ostiense dunque può attribuirsi solamente il torto di avere omesso il duumvirato semplice anteriormente conferito a Lucilio; ma può pure essere scusata, dalla ricordanza che l’una carica suppone l’altra per legale necessità. Una seconda quistione è da risolversi nelle cinque righe sopra segnate; cioè se la frase : in comitiis facto deve riferirsi alla censura , oppure alla questura. Il parer mio è favorevole alla prima di queste attribuzioni; mentre non dubito che il marmo abbia voluto manifestare la elezione di Lucilio fatta con ampio suffragio popolare, e non già col tenue voto dei soli decurioni, per autorità della legge Petronia. Il Mom- msen in contrario attribuisce la frase stessa all’ufficio di curator pec. pub. dato simil- mente a Lucilio nei pubblici comizii , come è specificato nella epigrafe anteriore (Eph. epigr. m , p. 328) ; ma in questa ipotesi ognun vede quanto sia stentata ed irregolare la sintassi del periodo , la quale richiede prima la menzione dell’ oggetto principale, e poscia quella degli accessorii, siccome rettamente si è usato nella epi- grafe compagna. Dopo questi preludii, segue la nostra epigrafe a descrivere tutte le altre nume- / Digitized by u^oogie - 167 — rose e dispendiose liberalità erogate da Lucilio , a beneficio ed a decoro della sua patria. Fra esse reputo degne di essere illustrate quelle espresse nei righi 16-21 : IDEM-EPVLVM-TRICHILINISCCXVII • 1 1 COLONIS DEDIT | |lTEM • PRANDIVM • SVA • PECVNIA- colonis | |ostiesibvs • bis • dedit. Al solenne banchetto dato dal dovizioso Personaggio dovettero intervenire soltanto i più notabili fra i cittadini della colonia, per la ra- gione che essendosi in esso adoperati solo dugerUo diciassette triclini , ed ognuno di questi potendo contenere solamente tre individui, ne consegue che i convitati furono non più di seicento cinquantuno , supposto che non vi fossero intervenuti anche i gio- vanetti loro figli, i quali solevano mangiare seduti separatamente in piccoli subseUii. Nei due prandii però, ebbero a prender parte tutti i coloni indistintamente; ed essi, ben s’ intende , doveano ascendere a parecchie migliaia. Intorno alla utilità ed alla opportunità di questi conviti , convien riflettere come a quei tempi regnava gravis- sima carestia frumentaria in parte vera per le conseguenze di una epidemia che di- strusse gran numero di uomini e di animali (Herodian. Uist. I, 12; Dione, LXXII, 15) , ed in parte artificiale , per le scellerate operazioni di Oleandro , e di Dionisio Papirio prefetto dell’annona. Può dunque bene immaginarsi quanto ebbero ad esser graditi i pranzi esibiti da Lucilio; e quanta spesa gli occorse per isfamare tanta mol- titudine di gente. Nulla dirò delle Luciliane munificenze ulteriori registrate nella nostra epigrafe, perchè non rinvengo cosa particolare da osservarvi ; nè farò motto della statua in bronzo dorato giustamente erettagli dalla pubblica gratitudine. Solo in riguardo al. l’altra statua di bronzo al medesimo elevata PRoxvME-TRiBVNAL-QVAEs(forw) (Un. 39-40), sono in discordia col Mommsen, il quale interpreta l’ultima nota: QVAEs(ftom), ne- gando che i questori Ostiensi avessero potuto avere un tribunale proprio (Ephem. epigr. Ili , p. 330). Ma se costoro , a simiglianza dei questori Urbani erano ancora magistrati giusdicenti in quella sfera di affari relativa al loro ufficio , io non veggo per qual motivo dovea esser loro vietato di sedere in tribunale apposito e diverso da quelli dei duumviri e degli edili. Nè posso affatto credere alla esistenza d’un tribunale per alti crimini in Ostia, sì perchè nessun documento il dimostra, come perchè non ve ne sarebbe stato d’ uopo , attesa la vicinanza di Roma ove tali cause regolar- mente agitavansi. Il Quaesitor era ufficiale giudiziario esclusivamente Urbano ; nè può tenersi conto della falsa epigrafe di Apulum (Grut. 115, 6=Orelli, 3826: cf. tom. Ili, p. 416), che lo adatterebbe anche ai Municipii. Piorompe in ultimo luogo un’ altra discussione critica assai difficile, sopra le linee 40-44 della epigrafe cosi concepite: propterea-qvod-cvm reS'Pvbliga • praedia- SVA*VENDERET*OB*POLLICITATIONEM BELLI • NAVALIS • ttO* CXV • CG • REI • PVBLICAE • DONAVIT. Queste brevi parole , che formavano il fulcro principale dell’ antica dissertazione Digitized by Google — 168 — Mommseniana, attesoché credevansi riferibili alla guerra fra Ottaviano Cesare e Se- sto Pompeo ( Ephem . epigr . Ili, p. 323, e 330), rimasero invece uno dei grandi ed insuperati scogli nella nuova interpretazione del Cavedoni. Questo grande Archeolo- go, dopo aver notata V incertezza storica della frase « bellum navale » gittata cosi senz’alcuna specifica, e l’irregolarità filologica della XXIX, 22) ; non stimerei dunque essere impossibile che anche gli 0- stiensi , ad onta delle difficoltà finanziarie, avessero riprodotto parzialmente questo spettacolo in una solenne occasione, e colla non grave spesa dei quindicimila sester- zii regalati da Lucilio. Strana invece ed antistorica mi si mostra l’ipotesi Mommse- niana. Tralasciando il ripetere che M. Aurelio per le ingenti spese occorrevoli nelle guerre Germaniche e Marcomaniche non recò molestia ai sudditi ; ma pose in ven- dita nel foro Traiano tutte le preziose suppellettili imperiali, comprese le vesti mu- liebri, e i quadri dipinti da sommi artisti (Capitolino, M . Anton . PhiL XVII; XXI), noterò come la storia e l’epigrafia ci assicurano positivamente che in tali guerre non ebbe luogo alcun combattimento navale. I Marcomani non erano popoli rivieraschi; ma dimoravano ben lontani dal Danubio (Spruner, Altas antiq . tab. Vili); e solo i Sarmati Jazigi avrebbero potuto costruire qualche piccol numero di navi sull’ alto Tibisco, se pure le flotte Romane che padroneggiavano il Danubio e i suoi affluenti glielo avessero permesso. Ma il fatto sta, che Marcomani e Jazigi latrocinando sco- razzavano pe;r la Pannonia e per la Mesia solo in tempo d’inverno, quando il gran fiu- me era gelato, e potevano impunemente varcarlo colla loro cavalleria avvezza a galop- pare sulle nevi e sui lubrici ghiacci. Testifica Capitolino che l’imperatore filosofo *Mar- comannos in ipso transiti! Danuuii deleuit et praedam provincialibus reddidit (M. Digitized by i^oogie — 109 — Ani. Phil . , XXI) ; e Dione con maggior precisione soggiunge : Toùs Se ’laJuYa; ci ‘Pcopawi ev xe T>j yy itsxs xoxe, xai pexà x cù~o xai ’ev xù> irvxag.ù> ’evix>] 7 av. Xsyw 6è oùy ó'xt vorjjAayia ttg 6 y^ vst * » dXX’ ori dià xou "Icxpoo (peÙYGun elicvi ÈrcaxoXoujbfaavxes , xai éxst ics év r^etpio ifjLay^oavxo , x. x. X. (Dione, LXXI, 7). € Gravis est , dice il Mommsen , quod oetate imperatoria vice belli navalis mentio fit; quamquam ne haec quiclem omnino deficit , cum Vespasiani victoria navalis in i])sis nummis celebretur (Eckhel 0, 330), ubi constat intellegi proelium cum Iudaeis in lacu Genezareth commissum » (/. cit.). Ma invece di accettare ad occhi bendati, e far codazzo alla falsa sentenza dell’Eckhel da me confutata superiormente, ogni dotto numismatico ed epigrafista, per dimostrare le pugne navali avvenute sotto l’impero, avrebbe potuto commemorare con miglior giudizio le numerose monete di Domizia- no col tipo di Minerva sopra una barca fluviatile , in atto di combattere e di lan- ciare il giavellotto; avrebbe potuto citare la corona classica data dallo stesso Prin- cipe a L . Funisulano ed a Tiberio Claudio Vitale (Orelli, n. 3454); le due corone simili date da Traiano a L. Licinio Sura (C. /. L. VI, n. 1444) ; le altre più re- centi distribuite da M. Aurelio e da L. Vero, dopo la guerra Partica , a M. Aure- lio Frontone , ed a M. Ponzio Leliano ( ibid . nn. 1337 ; 1497); ed altri esempii an- cora, che suppliscono vigorosamente il silenzio degli Storici. Però è da riflettere che questi combattimenti navali sul Danubio furono possibili solo quando la riva si- nistra di questo fiume era posseduta da un potente e belligero Stato nemico, qual era la Dacia ai tempi di Decebalo e prima ; ma , dopo le splendide conquiste di Traiano, in quali arsenali avrebbero potuto quei barbari costruire altre navi da guerra capaci di fronteggiare le potenti armate Romane? Bene sta dunque l’assolu- ta mancanza di corone classiche fra i premii militari distribuiti da M. Aurelio do- po le vittorie Germaniche e Sarmatiche {ibid. nn. 1449; 1599); ed è dimostrata per conseguenza la falsità della spiegazione proposta dal Mommsen alla ultima oscura frase del marmo di Lucilio. Ciò posto, potrebbe chiedersi qual sia su questo problema la mia opinione. Com’è di dovere rispondo: sembrarmi assolutamente impossibile che le parole ob poljicita - tionem belli navalis valgano ad indicare una guerra, od almeno una pugna maritti- ma o fluviatile ai tempi di M. Aurelio. Guerre navali, nel vero senso di bellum , non ebbero più luogo dopoché dai Romani fu distrutta la potenza di Cartagine, e dopo- ché M. Agrippa ebbe prostrati e vinti M. Antonio e Sesto Pompeo nelle guerre Ci- vili. Unico e solo il navilio Romano percorreva da padrone tutti i mari: dal Baltico alla palude Meotide; dal mar Rosso al golfo Persico ed oltre. Furono quindi poste-, riormente possibili piccole scaramucce sul Danubio, come abbiam detto, ovvero sul- l’Eufrate; ma non altro , all’ infuori della continua caccia ai pirati, onde proteggere il commercio. Reputo perciò che la frase suddetta sia stata adoprata nel marmo Ostiense . 22 Digitized by v^.oogie in senso translato , cieé colla significazione di expeditio bellica navali*. Cicerone, eh 1 è forse l’unico ad usar le uguali parole « navale bellum » ( Orat . prò lege Manilia , X) , scrive pure : « Quam celeriter , Pompeio duce belli impetus navigavit » {ibid. XII) ; e Floro in modo più stringente soggiunge: « Regulo duce , iam in Africani navigabat bellum » (Floro, Epitome II, 2); dove ognun vede come il vocabolo beU lum serba appunto il significato di expeditio bellica. Ai quali eserapii già additati dai Lessicografi , possono congiungersi gli analoghi di Ovidio , di Silio Italico e di Stazio , che confermano tali interpretazioni (Cf. De Vit , Lexicon , s. v. Bellum , §§ 3, e 4). Considerato dunque sotto quest’aspetto Tenigma filologico, a risolvere il proble^ ma storico interviene subito Lampridio. Commodo , egli narra , « simulauit se in Africani iturum , ut sumptum itinerarium exigeret, et exegit eumque in conuiuia et aleam conuertit » (Lampr. Commod. IX). Questa trappola ebbe luogo nella primave- ra del 941 , come lo stesso Lampridio afferma: « tertio meditane de profectione , a senatu et populo suo retentus est. nota prò eo facta nonis Piis [ = Aprilis ] , Fa- sciano iterimi cornale » ( lde?n, ibid . XII; cf. Eckhel, VII, p. 120). I ribelli dell’Af- frica erano i Mauri Tingitani , che di tanto in tanto sollevavano la cresta: talché pochi anni prima , imperando M. Aurelio e L. Vero, osarono varcare lo stretto di Gibilterra e gittarsi a devastare la florida Spagna : « cum Mauri Hispanias prope omnes uastarent , res per legatos bene gesta sunt » (Capitolin., M. Ani. Phil. XXI). Ed il primo e più famoso di questi legati fu certamente C. Vallius Maximianus , al quale per gratitudine furono elevate statue ed onorevolissime epigrafi dalle città di Tarragona , e di Singilia Barba nella Betica (C. I. L . II, nn. 1120; 2015). Com- modo intanto , senza incomodarsi punto , sconfisse nuovamente quei ladroni : « uicti sub eo tamen , cum il le sic uiuerety 'per legatos Mauri « (Lampr. I. cit . XIII); enei 943 celebrò tal vittoria facendo coniar medaglioni colla epigrafe mavretania (Eckhel, VII, p. 123; 132). E qui non restandomi altro d’ interessante a soggiungere, conchiudo il mio la- voro dichiarando aver lieta fiducia che per le cose esposte siano state plausibilmen- te risolute tutte le gravi difficoltà che ottenebravano due insigni documenti storici , giacenti da lunghi anni o inesplicati , o calunniati , o male intesi , e sui quali eb- be a serbare profondo silenzio anche il Principe e Maestro di tutti gli Archeologi : BARTOLOMEO BORGHESI. Nel capitolo sesto ho promesso applicarmi alla illustrazione — lunga e diffici- le — della classica epigrafe Casinate di C. Um midio Durmio Quadrato y il cui ori- Digitized by ^jOoq le — 171 ginale conservasi nella Badia di Montecassino. Ma non essendomi finora riuscito di trasferirmi colassi! onde studiarla de visu , ed acquistare alcune nozioni che reputo in- dispensabili , son costretto serbare il proponimento ad altra occasione. Innanzi però di chiudere il primo volume della presente Storia, m’incumbe notare e discutere al- cune cose che la riguardano, espresse nel tomo XIV del Corpus inscriptionum La- tinarum , pubblicato fin dal 1887; ma che non prima degli ultimi mesi dell’anno se- guente pervenne alla Biblioteca Nazionale di Napoli, dietro le mie vive ed insistenti richieste. Ho quivi dunque viste riprodotte le epigrafi I7burtine dei Plauzii; ed in primo luogo quella di M. Plauzio Silvano (n. 3006), ove nei righi 8-10, leggesi: lartia- cn-F'Vxor||aplavtivs-m-f||vrgvlanivs. Io in buona fede seguii la lezione del Gar- rucci, non potendo immaginare che costui avesse in tal luogo letto falsamente satria, ed interpolato il vocabolo vrgvlània, la cui mancanza del resto per nulla è nocevo- le al mio albero genealogico delle parentele Elvidiane. Il Dessau però avrebbe dovuto espressamente notare tale interpolazione (posto che sia vera) d’un epigrafista non dispre- gevole. Nella lapide seguente di P . Plauzio Pulcro (n. 3607) veggo sanzionata l’antica lezione delle tre ultime righe: vibiamarsi-f ||laelianata||pvlchri ; e con ciò, ri- gettandosi la correzione [labliana] proposta dall* Henzen, si adotta invece la inter- pretazione piti ingegnosa del Bormann, che riconosce in laelia la madre di vibia, memorata all’uso Etrusco. » , Nella categoria poi delle epigrafi scoverte nell’agro Prenestino , riportasi sotto il n. 2844 quella dì C. Elvidio Prisco , qualificata per futili sospetti « portasse ori - ginis urbanae » , e senza specificarsi a qual personaggio appartenga. Ad essa fa se- guito l’altra di Plauzia Quintilia ( ibid . n. 2845), tutta ravvolta nella medesima in- certezza di attribuzione , e senza il menomo cenno esplicativo , quasiché nulla fosse ad osservarvi dal lato filologico. Però nelle addenda in fine del volume, alla pag. 494, ho rinvenuto il seguente grazioso monito: * Ad n. 2845. Plautiae Quinctiliae et filii eius P. Helvidii Prisci lapis sepulcralis; quod non monerem nisi male intellectum a Carmelo Mancinio ( Atti della R. Accademia di Archeologia di Napoli voi . ii (1883) /, p. 147) titulum atque prò mutilo suppletum esse animadverterem {est autem integer , margine ubique servato , ut ego olim observaveram et vuper mihi eonfirmavit 0. Hirschfeldius). Helvidium Priscum praetorem a . 70 Publium fuisse praenomine eundemque cum marito Plautiae Quinctiliae Fabrettius inscr. p. Ì73 posuit quidem , sed nequaquam probavit ». Intorno a questa nuova interpretazione della epigrafe di Plauzia Quintilia pro- posta dal Dessau è giusto e convenevole che brevemente esponga le mie osservazio- ni. Affermasi quivi in sostanza, che le due prime parole: plavtlae qvinctiliab, e la sigla consecutiva F{iliae) non sono affatto di easo dativo , come io ho riputato; ma Digitized by ^jOoq le — 172 — rappresentano invece tre genitivi, A dire il vero, simile opinione cadde in mente an- che al Fabretti , abbenchè non l’abbia confessata chiaramente in alcun luogo ; ma io T ho subodorata dal considerare come nel suo stemma genealogico degli Elvidii (/. D . p. 175), ha inserito qual figlio di P. Elvidio e di Plauzia il titolare dell’al- tra lapide Prenestina C. Elvidio Prisco. Ma questo non avrebbe potuta farlo se non avesse riputato che 1’ et • p • hblvidi • priscI esprima la stessa persona del marito di Plauzia , sepolto posteriormente insieme con essa. E per tal guisa dovè supplire in sua mente l’intera epigrafe: [« Sepulcrum ] Plautiae Quinctillaeae Publii Helvidii P risei [coniugis] et Publii Helvidii Prisci. Ognun vede dunque come questa antica opinione sia assai più semplice , piìi ragionevole , e meno difettosa di quella del Dessau , la quale ha bisogno assoluto non di due , ma di tre sottintesi essenziali ; cioè : l.° del nominativo reggente , sepvlcrvm, monvmentvm, o altro simile; 2.° del genitivo qua- lificante, coNivGis, vxoris etc.; 3.° del genitivo distinguente f filii. In altro caso, don- de si trae il dritto di asserire che dei due omonimi Elvidii uno sia il marito, e l’altro il figlio di Plauzia? Ma il fatto sta che ambedue le interpretazioni' esposte debbono assolutamente rigettarsi, imperocché, oltre dei grayi difetti intrinseci , con- tengono pure il peccato di anacronismo, consistente nel prolungare fino ai tempi d’im- pero innoltrato 1’ uso delle epigrafi in caso genitivo , che fu moderatamente proprio di epoca più antica. Di questa specie è, ad esempio, il marmo arcaico ■■■■■■■ bellissimo, scavato in Tusculum (C. I. L. I, n. 1046) : [M • CO]RNELI • M • F • PVP MAMVLLAI M • CORNELI • M • F • F MAMVLLAI EPPVLEIAI • A • F • VXORIS E quivi ben vedesi la regolare e non sottintesa distinzione fra i due omonimi padre e figliole della consorte ancora di quest’ultimo. Nelle epigrafi più recenti per con- verso veggonsi spesse volte posti in genitivo i nomi dei sepolti, ma sempre precede la forinola D(iw)»M(anifa«), o altra affine. L’uso poi adottato dagli Elvidii di redige- re le epigrafi funebri in caso dativo è dimostrato pienamente dall’ altra lapide di €. Elvidio Prisco , la quale non può disgiungersi^ da quella di Plauzia , per motivi evidentissimi che non fa d’uopo enumerare. A tutte queste ragioni poi soggiungo es- ser sommamente inverosimile che una famiglia senatoria, la quale nobilitava i suoi monumenti con eleganti cippi di marmo, avesse poscia calpestata la convenienza d’in- Digitized by ^ooq le — 173 — Balzare a P. Elvidio giuniore un monumento separato. Se io per poco appartenessi all’ improba classe di coloro i quali sogliono trarre le cose a proprio vantaggio , o per dritto , o per traverso, potrei, senz’altro, far buon viso alla interpretazione del Dessau, e spiegarla dicendo che, essendo stato Elvidio giuniore strangolato in carce- re per [ordine di Domiziano , l’ infelice vedova Antera , ne reclamò il cadavere , e fece seppellirlo entro la stessa tomba della madre, non potendo per legge elevargli alcun monumento. Ma la mia ragione sgomentasi alla vista della epigrafe mostruo- sissima Dessauiana, che non ha nè capo nè coda, ed è solamente composta di dieci genitivi ed una congiunzione ! Qual trista fortuna abbiano le epigrafi degli Elvidii nelle sentenze del Dessau, vien dimostrato ancora dalla nota apposta alla insigne lapide seguente, scoverta di recente presso Tivoli (C. /. L. XIV, n. 4239): HERENNIAE • M • F- HELVIDIAB • AEMILIANAB L . GLAVDI . PROGVLI CORNELIANI-COS ~ REGINAE • SVAE • H • C • POSVIT TI • GLAVDIVS • TI • FQVI- LIBERALIS • AEBVTIANVS EQVO • PVBLICO • PRAEF • FABR TRIB-MIL-LEG-fflCYRENAICAB DEC • CAES • COS • PR • CVM CLÀVD1A • NECTAREA VXORE Riguardo ad essa egli scrive soltanto: « Tarn Herennia Helvidia Aemiliana, quam L. Claudius Proculus Comelianus, eco hoc primum titulo innotescunt » (ad n. cit.). Ora conviene avvertire che simili assertive sono assolutamente false ; imperocché i detti personaggi comparvero in luce fin dal 1878 nelle « Notizie" degli scavi », e poco dopo furono anche commemorati nel Corpus ùiscript . Latinarum . È vero peraltro che in ambedue le edizioni ne uscirono assai malconci e travisati, e che ilsMom- msen regalò a Claudio Proculo non so quale ufficio di procura presso i Caralitani c € Procurator Karalitanorum quod offvcium denotet non liquet » (C. I. L. X , pag. 787). Ma adesso la epigrafe Tiburtina sorge in buon punto per smascherare gli errori onde venne affogata la bella epigrafe omonima esistente nel villaggio di EU mas vicino Cagliari , e ad additarcene la vera restituzione. Io qui la sottopongo, uni- Digitized by Google — 174 — temente alle due mostruosità finora stampate, per mostrare anco una volta sotto quali forche Caudine son condannati a passare i nobili e sventurati monumenti della mia Patria : Copia del Nisardi: (Not. degli scavi 187 8, p. 278 ) .. HERENNIAE M • P • HIMOIN.. M M \ \ I.. CLAVDI • PROCVL OKARALITA NORVM Copia dello Schmidt : (C. I. L. X , tu 7828) HERENNIAE mp-hr/vidia N E ivi ///> AL CLAVDI-PROCVR ///C RAR ALITA NORVM Restituzione perfetta: HERENNIAE M • P • helvidia[e] [a]e[milianae] CLAVDI • PROCV[Ll] [O R DO]* BARALI T A NORVM Qui potrei segnare il termine delle presenti ben prolisse note ed emendazioni ; ma invece son costretto supplicare la bontà dei Lettori ad accordarmi un altro pic- col tratto di compatimento, attesoché non so resistere alla tentazione d’illustrare una bellissima ed importantissima epigrafe del sopradetto agro Prenestino, nella quale son memorati altri personaggi coetanei del nostro Elvidio; e che inoltre presente la medesima severa forma stilistica di quella di Plauzia (C. 1. L. XIV, n. 2830): FLAVIAE • T • [p] SABINAE C ASSENNI • PARTI « Cippus magnus , palm. 5, lai. 3 . . . — Caesennius Paetus fonasse is est qui fuit consul ordinaria# anno p. C. 61 ( Tac . Ann. 14 , 29. Cf. Corp . VI, 597 , ex qu